Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Presentazione di “Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto” – Mercoledì 18 Settembre ore 21 – Circolo Arci Solaro a Lerici, dialogo tra Giorgio Pagano e Roberto Centi – Un’intervista e una recensione sul libro

a cura di in data 11 Settembre 2024 – 08:07

Invito

Presentazione di
Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto
Mercoledì 18 Settembre ore 21 – Circolo Arci Solaro a Lerici
dialogo tra Giorgio Pagano e Roberto Centi
Un’intervista e una recensione sul libro

Mercoledì 18 settembre alle ore 21 al Circolo ARCI Solaro di Lerici sarà presentato il libro “Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto” (ETS edizioni). Giorgio Pagano, curatore del libro, dialogherà con Roberto Centi, docente e consigliere regionale.
Nel corso della serata sarà visitabile la mostra fotografica “Uomini e navi”, dedicata a Dino Grassi e alle lotte operaie nel dopoguerra,
Il libro ospita scritti di: Giorgio Pagano, Marcello Flores, Luisa Passerini, Chiara Dogliotti, Giovanni Gozzini, Alessandro Santagata, Alfonso Maurizio Iacono, Massimo Cappitti, Luca Basile, Marcello Montanari, Guido Viale.
Sessant’anni fa, il 30 novembre 1964, iniziò l’occupazione di Sproul Hall, nel campus di Berkeley. Joan Baez intonò Blowin’ in the wind di Bob Dylan («Su quante strade deve camminare un uomo / Prima di essere chiamato tale?»). Mario Savio, leader del Free Speech Movement, tenne un brevissimo discorso agli studenti, basato sul concetto che «la storia non è finita» e che «è possibile una migliore società». Il Sessantotto fu la richiesta di un cambiamento di civiltà all’insegna della fratellanza: l’essere persone nuove e il sentirsi reciprocamente legati. Più che un movimento nato nelle sedi istituzionali della politica, un movimento “morale” che poi scoprì la politica ma non assunse una forma definita. E che volle rispondere alle sfide della secolarizzazione ricercando un nuovo senso della vita, intrecciando in questo tentativo spinte di provenienza marxista, cattolica, libertaria. Fu utopia, ma anche realismo, lotta per conquistare qui e ora una scuola e una fabbrica più libere e democratiche, una radicale riforma del sapere e della cultura, una maggiore giustizia sociale.
In questo libro storici, filosofi e studiosi di diversa provenienza riflettono e discutono ancora sugli anni Sessanta e sul Sessantotto. Forse perché l’utopia concreta di «una migliore società» non può esaurirsi, e la storia può e deve ricominciare. Quegli anni sono ormai molto lontani da noi, ma l’approccio umanistico contro un mondo disumanizzato è più che mai necessario.

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Di seguito un’intervista di Roberta Della Maggesa a Giorgio Pagano e una recensione di Maria Cristina Mirabello.

DALLA RIVOLTA DI SPARTACO AI CIOMPI FINO ALLA LEZIONE DEL SESSANTOTTO.
NEL POTERE NON C’E’ MAI GIUSTIZIA

Intervista di Roberta Della Maggesa a Giorgio Pagano
La Nazione – 5 luglio 2024

Pagano, è corretto dire che questo nuovo volume nasce per filiazione dall’esperienza della ricerca che ha condotto alla pubblicazione di ‘Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni ’60 alla Spezia e in provincia’?
Certamente, si può dire che il nuovo libro sviluppa il precedente. ‘Un mondo nuovo, una speranza appena nata’ è stato apprezzato non solo perché – lo ha scritto lo storico Paolo Pezzino – ‘è un’opera monumentale che restituisce alla Spezia, importante città industriale, il ruolo di primo piano che le spetta nel quadro dei sovvertimenti politico-sociali ed economici degli anni Sessanta’ ma anche perché la scelta della ‘microstoria’ per un fenomeno globale come il Sessantotto consente, utilizzando come prisma un’esperienza di provincia, di approfondire la comprensione della storia nazionale e internazionale di quegli anni. Da tutto ciò è scaturito un convegno, e poi un libro che approfondisce, con il contributo di studiosi di diversa provenienza, i nodi ideologici, storici e culturali che hanno presieduto al Sessantotto, alle sue origini negli anni Sessanta e alla sua ‘onda lunga’ nei Settanta.

In che modo gli studi condotti sul ’68 alla Spezia sono stati di stimolo per allargare la ricerca a una dimensione più globale?
Spezia, città non universitaria, fu protagonista del Sessantotto degli studenti medi: un movimento che ebbe contenuti interessanti, forse più ancora di quello universitario, e un livello di partecipazione più alto. Inoltre fu protagonista del Sessantotto operaio. La tensione morale per un mondo più umano fu molto forte sia tra gli studenti che tra gli operai. L’esperienza operaia fu contigua dal punto di vista comportamentale a quella studentesca: partiva anch’essa dalla soggettività, dal voler essere ‘persone nuove’, per approdare alla dimensione comunitaria. Inoltre dagli studi sgorga tutta la vitalità e la passione dei tanti giovani spezzini che sperimentavano nuovi valori di vita nella creatività culturale: a partire dalla musica e dal cinema – si pensi a Enzo Ungari – cominciò a formarsi la prima generazione globale, nel segno della ‘controcultura’.

Il libro si apre con una citazione di Edward Thompson, in cui la spinta rivoluzionaria che ha fatto da motore ai grandi movimenti di piazza del ’68 viene inquadrata come la risposta antropologica a un’offesa del potere, nelle varie forme in cui questa offesa si è espressa nel tempo. Cosa resta oggi di questa carica emotiva e intellettuale?
Thompson scrive del potere negli anni Sessanta. Ma nel potere non c’è mai giustizia: chi sta sotto non ha voce. Finché per qualche via viene loro la spinta morale a ribellarsi. Da Spartaco e dai Ciompi fino al Sessantotto c’è sempre stato chi si è battuto per la speranza di un mondo più umano, chi ha detto: ‘Io non ci sto’. Accadrà ancora. L’immagine della copertina del libro ritrae Mario Savio che parla agli studenti di Berkeley nel 1964. Joan Baez aveva intonato ‘Blowin’ in the wind’ di Dylan: ‘Su quante strade deve camminare un uomo/ Prima di essere chiamato tale’. Savio disse che ‘la storia non è finita’ e che ‘è possibile una migliore società’. Vale anche oggi: il sentimento che ha sempre mosso il riscatto di chi sta sotto è nascosto, ma il filo non si è spezzato.

Lei pensa che i giovani di oggi siano in grado di metabolizzare le offese del loro tempo?
Come nel Sessantotto dobbiamo partire dalla conoscenza, dal sapere: è ancora adesso la leva per cambiare la società. La riforma della cultura oggi significa fare i conti con il web. Il rischio è di essere esclusi dalle informazioni vere e di azzuffarsi sui social, soli e arrabbiati, in preda dei peggiori ciarlatani. L’antidoto è una scuola pubblica che sia così potente da dare a tutti gli strumenti per discutere e per comprendere: per navigare senza annegare. Vado spesso nelle scuole: tanti giovani vogliono ragionare con la loro testa, non con quella degli influencer. Dobbiamo stare di più al loro fianco, contro l’idea di scuola normalizzata e punitiva che sta avanzando.

Il ’68 sul piano internazionale è stato una risposta alla cocente delusione di miti andati in frantumi: quello americano, distrutto dalla guerra del Vietnam, e quello sovietico, appannato dalla primavera di Praga. Qual è il punto debole della mitologia contemporanea, il varco attraverso il quale potrebbe passare il cavallo di troia di una nuova spinta al cambiamento?
L’avversario è chiaro: il mix neoliberismo – neoautoritarismo  – bellicismo. Un sistema che aumenta le diseguaglianze, distrugge la natura, riduce la democrazia e la partecipazione, spinge alla guerra. La ribellione può partire da una delle ‘postazioni’ alternative: la lotta per la dignità del lavoro, l’ecologismo, l’antiautoritarismo, il pacifismo. I tanti punti di vista critici devono combinarsi in un’idea di cambiamento della società, in un ‘nuovo senso della vita’. Per ora non sono stati delineati dalla politica, ma dal papa: la giustizia sociale e ambientale, la pace. Francesco ci indica la strada: rintracciare nel profondo dell’umano la radice della ribellione contro un mondo sempre più disumanizzato. Il Sessantotto è ormai molto lontano da noi ma la necessità di questo sogno è la sua fondamentale eredità, generatrice di futuro.

A PROPOSITO DI STORIA CONTEMPORANEA
Maria Cristina Mirabello
www.isrlaspezia.it 26 agosto 2024

Il libro Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, uscito nel 2024 per le Edizioni ETS-Pisa, a cura di Giorgio Pagano, è la raccolta della maggior parte delle relazioni tenute da vari studiosi nel corso del convegno “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale”[1], convegno a sua volta innestato su una ricerca ad ampio raggio che, portata avanti negli anni precedenti, aveva prodotto un libro[2].
Questa recensione non può trattare analiticamente i densi saggi[3] che compongono Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, ma vuole soffermarsi innanzitutto sul titolo che il curatore ha scelto, per sintetizzare poi alcuni spunti suggeriti dalla lettura dei vari Autori.
Il titolo che Giorgio Pagano ha dato al libro del 2024 è diverso da quello che aveva caratterizzato il convegno del 2022: quest’ultimo si richiamava infatti,  più direttamente, alla precedente complessa ricerca di base[4], la quale, pur collocando i materiali raccolti in un vero e proprio mosaico inquadrato in coordinate nazionali e internazionali, si focalizzava, tuttavia, fondamentalmente, sul  territorio spezzino e zone contigue a esso, riguardo a geografia o ambiti culturali, con particolare riferimento alla Toscana e all’Università di Pisa.   D’altra parte, i lavori del convegno, nel marzo 2022, avevano, in un certo senso, già abbondantemente travalicato il concetto, peraltro utile, di “prisma spezzino”[5], per acquistare la dimensione di una riflessione a tutto campo sul Sessantotto.
Senza pretendere di spiegare le intenzioni che hanno portato il curatore Giorgio Pagano, il quale, nella sua Introduzione (pp.9-13), sottolinea, peraltro giustamente, gli aspetti di continuità tra la categoria interpretativa di “prisma spezzino” e Sessantotto in generale, a scegliere il titolo del 2024, vorrei fare alcune osservazioni sul binomio “realismo” e “utopia”, dicendo che esso si addice a una essenzializzazione del Sessantotto in generale.
Infatti, che cosa c’è di più realistico dell’utopia che, rivendicando altri luoghi e altri tempi, da quelli che ci offre un presente non condivisibile, e al quale vengono perciò opposte visioni “altre”, offre una speranza di cambiamento? E che cosa fu il Sessantotto se non un’utopia che traeva spunto dalla realtà ma che non riuscì a tradursi in realtà? E perché ci fu tale esito?
Nella instabile miscela di tanta-poca utopia e, complementarmente, di tanta-poca realtà (compresa la difficoltà di individuare categorie sufficientemente unificanti e capaci di incidere nel vivo pulsare dell’epoca), sta probabilmente l’essenza di una stagione, i cui caratteri non sono riconducibili a un profilo omogeneo, tanto che essi emergono in tutta la loro pluralità, storica e di interpretazione, dai saggi che compongono il libro.  Saggio dopo saggio, attraverso una navigazione che lascia pochi spazi a certezze, ma che ci rende più ricchi di dubbi e conoscenze, riusciamo così a individuare alcune problematiche di fondo, per guardare dall’oggi all’ieri, ponendoci domande.
Quell’ieri fu totale discontinuità o si inserì, a sua volta, entro un cambiamento che solo a un certo punto divenne rottura? E questa rottura, per molti versi spontanea, una sorta di presa di posizione esistenziale diventata immediatamente politica, evidente, di massa, a livello, per la prima volta, soprattutto giovanile, e, vera novità, studentesco, quanto fu accompagnata da una sufficiente nuova categorizzazione da parte di chi aveva fino a quel momento rappresentato le istanze politiche di cambiamento, ma anche quanto le categorie assunte da chi si ribellava subirono la fascinazione di quelle vecchie? E perché?
Il saggio6 di Giorgio Pagano, in coerenza al titolo del saggio stesso, mette in rilievo come il Sessantotto, lungi dall’essere un’esplosione repentina, venga da lontano, soffermandosi sul Sessantotto degli inizi (e sulla sconfitta da esso subita), un movimento che l’Autore, sulla scorta di Edgar Morin, definisce come “sovra e infra-politico”, “totalmente libertario ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente”, il cui principio animatore fu  la presa di parola per chi fino ad allora era stato silente,  la creatività, la fratellanza, e il cui sogno risultò poi  infranto a causa, afferma l’Autore, “del ritorno alla dottrina, alle vecchie nozioni, ai vecchi strumenti organizzativi”. Un Sessantotto, dunque, che nasce e muore velocemente, e che dura non oltre un anno, dal 1967 al maggio successivo. Pagano si domanda se potesse andare diversamente e afferma che, sicuramente, il pensiero di Gramsci (che allora mancò) sarebbe stato prezioso sia per interpretare quella che fu una rivolta morale, sia per dare una forma etico-politica umanistica ai processi di modernizzazione che erano in corso nella società italiana, ritenendo che talune domande siano più che mai attuali oggi, quando “Ci serve una reazione culturale umanistica all’avvento di un mondo tecnicizzato e disumanizzante”.
Di movimento globale, e delle ragioni di esso,  in un ampio contesto internazionale, cui fa specifici e argomentati riferimenti (corredati da numerose immagini),  parla Marcello Flores[6], il quale, dopo avere  offerto una  panoramica circostanziata, anche all’indietro nel tempo, si focalizza poi sul Sessantotto e sul fatto che, a suo parere, nel corso di esso, i movimenti che l’hanno caratterizzato “Dopo una prima fase fortemente originale e antiautoritaria sembrano retrocedere verso una più rassicurante tradizione, secondo logiche che sono prevalentemente quelle di ritrovare nel passato gli elementi caratterizzanti la rivoluzione…Nessuno di questi gruppi e di queste tendenze ha però la capacità di individuare una modalità di rivoluzione di tipo nuovo…”.
Luisa Passerini[7] riflette sull’ampia gamma di significati (e applicazioni) assunti dal concetto di “lungo Sessantotto” e di “post Sessantotto”, quest’ultimo talvolta modificato da alcuni in “lunghi anni Settanta”, sulle piste che si aprono per una storia comparata e sulle direzioni di ricerca perseguite in più campi, a livello inter e transdisciplinare, compresa la funzione sull’immaginario dei media, con puntualizzazione della differenza tra concetti di “attivismo” e “artivismo”.
Di un punto nodale riguardo al Sessantotto si occupa Chiara Dogliotti[8], la quale, riferendosi solo all’Italia e al “breve Sessantotto”, distingue le accezioni in cui può essere inteso il rapporto tra violenza e Sessantotto. Riconoscendo che, senza dubbio, l’attentato di Piazza Fontana a Milano, ha segnato un discrimine tra prima e poi, Dogliotti, non concorda su di esso come momento di “perdita dell’innocenza” da parte dei gruppi extraparlamentari. L’Autrice evidenzia così l’impossibilità di distinguere nettamente tra violenza difensiva  e violenza offensiva, osservando che “pacifismo e fascinazione per la violenza” convivono nel movimento di “contestazione”, come si può notare nelle imponenti manifestazioni connotate da pratiche non violente ma anche dalla “fascinazione estetica per la figura del guerrillero di cui Ernesto Che Guevara costituisce l’esempio più famoso”, sebbene si tratti “principalmente di una violenza teorizzata, propagandata e celebrata, ma non agita”. In definitiva, dice Dogliotti: “Proprio nell’opposizione tra la presa di parola, tratto caratterizzante il Sessantotto e il movimento da esso scaturito, e la sconfitta della parola, insita nelle pratiche armate della stagione successiva, si misura tutta la distanza tra i due fenomeni”.
Sul Sessantotto e i terrorismi riflette Giovanni Gozzini[9], il quale, innanzitutto, mette in evidenza la difficoltà di dare una definizione scientifica del fenomeno. Secondo un filone interpretativo largamente passato nel dibattito degli storici italiani ci sarebbe un passaggio “Da una contrapposizione tra l’iniziale spirito ribelle ma pacifico della contestazione e la susseguente degenerazione settaria violenta dei gruppi organizzati”. Ma l’Autore ritiene che occorra essere molto puntuali nella declinazione del “repertorio delle forme di azione dei movimenti di massa” e gli attentati terroristici, per cui “Sarebbe un grave errore disporle su un piano inclinato senza rotture di continuità”. L’ultimo gradino, quello degli indagati per fatti di sangue legati al terrorismo, è costituito, infatti, in Italia, da poco più di quattromila persone. D’altra parte, è, a parere di Gozzini, assai debole l’interpretazione secondo la quale “Il terrorismo nasce in Italia dalla necessità di proteggere i movimenti di massa e la prospettiva rivoluzionaria dalla reazione violenta degli avversari”. La tesi del nesso inverso tra Sessantotto e terrorismi non regge né in una prospettiva di storia comparata né per l’Italia, nella quale ultima, peraltro, non c’è solo una risposta repressiva da parte del sistema, basti pensare alle numerose riforme sociali, (tra esse, lo Statuto dei lavoratori del1970) e a quelle in ambito civile, riforme quantitativamente mai approvate prima in così gran numero dal Parlamento italiano. In realtà, il fenomeno terroristico è molto complesso, e configurabile come “Una propaggine estrema del ciclo della soggettività che il Sessantotto catalizza: la idea che il singolo possa cambiare la storia, quasi anche da solo”. E per singolo si intendono anche i piccoli gruppi, cui appartiene la maggior parte delle azioni terroristiche avvenute tra 1968 e 2007 in un campione di 15 paesi, su cui hanno evidentemente incidenza anche fattori di globalizzazione culturale, che diventano veri e propri paradigmi. In questo senso: “I terrorismi hanno una loro storia autonoma che deve essere ricostruita”. Il terrorismo va insomma vista come fenomeno ciclico nell’ambito della storia umana. In conclusione, Gozzini dice che la domanda giusta da porsi sul Sessantotto è perché la maggior parte dei giovani, compresa la “Piccola minoranza mobilitata nei movimenti di massa e coinvolta nel culto ideologico della violenza, non ha seguito il terrorismo, e a tale domanda possono risultare diverse le risposte”.
Parla della contestazione dei cattolici Alessandro Santagata[10], il quale circoscrive i termini temporali di essa tra due eventi, da un lato, a monte, il Concilio Vaticano II e, a valle, il Sessantotto, individuandone, per l’Italia, il carattere nettamente politico e il fatto che la contestazione cattolica non sia una semplice sfaccettatura di quella studentesca, ma un fenomeno ben più complesso. A suo parere “Il Concilio aveva fornito le pezze di appoggio tanto ai sostenitori del superamento della concezione neo-medievalista della ‘cristianità’ in favore di una ‘cristianità profana e democratica’, quanto a coloro che intendevano superare anche quello schema e separare definitivamente fede e identità politica”. Il problema andava ben oltre alla questione dell’unità politica dei cattolici, non si trattava infatti di moltiplicare i partiti di ispirazione cristiana ma di superare la figura, ispirata a Maritain, del politico cristiano, perché solo così poteva essere evitata ogni strumentalizzazione della religione da parte della politica e impegnare i credenti, insieme alle altre forze della sinistra, in una rifondazione culturale laica e universale della società. Santagata ripercorre così per l’Italia gli avvenimenti di quegli anni, seguendo più tematiche: quella più propriamente legata alla dimensione politica delle elezioni, quella riguardante le associazioni cattoliche e i così detti “gruppi spontanei”, il cammino delle ACLI.  Il Sessantotto è stato, per tale complesso fenomeno, un momento di accelerazione ma anche di trasformazione, e, per certi aspetti, di rottura. Nascono così i “gruppi spontanei”, presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, che dibattono sul rapporto tra identità religiosa e appartenenza alla sinistra, contestando abbastanza rapidamente quest’ultima, per approdare all’idea di una “nuova sinistra”, pur mantenendo salde radici nel campo cattolico, come ben emerge dalle denominazioni assunte dai gruppi stessi (Maritain, Mounier, don Milani, Persona e comunità, Esprit).
Secondo l’Autore, a unificare le esperienze della contestazione cattolica a livello globale, c’erano almeno due immaginari, quello del ‘68 e quello del cristianesimo dei poveri e della pace, compresa la penetrazione delle teologie latino-americane. In tale ambito si affacciavano anche tematiche del tutto nuove, come quella della sessualità e della pillola anticoncezionale. In definitiva, secondo Santagata, “La contestazione dei cattolici è stata nella sua durata medio-lunga anche una delle sfaccettature del ’68, di cui condivideva la ricerca di un orizzonte politico nuovo e di una nuova società. Non per un’altra Chiesa, ma per una ‘Chiesa altra’”.

Riflette sul Sessantotto, su Marx, su Raniero Panzieri e sul ritorno al Capitale, Alfonso Maurizio Iacono[11] ponendo l’importanza della “Ripresa de Il Capitale in un contesto come quello italiano nel biennio ’68-’69, un fenomeno particolarmente significativo a Pisa che si caratterizzò, a differenza di altre università e di altre città italiane e non solo italiane, quasi da subito e propriamente per l’attenzione politica verso la centralità della fabbrica e del lavoro operaio”.  Iacono individua i tratti precorritori di Raniero Panzieri e degli intellettuali che egli raccolse intorno a sé nell’ambito della rivista “Quaderni rossi”, dicendo che essa ebbe il merito di condurre un’analisi del capitalismo italiano molto diversa da quella della sinistra italiana, avendone rilevato i caratteri di vero e proprio “neocapitalismo”, compresi gli effetti derivanti da ciò. Secondo Iacono, fu la ricerca di Panzieri che costrinse tutti a rileggere non solo il Marx dei Manoscritti o dell’Ideologia Tedesca, ma quello de Il Capitale. Panzieri pensava che il capitalismo italiano non fosse infatti “straccione”, come lo definiva la sinistra dell’epoca, ma forte e pianificatore, e che ciò avesse conseguenze enormi sul piano teorico, per cui il rapporto ricchezza-povertà non andava più posto sul piano diacronico del prima e del poi, essendo del tutto coessenziale. Non solo, Panzieri si occupava in modo nuovo del rapporto tra partiti e organizzazione politica. È vero, dice Iacono, che, a partire dagli anni ’80 del Novecento cambia tutto e non esiste più la centralità della fabbrica, ma questo non significa non riconoscere a Panzieri l’importanza di un ritorno a Marx, contro ogni forma di marxismo revisionista o stalinista. Non solo, del pensiero di Panzieri rimangono, attualissimi, alcuni aspetti, tra essi il richiamo al Marx della IV Sezione de Il Capitale. Il limite di Panzieri sta, sempre a parere di Iacono, nell’individuare lo Stato come pura emanazione della pianificazione, non esistendo né una pianificazione totale né un’anarchia pura. Attuale è inoltre Panzieri per la questione inerente al rapporto tra dirigenti e diretti, nell’ambito di un’azione politica intesa come globalità. La conclusione dell’Autore è che, se c’era un’istanza potente nel Sessantotto, essa era quella di un’altra democrazia, insomma, il richiamo a una democrazia diretta, oggi più che mai esorcizzata, visto che quella attuale “È una democrazia fondamentalmente oligarchica, teorizzata come tale e non lo è diventata casualmente”. In una Postilla finale, Iacono riprende alcuni spunti da testi di Nicola Badaloni, con riferimento, tra gli altri, a Il marxismo di Gramsci del 1975, in cui Badaloni denota, da un lato, l’attrazione intellettuale di Gramsci per George Sorel, e, dall’altro, il fatto che poi Gramsci si volgesse all’elaborazione dei concetti di direzione consapevole, egemonia, rivoluzione passiva, con l’inserimento dello spirito di scissione. E Iacono, riferendosi alla propria esperienza di studente a Pisa, osserva che è forse proprio ciò che, a quel tempo, egli stesso, allora studente, e gli studenti come lui, chiedevano, quando rivendicavano l’importanza della rottura nella storia.
Secondo alcuni studiosi, conclude Iacono, la storia dei partiti di massa era iniziata nel 1848 e si era conclusa nel 1968, mentre “Badaloni sperava ancora che il ’68 non avesse segnato tale fine, ma anzi quasi l’inizio. Non è andata così”.
Massimo Cappitti sottolinea la comunanza di tematiche tra Günther Anders e il Sessantotto[12], mettendo in evidenza anche come, in realtà, sia però mancata una collaborazione assidua, quale ci si sarebbe attesa, tra il filosofo tedesco e il movimento.  Anders ironizza infatti su una serie di aspetti che caratterizzano il movimento pacifista, al quale lui stesso aveva partecipato, definendo illusorio donare fiori ai poliziotti, insulsa la pratica del digiuno, mentre va invece ripensato l’uso della forza. Dice tuttavia Cappitti che dalle riflessioni di Anders non si può trarre indicazioni per una politica significativa, perché il suo obiettivo è quello di sconcertare, suscitare angoscia per farci confrontare con un presente tragico, in cui il problema non è quello di un buono o di un cattivo uso della tecnica, poiché è proprio la tecnica che grava sul mondo e sull’uomo. Il mondo è infatti permeato da un totalitarismo morbido che rende superfluo l’uomo, il quale collabora spesso, entusiasticamente, alla spoliazione di se stesso. Infatti, all’uomo viene offerto un mondo già interpretato, da cui non può derogare, in cui il regime totalitario mostra un sembiante bonario, ma, proprio perciò, è tanto più feroce. I soggetti, modellati dal totalitarismo, nel tempo libero, hanno, a causa dell’industria culturale, paradossalmente, una libertà minore di quella di cui godono nel tempo di lavoro. Insomma, gli individui vengono plasmati in tutto, anche riguardo alla parola per dire il mondo che a essi è offerto, già spiegato.
Si sofferma sulla cultura comunista, caso italiano, democrazia di massa Luca Basile[13],  il quale, richiamando un libro-intervista di Pietro Ingrao a Nicola Tranfaglia, sottolinea: “L’idea è che la  data periodizzante del ’68 se, per un verso, avvia un ciclo di lotte destinato ad essere definitivamente ‘battuto’ colla conclusione del decennio Settanta, per un altro, in effetti, coagula al culmine domande e spinte innovatrici sedimentate con la prima affermazione del ‘neocapitalismo’ che non troveranno mai sbocco in una soggettività storico-politica trasformatrice davvero all’altezza delle sfide squadernate. Il ’68, potremmo dire, ‘apre’ e ‘chiude’. Apre un processo -poi interrotto alla fine del decennio successivo- di appropriazione della ‘democrazia di massa’, ma volge anche subito verso il graduale indebolimento della forza e della produttività di alcune istanze sociali introdotte dalla stessa ‘contestazione’ e dal ‘sindacato dei consigli’”.
Su tale base l’Autore imposta un’ampia analisi concernente una serie di nodi: il rapporto tra PCI e “contestazione”, il fatto che da parte di quest’ultimo non sia stata però  acquisita, in tutta la sua portata storica, la critica della democrazia per una modernizzazione di essa, riconoscendo tuttavia in Pietro Ingrao uno dei pochi dirigenti comunisti “Autenticamente legati alla lezione gramsciana, che intorno alla saldatura fra la stagione dei conflitti post ’68 e democrazia di massa aveva incentrato il proprio contributo, e che nel ’76, in virtù del nuovo clima era stato eletto presidente della Camera”, mettendo in luce come proprio Ingrao riflettesse “Sulla necessità di superare la ‘separatezza’ delle forme della politica” fissando nell’ampliamento e rafforzamento della trama delle assemblee elettive il primo precipitato dello sforzo in tal senso”. Secondo Basile l’approfondimento teorico forse più stimolante della linea accennata da Ingrao è da vedersi in uno dei maggiori esponenti del marxismo neogramsciano della così detta “scuola di Bari”, cioè Biagio De Giovanni e nel libro-manifesto del 1973 Mezzogiorno e intellettuali.   Tuttavia, secondo Basile, il PCI mancò di “Fare tesoro di simili spunti, attardato su una visione ‘catastrofista’ dei cambiamenti in corso”, persistendo nel richiamo alla priorità del ruolo assoluto della classe operaia e nella tendenza a privilegiare l’autonomia del piano politico, commisurando ad esso il proprio ceto dirigente. Si era insomma esaurita, secondo l’Autore, la sintesi culturale operata da Togliatti. Si verificò quindi un vuoto teorico in cui il PCI si trovò stretto tra sconfitta di fatto del dialogo con la DC, causata dal rapimento Moro, l’accumulo di aspettative tradite e l’incapacità di cogliere i segni ormai maturi della crisi del welfare nazionale.
Riflette sulle ragioni di un movimento e su quelle della sua sconfitta Marcello Montanari[14], Il quale, richiamando sia quanto detto da Paolo VI, il quale pronuncia nel 1978 l’omelia per Aldo Moro, sia lo stesso Aldo Moro nel suo discorso al Consiglio Nazionale della DC del 21 novembre 1968 e poi all’XI Congresso della DC, richiama la drammaticità dei tempi, individuata dal Papa e da Moro, in un processo di secolarizzazione che mette in discussione le fondamenta stesse della vita sociale. Secondo Montanari dal discorso di Moro si può ricavare che, se la secolarizzazione è segno della perdita dell’Autorità come Verità, questa presenza della Verità può esser ricostruita non attraverso la militarizzazione della Chiesa, non attraverso una politica-potenza, ma solo attraverso una democrazia partecipativa. E proprio a quest’ultima, osserva l’Autore, aspirano i movimenti giovanili dell’epoca che vogliono espandere la vita democratica attraverso la crescita e la diffusione delle facoltà di governo. Ma, secondo Montanari, è proprio l’idea di una democrazia partecipativa che impaurisce le classi dominanti.  Insomma, Aldo Moro ritrova nel ’68 non una critica della cultura e della scienza ma le potenzialità di una riforma dei saperi, tematiche che riguardano il governo e la crescita della democrazia nella società industriale e di massa. Proprio perciò la figura sociale dello studente risulta essere rilevante e significativa, anche se l’interrogarsi su tale novità si interruppe, come dice Guido Crainz, richiamato da Montanari, travolto da una politicizzazione estrema che ridusse i conflitti a vecchi schemi.
Secondo l’Autore, infatti, la cultura dominante dei molti gruppi politici minoritari che animarono il post ’68 era la visione della centralità della classe operaia e della classe come soggetto precostituito rispetto allo stesso meccanismo di riproduzione capitalistica. Ma la stessa risposta del PCI, il quale aveva a sua volta un orizzonte operaista, fu debole. Da qui l’interrogarsi dubitativo del PCI sulla figura dello studente, e se essa fosse morfologicamente assimilabile a quella dell’operaio. Accadde così che anche nel movimento degli studenti prevalesse un’ideologia operaista. E questo successe perché la cultura del PCI era ancora quella della centralità della fabbrica, non riuscendo a capire che nella società dei consumi il problema dell’egemonia si giocava ormai su come e che cosa consumare. La domanda di nuova democrazia e di una democratizzazione dei saperi non fu perciò intercettata, o venne vista in modo riduttivo. Il movimento studentesco denunciava il fatto che il nodo era quello della riforma dei saperi, il ’68 poneva dunque il problema di una democratizzazione dello Stato, ponendosi come momento conclusivo di un cammino iniziato con la Costituzione. La posta in gioco dimostra le responsabilità di chi, nei Partiti di sinistra, non seppe comprenderla, e di chi, nelle organizzazioni minoritarie, volle spingere il movimento verso una ideologia rivoluzionaria. La secolarizzazione poteva essere combattuta attraverso una riforma dei saperi che il movimento operaio, però, non seppe cogliere e nemmeno lo fecero i movimenti giovanili, dimostrandosi troppo poco gramsciani.
Guido Viale[15] osserva che, riguardo a quanto ha già scritto in due suoi libri precedenti, il primo[16] uscito nel 1978 e poi variamente ristampato, anche in tedesco, il secondo[17] uscito in due edizioni, ha ben poco da aggiungere, sottolineando come il ricorso alla memoria individuale per interpretare i fatti sia irrinunciabile, e riconoscendo tale caratteristica al libro Le ragioni di un decennio di Giovanni De Luna.
A parere di Viale, dopo la fine del ’68 si sono contrapposte due interpretazioni: una che  lo vedeva come l’ultima  manifestazione di un’epoca ormai trascorsa di stampo otto-novecentesco, caratterizzata da grandi soggetti collettivi e ideologie, l’altra che individuava in esso la prima manifestazione di una nuova era, con l’irruzione sulla scena della rivolta degli studenti, la figura del lavoratore della conoscenza, il cognitariato  (proletariato della conoscenza), insomma, il così detto neo operaismo,  dapprima dissolto nella Rete e poi nel magma indifferenziato della moltitudine. A parere dell’Autore, in ambedue le interpretazioni c’è un nucleo di verità, ma anche molte cose sbagliate che possono essere messe in luce interpellando i protagonisti. Sicuramente l’eclisse, cui è soggiaciuta la memoria del ’68, è dovuta alla dissoluzione di molte certezze del movimento stesso operata dal femminismo, che aveva svelato la componente maschilista e i presupposti patriarcali di esso.  Ma la causa principale che ha fatto dimenticare il ’68 è il suo limite intrinseco: stava velocemente prendendo corpo un’epoca caratterizzata dal rapido deterioramento dell’ambiente e dalla troppo lenta coscienza di quel processo. Il ’68 non è stato insomma ecologista, anche se in quegli anni il pensiero ecologista compiva importanti passi. Il ’68, in Italia e altrove, è limitato a un orizzonte antropocentrico e androcentrico, in un quadro fondamentalmente sociale, sebbene notevoli fossero le analisi che, rivolte al Sé, erano applicabili alla vita quotidiana di tutti, prima ancora che lo facesse il femminismo. In tale ambito secondo l’Autore “Il marxismo c’entra poco. C’entra l’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper e soprattutto la psichiatria di Franco Basaglia. C’entrano, specie il Germania, le ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, anche se poi era toccato ai suoi autori, Adorno e Horkheimer, che non avevano saputo riconoscere nel movimento un frutto delle loro ricerche, fare da bersaglio alla contestazione studentesca” mentre aveva visto, a ragione, nel movimento degli studenti un inveramento delle sue elaborazioni, l’Herbert Marcuse di Eros e civiltà e di L’uomo a una dimensione. Occorre anche pensare, quali fonti, a Rudi Dutschke, alla poetica beat giunta dall’America, al rifiuto di andare combattere in Vietnam, ma anche alle pubblicazioni dell’Internazionale situazionista, che avrebbe ispirato la rivolta del campus francese di Nanterre. C’entrava, inoltre, un lungo lavorio in campo pedagogico, quello don Milani (Lettera a una professoressa) e di Paul Freire (La pedagogia degli oppressi).
Viale nega recisamente ogni contiguità tra il narcisismo competitivo e i movimenti del ’68 perché il primo nasce dall’affossamento del valore della cooperazione su un piano paritario, quella sorta di Felicità pubblica, definita da Hannah Arendt “Un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva”, che invece fu tipica del ’68.
E comunque, poiché l’interno dei movimenti era famiglia, scuola e, per molti, la religione, proprio perciò quegli anni non possono essere ricondotti all’orgia di ideologia “marxista-leninista”, spesso tradotta in forme grottesche, da quelle assimilabili al libretto delle Guardie rosse, a ritratti di Stalin portati in processione. Il vero sostrato era dato dalla ribellione: gli studenti non erano spinti né dal partito né dall’ideologia né dalla storia, ma dal bisogno di prendere le distanze dall’autorità, della famiglia e della scuola, per costruire una vera fratellanza e sorellanza con i propri coetanei e coetanee. L’esterno del movimento aveva un alto e un basso. Il primo era la struttura classista della società, di cui scuola e università erano anticamera, e che andavano destrutturate con una lunga marcia attraverso le istituzioni, una presa di posizione antigerarchica. Il basso era la classe operaia e le lotte operaie, le quali avrebbero beneficiato di tale critica. Un seguito delle rivolte studentesche fu infatti la mobilitazione degli operai in fabbrica ritrovabile in più Pesi.  E proprio ciò indusse il capitalismo a procedere nello sviluppo della fabbrica diffusa e nella fondazione della Trilateral, una rete di uomini più addentro al potere, nei tre gangli di esso all’epoca (USA, Europa e Giappone), per dare vita alla rivoluzione neoliberista. Ma se il ’68 è stato una rottura della normalità, cioè di quello che viene chiamato sviluppo, ormai non si può prescindere dalla crisi ambientale e climatica che mette in forse il futuro di tutti. Vanno perciò riconsiderati i termini della lotta antiautoritaria, non può esserci emancipazione sociale senza la possibilità che i cicli fisici e biologici su cui si regge la vita di questo pianeta si riproducano e si rigenerino. “Ai binomi comandare e ubbidire, o oppressi e oppressori, tutti interni all’universo dei soli rapporti tra gli esseri umani sullo sfondo di una ‘natura’ inerte’, che non partecipa al conflitto, si dovranno sostituire binomi come dominare e subire, ovvero devastare e soggiacere…”, dunque, una visione ben più ampia.

 

[1] Svoltosi alla Spezia il 25 e 26 marzo 2022, per iniziativa dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e dell’Associazione Culturale Mediterraneo,
[2] G. Pagano, M.C. Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, Dai moti del 1960 al Maggio 1968, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019; vol. II, Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo, Edizioni Cinque Terre, la Spezia, 2021.
[3] La pluralità di essi è ben connotata nella seconda parte del titolo: “Appunti sul Sessantotto”.
[4] V. Nota 2.
[5] Quanto il concetto di “prisma spezzino” sia difficilmente riducibile a un ambito meramente locale, è ben deducibile dal complesso materiale di due archivi, quello di Giuliano Giaufret e quello di Ganluca Solfaroli, che hanno costituito una importante documentazione per il libro di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello citato alla Nota 2.  Tali archivi, successivamente acquisiti, per liberale dono dei proprietari, dall’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, sono visibili, come titoli e contenuti di massima, al seguente link: www.isrlaspezia.it/altri-archivi/.
[6] Il contesto internazionale del Sessantotto, pp. 35-59.
[7] “Lungo” Sessantotto e “Post-“Sessantotto, pp. 61-71.
[8]  Perdere la parola. La violenza politica e il Sessantotto, pp. 73-81.
[9] Sessantotto e terrorismi, pp. 83-95.
[10] La contestazione cattolica tra Vaticano II e Sessantotto, pp. 97-106.
[11] Il Sessantotto e Marx. Raniero Panzieri e il ritorno a Il Capitale, pp. 107-117.
[12] Günther Anders e il Sessantotto, pp. 119-123.
[13] L’onda lunga del Sessantotto. Aspetti del dibattito su cultura comunista e “contestazione”, “caso italiano” e democrazia di massa, pp.125- 141.
[14] 1968. Le ragioni di un movimento. Le ragioni di una sconfitta, pp.143- 153.
[15] Condivisione versus gerarchia. L’antiautoritarismo, nucleo duro del sessantotto globale, pp. 155- 169.
[16] Il Sessantotto-Tra rivoluzione e restaurazione.
[17]  Con due titoli diversi: A casa. Una stori irritante; Giorno dopo giorno-50 anni di nuovi inizi.


La gradita occasione – a sorpresa – era quella di festeggiare i 70 anni di Giorgio Pagano, ex sindaco della Spezia e da diversi anni storico, cooperatore internazionale nonché co-presidente del Comitato Provinciale Unitario della Resistenza. Una bella serata con gli amici di una vita organizzata ieri sera al Circolo Arci di Solaro che è stata anche un’opportunità di approfondimento e riflessione iniziata alle 19 con la visita alla mostra fotografica “Uomini e navi” che ha proceduto la cena conviviale nelle stanze del circolo e la presentazione del libro “Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”, sulla quale hanno dialogato Pagano e il professor Roberto Centi. Un momento di riflessione collettivo che ha avuto un prologo con la performance di Renzo Cozzani che con la sua chitarra ha improvvisato la canzone “The river” di Bruce Springsteen, il cantante preferito del festeggiato. Subito dopo è venuto il momento dell’intervista nella quale Centi ha chiesto a Pagano di raccontare il suo Sessantotto. “Avevo quattordici anni, mi ero appena iscritto al Liceo. La mia era una ribellione esistenziale, antiautoritaria molto sui generis. Al centro c’era il rapporto con la famiglia, il modo di vestirsi e di portare i capelli, la musica beat che i ‘matusa’ non sopportavano… E poi la scuola: mi era sempre piaciuto studiare, ma in terza media ero entrato in rotta di collisione con alcuni insegnanti, i loro metodi nozionistici… L’istanza iniziale fu intensamente personale, poi sopraggiunse l’idealità politica, molto influenzata da quello che succedeva nel mondo, dal Vietnam a Praga. Ognuno ha vissuto il suo Sessantotto, ma c’era un ‘collettivo’ che univa tutti, in cui ognuno cercava di essere una persona nuova. Fu una festa all’insegna dell’incontro con gli altri, l’assemblea ne era il simbolo”.

Centi e Pagano si sono poi soffermati sulle tracce di quella storia che ci parlano ancora. E qui Pagano ha insistito sulla partecipazione: “A me fa molto piacere essere ricordato come ‘il sindaco della partecipazione’. Oggi bisogna ricostruire la democrazia con la cittadinanza attiva: tutto il contrario della politica ricondotta a un capo. Il Sessantotto fu innanzitutto questo, come diceva Gaber nella sua canzone”. Inoltre mise al centro la scuola: “Gli studenti posero i temi della democratizzazione dei saperi, della vita quotidiana, del costume, poi dimenticati in una visione del cambiamento tutta economicistica. La politica deve anche parlare di ‘senso della vita’, di una nuova moralità, altrimenti non muove le passioni. Per questo la scuola è centrale: una scuola pubblica che sia così potente da dare a tutti i ragazzi gli strumenti per discutere e per comprendere, per ‘navigare senza annegare’, e che metta al centro non solo la responsabilità individuale, come propone la riforma dell’educazione civica di Valditara, ma anche la responsabilità sociale”.

Ci fu anche un Sessantotto pacifista, ha aggiunto Pagano: quello del movimento hippy, di Martin Luther King, di Capitini: “Oggi non giunge un soffio di voce che dica pace, quel Sessantotto lo sentiamo ancora vicino, ancora oggi cantiamo le canzoni pacifiste di allora”. La discussione non poteva non affrontare anche il nodo dei partiti. “La crisi dei partiti è cominciata nel Sessantotto e non ha avuto più fine – ha detto Pagano – io scelsi la postazione del PCI, ma il partito non si pose come erede del movimento e di tutto quello che conteneva di positivo, di nuovo. Penso sia una responsabilità storica: non aver saputo cogliere quella spinta, traducendola in una carica riformatrice della società. Non ci riuscirono nemmeno gli altri partiti di massa. Sia Berlinguer che Moro ci provarono, ma non ce la fecero. Tutto ciò ha contribuito alla separazione tra politica e società di cui oggi si soffre. La carica utopica non è diventata politica realistica, per venire al titolo del libro. Nel vero realismo ci dev’essere almeno un po’ di utopia”.

L’ultima domanda ha riguardato gli impegni futuri di Pagano: “Continuo a fare il cooperante internazionale, tra vittorie e sconfitte. Ho fatto bellissime esperienze in Africa e in Palestina, “con” gli africani e i palestinesi, non “per” loro. Progetti discussi e negoziati con loro. Noi non sappiamo tutto su quel che serve a queste popolazioni, non dobbiamo avere sguardi dall’alto, neocoloniali. Invece spesso è così. In questi casi mi sono scontrato, me ne sono andato. Sempre nel nome della partecipazione”. E poi l’impegno di storico: “Siamo in un’epoca smemorata e disperata, tutta racchiusa nel presente. Ecco perché bisogna studiare la storia, e farne parlare alcune tracce ancora vitali. Il mestiere di storico non è eccentrico rispetto alla mia vita, la continua in una nuova postazione: i miei sono libri di lotta e di speranza”.

Infine una rivelazione sul nuovo libro a cui Pagano sta lavorando: “E’ un libro a cui lavoro da molti anni, su tre partigiani protagonisti della Resistenza degli inizi, tra Emilia, Toscana e Liguria: Aldo Cervi ‘Gino’, Dante Castellucci ‘Facio’, Primo Battistini ‘Tullio’. Ognuno accusato dell’uccisione dell’altro. Il quarto personaggio è il Partito comunista, o meglio i dirigenti comunisti con cui in vario modo i tre si scontrarono. Ma la logica di partito era uguale in tutti i partiti. I partigiani stavano combattendo la loro lotta, non la lotta del passato, degli antifascisti del confino. Avevano scoperto la democrazia, la dignità. I dirigenti comunisti avevano un’altra storia, i loro schemi dottrinari… Con questo non voglio dire che ci fosse un Eden iniziale. E nemmeno che i comunisti non avessero una storia da rispettare, anzi. Senza di loro, e senza i partiti, la Resistenza non avrebbe vinto. Il libro sarà il racconto – basato in buona parte su archivi inediti, pubblici e privati – di queste vite, del fascino dei due mondi, del loro scontro ma anche del loro incontro, che ci ha dato la libertà. E però questo incontro poteva essere ben più vitale, e l’Italia del dopoguerra ben più libera e giusta. Se il realismo avesse incontrato di più l’utopia… Ritorna il tema di sempre. Alla fine la traccia della storia che ci parla di più è la lotta che i partigiani combatterono per migliorarsi e per migliorare il mondo. Questa è la molla della storia, l’interrogativo è sempre lo stesso: l’utopia diventerà realismo?”.

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