Presentazione di “Le ragioni per un ritorno alla socialdemocrazia” di Salvatore Biasco a Sarzana, 20 luglio 2022 – Intervento di Giorgio Pagano
Presentazione di “Le ragioni per un ritorno alla socialdemocrazia”
di Salvatore Biasco
Sarzana, 20 luglio 2022
Intervento di Giorgio Pagano
“Le ragioni per un ritorno alla socialdemocrazia” è un libro molto stimolante, come gli altri precedenti di Salvatore Biasco, uno degli intellettuali più “pensanti” della sinistra (uno dei suoi libri si intitola appunto “La sinistra pensante”). Sono stato e sono quasi sempre d’accordo con le sue analisi e proposte: da qui una larghissima sintonia con i miei testi, che spesso lo citano. Il mio intervento cercherà quindi di “legare” le sue e le mie riflessioni.
L’accordo è in primo luogo nella consapevolezza che la sconfitta della sinistra è anzitutto culturale, di fronte a una trasformazione antropologica.
Scrive Biasco:
“La trasformazione della società a cui un certo disarmo culturale delle forze di sinistra non ha saputo porre un argine efficace (forse non si è neppure accorta che stesse avvenendo) è più profonda di quella determinata dalle fratture sociali: è anche antropologica. Nelle trasformazioni delle politiche, l’idea del mercato, della competizione, è entrata anche a livello individuale: nella sollecitazione di ciascuno a fare un’analisi costi-benefici e prendersi le responsabilità delle scelte. Scegliere, cioè, la scuola, scegliere la sanità, il fornitore di servizi pubblici; insomma un’educazione a introiettare una concezione totalmente diversa del mondo, quella in cui una soggettività si forma attorno all’individuo che partecipa al mercato”.
Nell’introduzione a “Non come tutti”, un mio libro del 2014, scrivevo:
“Nonostante tutto, l’ideologia neoliberista ha ancora un largo consenso. L’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale. Oggi tutti i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza”.
La frattura, l’opposizione, è rappresentata, aggiungevo, “dai diversi populismi”.
Biasco giustamente si sofferma sulla frattura espressa dal populismo sovranista.
La “grande domanda” è: chi sarà in grado di dare una prospettiva a queste fratture culturali?
Scrive Biasco:
“La rottura è iscritta nel successo stesso del neoliberismo, che ha eroso le vecchie identità collettive, la ‘società del lavoro’ e il nucleo progressista della cultura dei ceti popolari. In assenza di una coscienza di classe, la ricerca di una identità collettiva si è indirizzata verso l’unico progetto che sembrava offrigliela, quello che additava un nemico esterno nelle istituzioni internazionali e nelle élite politiche ‘mondialiste’ responsabili della situazione, in un certo senso l’unico progetto unificante di riscatto e di protagonismo, espresso all’interno di un quadro che si appellava all’interesse nazionale. […] Non è insensato chiedersi del futuro perché il corso della storia dipende da chi sarà in grado di catturare e dare una prospettiva a questa frattura culturale. […] Alleanze sì, in un periodo in cui si presenterà la necessità di agire responsabilmente, ma barra diritta, socialismo. I compromessi sono leciti, ma dentro un alveo culturalmente definito e una grinta che non lascia dubbi sulla visione della società che è di riferimento, gli orizzonti dell’azione, la concezione della giustizia sociale e le idee forza che sottendono i traguardi da raggiungere. Aggiungo: nessun dubbio sulla passione morale nel perseguirli fuori da ogni tentazione tecnocratica. Porsi come forza alternativa per la sinistra non sarà facile. Non sarà facile riconquistare un consenso di massa e porsi in sintonia con la rabbia sociale per la complicità che ha avuto nella sua genesi. […] Non sarà certo la sola chiarezza sugli orizzonti a contare, ma l’azione quotidiana e la capacità di ricostruire una identità collettiva (o identità comunicanti) delle classi subalterne e di prefigurare una nuova moralità e senso della vita, attorno a una ritrovata cultura critica e passione sociale”.
Questa tesi, che richiama le categorie usate a suo tempo da Antonio Gramsci, emerge anche dalla mia ricerca “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” (2019-2021):
“La rivoluzione passiva, cioè la rivoluzione dall’alto, gestita dalle classi dominanti, ha costruito l’egemonia neoliberista e poi quella sovranista. A essa va contrapposto, con la cultura e con la mobilitazione che parte dal campo dell’esperienza vissuta, un nuovo senso comune, una politica capace di unificare i sensi, di ristabilire momenti di connessione emotiva e sentimentale. Non la politica-potenza ma la politica della lunga guerra di posizione nella società civile, la politica che deve sboccare nell’etica e orientare il progetto della riforma intellettuale e morale”.
In “Non come tutti” usavo il termine “riformismo radicale”. Oggi non più: il termine “riformismo” ha perso del tutto il significato originario. Del resto ci sono pochi esempi di “riformismo radicale”, quasi tutti riferibili alla socialdemocrazia nordica. Anche Biasco, non a caso, non adopera questo termine e preferisce parlare di “compromesso socialdemocratico”: la politica che disciplina il mercato, che forza la logica del capitalismo. Biasco fa alcuni esempi:
“L’espropriazione della rendita urbana e del sottosuolo, la limitazione del passaggio generazionale della proprietà, l’allargamento del sistema assicurativo nazionale verso la protezione dai grandi rischi (ambientali, demografici, sanitari, di autosufficienza, ecc.), l’imposta patrimoniale, il sostegno al credito con istituzioni e logiche non di profitto, l’impegno diretto di agenzie pubbliche in progetti di mobilità sostenibile, d’uscita dall’auto, di transizione energetica e altro, possono essere campi in cui il governo sui processi capitalistici potrebbe essere consolidato ed esteso secondo principi alternativi a quelli che lo guidano attualmente”.
La questione è la leva sociale, ma anche il soggetto politico. Quel che è successo è noto: frammentazione del mondo del lavoro, indebolimento del conflitto sociale, crisi e scomparsa del partito di massa. L’unità di un mondo del lavoro segmentato e lacerato, sostiene Biasco, è sempre il risultato di una costruzione culturale e politica.
Ma sul soggetto politico la risposta è veramente ardua. Nel 2014 scrivevo di “un nuovo partito della sinistra”. Poi, nel 2015, ho conosciuto la sinistra radicale, e ho cambiato parere: è un mondo sclerotizzato, la cui storia è finita. E il Pd? Nel 2014 scrivevo:
“Il Pd può evolvere verso il ‘partito unico articolato’ tipico delle ‘larghe intese permanenti’: è infatti nella più radicata tradizione delle classi dirigenti italiane la scelta di avvalersi di un ‘partito unico’ di governo, e da Monti a Letta e a Renzi abbiamo visto operare, in forme diverse, questo schema. Gli schieramenti possono essere di volta in volta diversi, ma comunque agiscono sempre all’interno dello schema, valoriale e programmatico, tracciato dal ‘partito unico’. La politica diventa solo una tecnica, subalterna al mercato; e si fa essa stessa mercato, scambio di favori e di convenienze reciproche. Il ceto politico diventa sostanzialmente intercambiabile. Se andassero avanti questi processi, molto evidenti anche nei territori, bisognerebbe parlare di una vera e propria ‘mutazione genetica’ del Pd. Vorrei sbagliarmi, ma questa mi sembra oggi la direzione prevalente”.
E’ andata come temevo. Come scrive Biasco: “il quadro che ha dominato il processo politico ha privato gli elettori di alternative sostanziali” e la “cassetta degli attrezzi” dei diversi schieramenti è “pressoché indistinta”.
Resta il M5S: ma è praticabile la strada suggerita da Domenico De Masi di trasformare il M5S in un partito eco-socialista?
Oggi, rispetto al 2014, assegno ancora più importanza all’azione culturale e sociale dal basso. Nella storia dell’umanità non cala mai il sipario, chi sta sotto nella società non smette di rialzare la testa… E quindi c’è sempre qualcosa da fare.
Biasco non è molto d’accordo: posizioni come queste sono a suo parere frutto di una diagnosi pessimista che punta a mantenere una coscienza viva in attesa che una crisi della società produca le opportunità politiche.
Ritorna la “grande domanda”, espressa in forma diversa: si sono esaurite le esperienze del comunismo e del socialismo novecentesche, o possono rinascere in forme nuove?
I movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del passato. Non hanno un albero genealogico. Questo è un elemento anche di forza, ma anche di debolezza: mancano di memoria. Sono movimenti che “usano” la politica senza farsi illusioni.
Forse la forma organizzativa che meglio si adatta ai nuovi movimenti è il federalismo della Prima Internazionale, agli antipodi del centralismo gerarchico dei bolscevichi. Lo sostiene lo storico Enzo Traverso nel suo libro “Rivoluzione. 1789-1989 Un’altra storia”. L’Associazione Internazionale dei Lavoratori riuniva diverse tendenze ideologiche, socialiste, comuniste, anarchiche, repubblicane. In essa coesistevano partiti, sindacati, movimenti, circoli. Oggi c’è forse bisogno, come allora, di federare e di far dialogare esperienze diverse.
Un’ultima considerazione: se c’è un pensatore della sinistra oggi ancora utile è Antonio Gramsci. Se la sinistra deve ricreare una dimensione sociale e una nuova trama di relazioni umane tra le persone, se deve ricostruire una identità collettiva delle classi subalterne e prefigurare una nuova moralità e senso della vita, allora ha bisogno di Antonio Gramsci, l’unico suo pensatore che si è cimentato nello studio delle relazioni sociali e delle forme di costruzione della società. Alla sinistra, che non è mai stata davvero gramsciana, sarebbe davvero prezioso il Gramsci del “nuovo senso comune” e della “riforma intellettuale e morale”.
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