Paolino uomo della Resistenza
Intervento di Giorgio Pagano alla presentazione di “Mio babbo partigiano” di Andrea Ranieri
Sarzana 17 settembre 2021
Paolino, classe 1912, barbiere, povero ma perfetto giovane alla moda, cominciò presto a non sopportare le prepotenze dei fascisti. La molla fu quando a un suo cliente, barba a metà, fu fatto bere l’olio di ricino. Vicino dapprima all’Azione Cattolica, si avvicinò poi ai comunisti, i più organizzati e i più decisi nella lotta al fascismo. Paolino conobbe i comunisti a fine 1932-inizio 1933: Anelito Barontini, Dario Montarese “Briché” e gli altri del gruppo sarzanese. Dal suo salone passavano i materiali della propaganda comunista, fino a quando, nel 1937, una spia fece arrestare tutto il gruppo. Condannato dal Tribunale Speciale, con Barontini e “Briché “, a quattro anni di carcere, Paolino fu rinchiuso con Anelito nel carcere di Fossano (Cuneo) dal 1938. Quella fu la sua università: “quando sono uscito sapevo cos’era il comunismo”, diceva sempre. E’ il “comunismo ideale” raccontato a Pino Meneghini nel libro “Paolino Ranieri dal carcere alla ricostruzione”:
«A me e a Barontini arrivavano ogni mese L. 150 a testa, la somma massima consentita, una cifra enorme soprattutto se paragonata alla povertà delle nostre due famiglie, rette da due vedove. Era quello infatti il frutto del Soccorso Rosso che a Sarzana in quel periodo non ha mai smesso di funzionare. […] Ma in ossequio all’eguaglianza assoluta, dovevamo dividere tutto e quindi delle cinque lire che avevamo al giorno, ci restavano, dopo aver fatto la divisione, circa 60-70 centesimi per le spese quotidiane, che erano davvero pochi».
Scarcerato nel 1940 dopo la nascita della principessa Maria Gabriella di Savoia, Paolino visse in libertà vigilata. Subito dopo l’8 settembre salì ai monti. Erano gli antifascisti “storici” come lui a sapere cosa fare, e furono loro ad aggregare i giovani, dai militari sbandati ai ragazzi renitenti alla leva. Non tutti comunisti, ma tanti comunisti.
«Si trattava – ha scritto Giulivo Ricci nella “Storia della Brigata garibaldina ‘Ugo Muccini’ – di un gruppo omogeneo: ed in questo si poneva come unico nell’intera provincia della Spezia, ove altri gruppi esistettero, affondanti le radici negli anni del ventennio, ma meno forti, meno omogenei, meno dotati di coesione e di coerenza nell’azione, epperò più esposti ai pericoli della divisione, dell’incertezza, della mancanza di direzione unitaria».
Questa omogeneità fu anche alla base del peso che il gruppo – composto poi anche da elementi più giovani, formatisi con l’esperienza partigiana – esercitò nella vita politica e istituzionale del dopoguerra in provincia, e non solo.
Paolino fece sempre il commissario politico: era colui che doveva indicare ai giovani le ragioni della lotta.
Scrive Andrea nel libro:
«Giovani stretti tra le spinte dell’avventura e della paura, a cui bisognava insegnare a vivere e a combattere immaginando un futuro diverso, necessariamente più grande e più bello del mondo che si erano lasciati alle spalle, e che dovevano aver chiare le ragioni per cui si poteva morire. Nessuno doveva morire senza sapere il perché. […] E poi il commissario politico doveva insegnare il rispetto per le popolazioni dei campi e dei monti in cui i partigiani avevano le proprie basi. E l’attenzione per evitare che il peso della guerra non ricadesse sui civili indifesi».
Dalle colline sarzanesi, dove operarono fin dal settembre 1943, Paolino e il suo gruppo si spostarono a Valmozzola: nella sua relazione del 14 marzo 1944 dopo l’assalto al treno – la prima azione eclatante della Resistenza sui nostri monti – si notano già le “qualità” del commissario politico:
«Ognuno degli uomini che avvicinai mi dimostrò il suo malcontento, chi si lamentava perché gli erano stati rubati i calzetti, chi i lacci per le scarpe, chi una maglia, e a chi perfino il pane, e tutti brontolavano perché vi era chi faceva diverse ore di guardia e chi niente. La sera divisi in due il distaccamento e prima a una metà poi all’altra tenni loro una conferenza sui più elementari principi di educazione».
Anche da qui si doveva cominciare.
Il comportamento di Paolino fu sempre all’insegna della dirittura morale e politica. Ricci ha scritto: fu «inflessibile verso chi, messo sull’avviso, continuava ad errare a danno del movimento antifascista, compiendo gravi reati contro le persone e le cose, comprensivo nello stesso tempo verso le debolezze proprie di ogni uomo».
Ne diede prova a Bardi – dove il gruppo sarzanese fu molto attivo al tempo della Repubblica partigiana del Ceno, tra giugno e luglio 1944 – e poi nelle colline sarzanesi, dove tornò quando fu costituita, nel settembre, la Brigata garibaldina Ugo Muccini, il cui nome fu proposto proprio da Paolino.
Sulla nomina di Piero Galantini “Federico” a comandante della Muccini, Lido Galletto “Orti”, che non era comunista ma libertario e indipendente, ha scritto di “capolavoro politico” e di “logica politica lungimirante” di Paolino: «La nomina di un comandante, democratico, senza una precisa appartenenza a un partito creava i presupposti di una più ampia adesione al movimento partigiano di quelle classi sociali borghesi della società sarzanese».
La Resistenza che racconta Andrea nel libro riprendendo Paolino è soprattutto quella di Rudolf Jacobs e di Dante Castellucci “Facio”: due storie che spiegano che «la libertà sta oltre nazioni e bandiere» e che «l’orrore può esistere anche tra le fila dei buoni». Paolino conobbe entrambi questi eroi difficili.
Paolino fu davvero “patriota senza nazione”. Ricordiamoci che ebbe salva la vita, prima della Liberazione, grazie a un comandante tedesco.
Così come fu dalla parte di “Facio”. Nel limite in cui si poteva fare in quei mesi terribili, con quel gruppo dirigente comunista ai monti tra Val di Vara e Lunigiana palesemente inadeguato ma con un’egemonia sugli uomini basata sulla forza. Aveva paura che ammazzassero anche lui, da qui la sua frase molto umana, nell’intervista al Museo di Fosdinovo: «Ma! Stiamo un po’ attenti, chi me lo fa fare di…».
Dobbiamo domandarci ancora oggi, come probabilmente Paolino fece per tutta la vita: se “Facio” non fosse stato vinto, ucciso, la Resistenza sarebbe stata migliore e più forte? La risposta è netta: sarebbe stata migliore e più forte, perché avrebbe avuto più marcato il segno della fratellanza, sintesi di libertà ed eguaglianza. La fratellanza che fu la caratteristica del Battaglione di “Facio”, il Picelli. La fratellanza che Anelito Barontini e Paolino Ranieri avevano imparato in carcere.
La critica di Antonio Borgatti “Silvio” – Segretario della Federazione del PCI, un “ortodosso” che certo non può essere tacciato di ribellismo – al gruppo dirigente del PCI ai monti fu, dopo la relazione di Paolino, dura e sferzante, all’insegna di uno spirito partigiano molto vicino a quello di “Facio”:
«I compagni, i partigiani nominati a una funzione di comando devono restare attaccati alla loro formazione, viverne la vita, spezzare il pane con loro e il pezzo più piccolo dovrà essere sempre di chi comanda. Non si fumano le sigarette senza prima averle spartite e non si invitano nemmeno per ischerzo i partigiani ad andare a raccogliere le cicche sotto la tavola».
Davvero “poteva andare diversamente”.
Leggendo la storia di “Facio” vengono in mente i fratelli Cervi. Viene in mente Aldo Cervi “Gino”, a cui “Facio” fu strettamente legato, in quella Reggio in cui ebbe la sua prima condanna a morte da parte dei compagni. C’è, nello spirito originario contadino dei Cervi, un’anima insieme libertaria e socialista. L’intreccio tra il loro bisogno di terra e di libertà e la Rivoluzione d’ottobre. Il socialismo o comunismo dal basso e non dall’alto. E’ la stessa anima di “Facio”. Fu vinta – anche se ne furono in qualche modo partecipi esponenti del comunismo “ortodosso” come Paolino e Borgatti – ma se avesse prevalso la Resistenza sarebbe stata ancora più forte. E, forse e in generale, il socialismo e il comunismo, se non avessero perduto quest’anima, non avrebbero subito una sconfitta epocale.
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