Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Presentazione di “Il processo Spiotta” di Giorgio “Getto” Viarengo – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 10 Agosto 2023 – 23:41

Presentazione di “Il processo Spiotta” di Giorgio “Getto” Viarengo
16 marzo 2023 alla Spezia
Intervento di Giorgio Pagano

Il libro di “Getto” Viarengo è di grande interesse.
Racconta la storia della banda Spiotta: il contesto storico, i crimini, il processo – che iniziò il 18 agosto 1945, con gli altoparlanti in piazza Mazzini a Chiavari – e la condanna a morte dei criminali di guerra chiavaresi, collaborazionisti dei nazisti, Vito Spiotta, comandante del III battaglione della Brigata Nera Silvio Parodi, vice federale di Genova del Partito Nazionale Fascista, Enrico Podestà, vicesegretario del PNF di Chiavari, e Giuseppe Righi, di Levanto, attivo fin dal primo squadrismo a Genova.
La morte avvenne per fucilazione alla schiena a Quezzi, sopra Marassi, l’11 gennaio 1946.
Il 22 aprile 1945 il governo Bonomi aveva istituito con decreto le Corti d’Assise straordinarie: organi giudiziari speciali per giudicare i collaborazionisti, composti da magistrati di carriera e da giudici popolari scelti dal CLN.
Fu un “processo regolare”, come sottolinea Francesco Cozzi nella prefazione, svoltosi nel palazzo tornato Tribunale, dopo essere stato sede del Fascio.
“Il processo Spiotta” è un libro sulla violenza fascista e sulla giustizia popolare. C’era anche un naturale sentimento di vendetta, ma prevalse la giustizia.
La vicenda fu una grande tragedia collettiva, che sconvolse Chiavari.
Ricorda, qui alla Spezia, il processo alla “banda Gallo”: Aurelio Gallo, Emilio Battisti, Achille Morelli. Ne ho scritto in un breve testo (Prefazione a “Umili e ribelli” di Luigi Leonardi, Mursia, 2018; leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com). Tre criminali, tre torturatori. Il processo, la partecipazione popolare, direi la passione popolare. Le condanne a morte: il 14 maggio 1946 la sentenza, il 5 marzo 1947 l’uccisione.
Dopo il 25 aprile 1945 le Corti condannarono oltre 6 mila imputati, di cui 250 alla pena di morte, che venne eseguita in 91 casi: tre a Chiavari e tre alla Spezia.
Poi ci fu l’amnistia Togliatti: “un vero colpo di spugna”, lo definisce Cozzi, riprendendo il titolo del libro di Mimmo Franzinelli “L’Amnistia Togliatti. 22 giugno 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti”. Tale fu anche per effetto delle interpretazioni e applicazioni estensive da parte della magistratura. Non è questa la sede per approfondire la questione. Ma nella sostanza si può dire che si trattò di un “sacrificio” nel nome dell’unità nazionale e della pacificazione che suggellò il fallimento dell’epurazione e finì con l’inaridire uno dei canali di rinnovamento della politica: perché favorì la continuità dello Stato e rinunciò a utilizzare il patrimonio etico-politico della lotta partigiana.
Il processo Spiotta fu basato sui fatti e sulle testimonianze.
I documenti successivi dimostreranno la piena colpevolezza degli imputati, ma già allora era tutto chiaro. Come per la banda Gallo.
La banda Spiotta fu responsabile di rastrellamenti con distruzioni, saccheggi, incendi, e di omicidi seguiti a torture.
Il libro riporta le testimonianze agghiaccianti di due sopravvissuti, don Luigi Pinamonti e Luciano Bolis (dal suo diario “Il mio granello di sabbia”).
Come per la banda Gallo, nella sentenza si fa riferimento a “torture… praticate con raffinata, medievale barbarie”: percosse con bastoni, calci di pistola e fruste appesantite dal piombo, distorsione delle dita, asportazione delle unghie, applicazione di corrente elettrica ai genitali e altre sevizie.
La differenza è che Spiotta e gli altri avevano, nel fascismo, un ruolo di primo piano. Gallo e i suoi no, ma solo formalmente: nei fatti lo avevano.
Spiotta ebbe un ruolo anche intellettuale. Dirigeva la “Fiamma repubblicana” – che riprendeva la testata del primo fascismo chiavarese “La Fiamma” – e teorizzava l’odio e la violenza. Già nell’editoriale del primo numero predicava l’uso del bastone contro gli ebrei, per la loro deportazione nei campi, contro gli ex fascisti, contro i sacerdoti.
Quella contro i sacerdoti era per Spiotta una vera ossessione, come per Gallo. Gallo era stato autista del vescovo, con lui – nella banda – c’era don Rinaldo Stretti. Tanti sacerdoti furono arrestati, torturati e deportati dalla banda Gallo, due a Sarzana, 9 a Migliarina, pur non avendo a che fare con la Resistenza. Non tutti, almeno.
Tra gli obiettivi di Spiotta c’era don Mario Casale, parroco di Statale, partigiano con la banda Beretta in Val di Taro, poi a lungo parroco di Pugliola. Si legge sulla “Fiamma repubblicana”: “Sconcio tra gli sconci il vescovo di Sarzana [Giuseppe Stella, vescovo di Spezia, Sarzana e Brugnato nel 1943-45] prese parte ad un banchetto il 24 agosto [1944] nella canonica di Statale ed al fianco si vedeva un ribelle, armato di Sten, e ribelli armati lo hanno scortato fino a Sarzana”.
Viene in mente l’incontro di don Canessa, cappellano della brigata Centocroci, con Stella a Scogna di Sesta Godano: “Persevera nel tuo duro lavoro”, gli disse il vescovo. La figura di “Beppe Astro” – così chiamavano i contestatori del Sessantotto monsignor Stella, tornato vescovo – va riconsiderata.
Sono molti i legami con le vicende spezzine che emergono dal libro: i rapporti di Spiotta con la Decima Mas e con la Divisione Monterosa; i tanti partigiani della riviera spezzina incarcerati a Chiavari, tra cui Vera Del Bene (si veda il libro “Levanto nella seconda guerra mondiale. Testimonianze e documenti”); la morte di don Bobbio, parroco di Valletti di Varese Ligure e cappellano della brigata Coduri; l’uccisione, il 30 ottobre 1944, di Cesare Bordone di Riomaggiore (partigiano della Coduri) e di Giovannino Salvi di Varese Ligure (partigiano della Centocroci) per rappresaglia dopo l’uccisione di un alpino della Monterosa…
Sono pagine impressionanti per la violenza dei tempi.
La violenza repubblichina era sadica. Lo dimostra anche il libro recente di Daniele Rossi “La giustizia negata. Le stragi nazifasciste rimaste impunite nel settore nord-occidentale della Linea Gotica”. Ai vertici del partito repubblichino ci fu una forte presenza di estremisti. Il fascismo fu sempre violento – la violenza fu la sua identità –, ma il fascismo repubblichino raggiunse le vette tragiche della perversione.
Da qui un odio verso i fascisti forse prevalente rispetto a quello verso i tedeschi. La stessa memoria della deportazione, alla Spezia, è fortemente antifascista: gli antifascisti, prima di essere deportati, erano condotti nel carcere dell’ex Ventunesimo, dove venivano torturati dalla banda Gallo.
Ha scritto Claudio Pavone:
“Il 1914 era potuto apparire come l’improvviso disvelamento della natura intrinsecamente violenta dello Stato. Nell’Italia del 1940, e con finale evidenza in quella del 1943, l’esercizio della violenza apparve invece come lo sbocco di un’accumulazione di lunga data. Questo rese la violenza da una parte più ovvia, dall’altra più spietata; ma preparò allo stesso tempo il passaggio a una riconsiderazione dei limiti del ricorso ad essa e della possibilità di un suo uso contingente per renderla nel futuro impossibile. La violenza come seduzione e la violenza come dura necessità si scontrarono così in modo palese, pur convivendo talvolta nelle stesse persone”.
I fascisti trovarono nel terrore, nell’esibizione dell’orrore, nel volere la sofferenza la legittimazione della propria esistenza, del proprio potere. Tutt’altra cosa dalla violenza come necessità, e dalla consapevolezza del suo male intrinseco.
La violenza repubblichina colpisce perché si manifesta nonostante la consapevolezza della sconfitta.
I notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) erano chiarissimi. Smentivano ogni versione accattivante dei giornali. Testimoniavano la disfatta, la progressiva disgregazione, giorno dopo giorno. Nell’estate 1944 era già chiaro che i ribelli non si potevano fermare. Un po’ l’inverno fece sperare, ma per poco… L’opinione pubblica non mutò l’atteggiamento di ostilità verso i fascisti. I notiziari certificavano inoltre l’imponente fenomeno della fuga, della diserzione. Due terzi dei partigiani provenivano dall’esercito repubblichino, dalla Monterosa, dal San Marco… Spesso la GNR criticava la violenza gratuita delle Brigate Nere, della loro componente più fanatica. Scriveva la GNR di Imperia il 13 novembre 1944:
“La popolazione giustifica pienamente anche tutte le distruzioni indiscriminate del nemico e simpatizza per i fuori legge”.
Infine una piccola “scoperta” storiografica, che può aiutare lo sviluppo delle ricerche sulla banda Spiotta. Ho visionato, grazie alla figlia, i quaderni di appunti di Aldo Fiordalisi, partigiano dal 1° marzo 1944, che secondo una testimonianza raccolta da Giulio Mongatti fu con Dante Castellucci “Facio” nel battaglione Picelli. Il suo nome di battaglia era “Sigaretta”. In “Partigiani d’Italia” è indicato come partigiano della Gramsci da quella data, ma la Gramsci nacque dopo.
I quaderni di appunti riportano molti episodi della Resistenza in IV Zona e non solo, anche nelle zone vicine della Liguria e della Toscana.
Ci sono sei pagine sul processo Spiotta a Chiavari e sui delitti di Spiotta: il primo rastrellamento nell’ottobre 1943; l’uccisione del partigiano Severino a Borzonasca, il primo partigiano fucilato nella VI Zona, il 21 maggio 1944 (si tratta di Raimondo Saverino, detto Severino); il rastrellamento di agosto a Barbagelata, con tre ragazzi massacrati; “Sulle montagne della Liguria non sarebbe rimasto un filo d’erba”, scriveva Spiotta; l’uccisione di don Bobbio; la testimonianza di Luciano Bolis, quasi completamente afono perché si tagliò le corde vocali per non parlare negli interrogatori.
Poi manca una pagina, nonostante che dai fogli di quaderno ciò non risulti. Probabilmente Fiordalisi commise un errore nel ricopiare, saltò cioè una pagina del testo che ricopiava.
Viene riportata la testimonianza di qualcuno – non sappiamo chi – che interrogò Spiotta in carcere:
“Interrogai Spiotta una ventina di volte: alle mie contestazioni negava con una spudoratezza fantastica. Il primo interrogatorio durò otto ore, e lo feci a base di sigarette. Confesso che io ero stanco, ma lui no. Mi spiegai allora come faceva a resistere per notti intere, non solo ad interrogare, ma anche a torturare. Come può difendersi davanti al popolo, che ha tradito e oppresso? Il suo animo era freddo e velenoso: si dice che compì pochi delitti, ma le infinite deportazioni in Germania di uomini, che non sono più tornati, come li chiamate, se non delitti? Era l’uomo che sevizia, tortura e manda a morte i suoi stessi concittadini, che mandava a fare le passeggiate al chiaro di luna sotto i cipressi dei cimiteri”.
La pagina di appunti si conclude così:
“Voi, con la morte, dovete espiare. Non solo noi dovremo, ricostruendo, sanare le ferite da voi aperte, ma anche voi con l’espiazione, perché la vostra presenza ammorba la nuova aria, che respira”.

Giorgio Pagano

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