“Non come tutti” – Saggio introduttivo “Ricostruire la Sinistra” di Giorgio Pagano
SAGGIO INTRODUTTIVO “RICOSTRUIRE LA SINISTRA” DI GIORGIO PAGANO
Dalla parte di Katie
Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo (Einaudi 2013), vincitore del Premio Strega, è un bel libro, a metà tra romanzo e saggio. Mi ha intrigato il racconto autobiografico, ma mi ha convinto assai meno la ricostruzione delle vicende politiche italiane degli ultimi trent’anni. La sinistra, questa la tesi dell’autore, ha iniziato a perdere quando si è isolata in una diversità sterile e non si è posta la questione della responsabilità del potere, non si è “sporcata le mani” con il potere e non ha ricercato il compromesso e la collaborazione con le altre forze politiche. Molti hanno visto nel libro il romanzo di formazione di una sinistra riformista finalmente post ideologica, in coincidenza con l’avvento di Renzi alla guida del Pd e del Paese.
Io credo invece che la sinistra la questione del potere, negli ultimi vent’anni, se la sia posta, ma male: perché l’ha esercitato adattandosi alle idee degli altri. La sinistra, rinunciando ad avere una sua ideologia, è stata in realtà subalterna all’ideologia dominante, il “pensiero unico” neoliberista, che propone come dato di natura una scelta, che è invece ideologica, a favore della deregulation economica. È questa ideologia che ci ha portato nelle secche della “Grande crisi”: ecco perché, se vogliamo uscirne, vale la pena, almeno qualche volta, non “essere come tutti”. Dell’ideologia dominante fa parte anche l’elogio della collaborazione e dell’armonia sociale, molto presente nel libro di Piccolo, oltre che nel Pd (e ben prima di Renzi). Sempre, e tanto più in una situazione di eccezionale difficoltà come l’attuale, la democrazia può richiedere il compromesso. Ma come esito di un conflitto. Il conflitto non è cancellabile, e la democrazia storicamente si sviluppa proprio nutrendosi del conflitto, attraverso cui si costituiscono nuove forme politiche e nuovi equilibri sociali.
Il progresso di un Paese si esprime attraverso il conflitto, la fase in cui si è “parte” e non “tutto”. La sinistra deve essere riconoscibile, cioè essere coerentemente “parte”. Ed è bene, per chi è impegnato in una “parte”, non “essere come tutti”. Poi, certamente, la sinistra deve farsi carico del “tutto”, dell’universale: ma a partire dal suo essere “parte”. Questa “parte” capace di universalità è ancora il lavoro, nelle sue forme nuove. Piccolo cita la famosa conferenza tenuta nel 1919, dal titolo La politica come professione (Edizioni di Comunità 2001), in cui Max Weber distingue due modi di agire nella pratica politica: l’etica dei principi e l’etica della responsabilità. Piccolo critica la sinistra che agisce solo sulla base dei principi. D’accordo, ma il punto è come “combinare” le due etiche, senza separarle. Va criticato anche chi agisce solo sulla base della responsabilità: perché significa assenza dei fini e del progetto e ricerca continua di quel “compromesso con la realtà” che finisce per somigliare al cedimento a ogni “compatibilità”. Di La politica come professione conviene ricordare anche un’altra massima: “È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe mai raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”. A questo proposito il filosofo Salvatore Veca parla, citando John Rawls, di “utopia ragionevole o realistica”: “abbiamo bisogno di esercizi di immaginazione politica e morale, che chiamino in causa istituzioni, pratiche sociali, scelte collettive, prendendo sul serio, al tempo stesso, il senso della realtà e il senso della possibilità”. Quindi entrambe le etiche di cui parla Weber. La citazione di Veca è tratta dal suo libro “Non c’è alternativa” Falso! (Laterza 2014), il cui titolo chiarisce bene che non è sempre necessario “essere come tutti”.
Mi sono sempre battuto per una sinistra popolare, non supponente e presuntuosa. Non provengo da una tradizione di sinistra minoritaria ma di sinistra popolare. Ho fatto il dirigente di partito e l’amministratore pubblico: con pregi e difetti, ma sempre in forte “connessione sentimentale” con il mio popolo. E so che a volte bisogna saper essere “impopolari” e “inattuali”, per “far diventare popolari cose che non lo sono” (Giuseppe Civati, Qualcuno ci giudicherà, Einaudi 2014). La sinistra non può essere prigioniera della dittatura del presente. Nel libro di Piccolo ha un ruolo essenziale il film di Sydney Pollack Come eravamo: la storia di Hubbell (Robert Redford), giovane, bello e sfaccendato, che incontra Katie (Barbra Streisand), una donna molto impegnata, piena di passioni e ideali. I due si innamorano, ma alla fine Hubbell sceglie il successo e i soldi. Piccolo adotta Hubbell: anche lui forse vorrebbe essere come Katie, ma non ci riesce. Hubbell la reincontra tanto tempo dopo, nel solito marciapiede: distribuisce volantini. Le dice: “Tu non molli mai, eh?”. Lo dice con ammirazione, perché sa che, alla fine, tra i due la migliore è lei. Hubbell e Piccolo preferiscono, però, “essere come tutti”. Io, invece, preferisco Katie.
La crisi comincia con il “compromesso storico”
I testi pubblicati in questo libro sono la testimonianza di un itinerario personale, dalla nascita del Pd a oggi. Sono testi sulla politica, e sull’antipolitica. Su alcune questioni, dal lavoro all’ambiente, dall’immigrazione alla “rifondazione” della politica, sviluppano anche precise proposte programmatiche (mancano qui, perché pubblicati in La sinistra la capra e il violino, Edizioni Cinque Terre 2010, e in Ripartiamo dalla polis, Edizioni Cinque Terre 2012, gli interventi dedicati al federalismo e alla riforma della pubblica amministrazione, oltre ai contributi sulla politica internazionale). Credo ci sia un filo rosso di continuità e coerenza che lega i testi tra loro, e anche una certa insistenza, direi “ossessiva”, su alcuni temi chiave. Quelli di cui ho appena scritto nelle righe di apertura: la critica al neoliberismo nel nome dell’eguaglianza e della redistribuzione della ricchezza, l’elogio del conflitto, il lavoro umano come punto di partenza della politica. E altri ancora, tutti connessi tra loro: la critica al leaderismo e al populismo nel nome della democrazia partecipata, così come la preoccupazione per lo smottamento del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni e la proposta di una “rifondazione” della politica basata non solo su sobrietà e riduzione dei suoi costi ma anche e soprattutto sul superamento dell’“istituzionalismo”, dell’idea della politica che porta all’autonomia separata del Politico. Sono temi presenti con una certa nettezza fin dall’inizio, quando -più per “connessione sentimentale” con quello che era sempre stato il mio “popolo” che per convinzione motivata- aderii, da semplice iscritto e senza mai incarichi dirigenti, al nascente Pd. E che ho sviluppato negli anni successivi: ma si può dire che l’impianto, nel 2007-2008, ci fosse già quasi tutto.
Un elemento di analisi sempre presente è quello che riconduce gran parte della debolezza, e della subalternità, del Pd a quelle del partito nato dalla “svolta”. Si imponeva, allora, un bilancio critico della storia del Pci, ma l’esigenza fu del tutto elusa. Creiamo una sinistra del tutto nuova, questa fu l’impostazione dominante, che va oltre tutte le tradizioni e tutte le appartenenze. Uno stile improvvisato e disinvolto che caratterizzò quel gruppo dirigente in tutti i passaggi successivi, fino alla sua sconfitta storica, di cui la vittoria di Renzi è stata la conseguenza più che la causa. Questa sconfitta storica mi ha fatto tornare a quel bilancio critico della storia del Pci che ancora manca, e mi ha fatto riflettere sui limiti profondi dell’attitudine riformista di quel partito. Il presente della sinistra ha davvero radici lunghe, e la sua sconfitta di oggi è un dramma che può essere compreso solo se inserito in un vasto orizzonte.
Questa, in estrema sintesi, la mia conclusione: aveva ragione Giorgio Amendola a chiedere il partito unico della sinistra; e aveva ragione Pietro Ingrao a chiedere un riformismo più innovativo e attento alle trasformazioni sociali. Se di questi due “revisionismi” si fosse fatta una sintesi avremmo avuto quel “partito socialista di sinistra”, alternativo alla Dc, che l’Italia non ha mai avuto. L’espressione di una “parte”, di un blocco delimitato di interessi sociali, portatore di un “riformismo radicale” capace di un progetto per il Paese, per “tutti”. Che avrebbe potuto dare una risposta politica di cambiamento alle spinte sociali e culturali del ’68-69 e degli anni Settanta. La mia tesi, opposta a quella del libro di Francesco Piccolo, è che il Pci comincia la sua crisi con il “compromesso storico”. Esprime bene questo concetto Riccardo Terzi, nel suo La pazienza e l’ironia (Ediesse 2011): “Già con il compromesso storico prende avvio un processo di sfaldamento, di rottura di quel tutto organico e compatto che si era costruito intorno ai grandi partiti di massa e alla loro funzione nazionale. In realtà il compromesso storico è più un sintomo che una causa della crisi. Esso prende forma come il tentativo ambizioso di rispondere a una crisi che si era già aperta nel rapporto tra politica e società, ma è un tentativo del tutto improduttivo e illusorio, che ha solo l’effetto di accelerare le dinamiche centrifughe che mettono in crisi l’equilibrio complessivo del sistema. Se l’obbiettivo era quello di ricomporre la coesione nazionale, il risultato, all’opposto, è l’inizio di una disarticolazione”. A ben pensare, Enrico Berlinguer è, in quegli anni, una “figura della crisi”: perché porta avanti, sia pure innovandola, la linea di Palmiro Togliatti, cioè una grande tradizione politica che aveva dato tutto quello che poteva dare e che si stava esaurendo e disfacendo. Si diede vita a un grande schieramento politico di unità democratica per salvare il Paese, ma i lavoratori e i giovani, coloro che il Pci doveva rappresentare, non si sentirono protagonisti, e temettero la loro marginalizzazione. Emerse già allora un punto circa il quale la mia critica è presente costantemente nel libro: cioè una concezione della politica “istituzionalista” e “politicista”, distante dai processi sociali, dalla società civile, dalla vita delle persone.
I fini: l’eguaglianza
Diventata leggera e pragmatica, quella che fu la sinistra vive oggi una vita segmentata e stentata: è rimasta in alcune piccole forze a sinistra del Pd e nelle minoranze del Pd, oltre che nei movimenti sociali e nelle associazioni. Ma come si può pensare di fare a meno della sinistra in una società in cui crescono a dismisura la disoccupazione, la povertà, il senso di impotenza di tanti giovani e meno giovani? Eppure la sinistra incontra difficoltà straordinarie a convincere i cittadini che di essa c’è bisogno. Perché liberismo e populismo hanno vinto e imposto la loro egemonia culturale, e perché la sinistra si è adeguata, o si è ridotta a una funzione di resistenza e di testimonianza. Eppure le sorti possono cambiare. Ce lo ha detto, sia pure dalla lontana America, il nuovo Sindaco di New York Bill de Blasio, che ha vinto le elezioni spiegando di chi sono le responsabilità della “Grande crisi” e mettendo al centro l’obbiettivo della lotta alle diseguaglianze. Perché la sinistra è come un malato grave che alla fine resta sempre in piedi? Già Norberto Bobbio in Destra e sinistra (riedito nel 2014 da Donzelli) spiegava che la sinistra è andata incontro a crisi tremende e a divisioni profonde, ma è sempre lì, perché è lì il problema delle diseguaglianze.
È cambiata la composizione della società, ma le diseguaglianze sono cresciute, diventate abissali. Proprio per questo la sinistra, anche se è malata, non si può dare per morta: le sue radici non si recidono. Stanno nel fatto che tutti e in egual modo hanno diritto alla diversità e che tutti vanno portati verso l’alto. L’orizzonte su cui ha mosso i primi passi Matteo Renzi è invece diverso, perché ha accantonato questo nucleo forte della sinistra, l’eguaglianza. Il commento di Renzi alla riedizione di Destra e sinistra è imperniato infatti sulla tesi che la coppia di Bobbio “eguaglianza/diseguaglianza” sia troppo rigida per “riassorbireintegralmente la distinzione destra/sinistra”. La vede troppo figlia di “blocchi sociali” che “non esistono più”, in una società “sempre più individualizzata”. Renzi vedrebbe meglio declinata la diade sinistra-destra nella chiave di “innovazione/conservazione”, “aperto/chiuso”, “avanti/indietro”. Insomma, per Renzi il liberismo nelle cose, è la realtà, e la sinistra nuova deve partire da qui: ecco perché Bobbio è sorpassato. Ma, come ha osservato lo storico Massimo L. Salvadori, Renzi “dovrebbe tenere presente che, se oggi non esistono più i vecchi blocchi sociali, se ne danno di nuovi, i quali anche più di ieri oppongono i sempre più ricchi ai sempre più poveri che a differenza dei lavoratori organizzati di un tempo sono disarticolati, frammentati e perciò ancora più bisognosi di essere protetti”. Ancora: Innovazione/conservazione sono slogan che hanno senso, ma a condizione di svelare i loro contenuti in termini, appunto, di destra o sinistra: tertium non datur. A fare l’appello all’innovazione contro la conservazione, all’aperto/chiuso sono stati negli ultimi decenni proprio i cantori del neoliberismo. E quindi attenzione alle parole senza aggettivi” (Destra e sinistra, perché Bobbio non è superato, “la Repubblica”, 18 marzo 2014). Renzi gli risponderebbe che il liberismo è, appunto, nelle cose, che ci sono gli “ultimi” e i “primi” e che per gli “ultimi” serve un po’ di solidarietà cristiana. Siamo, in tutta evidenza, oltre e fuori non solo dal socialismo, ma anche dal socialismo liberale. Renzi cita Tony Blair, ma, dopo anni che la sua esperienza di governo è finita, un bilancio si deve pur fare. La “terza via” si è mossa all’interno del “pensiero unico” dominante, tant’è che la totale liberalizzazione della finanza, che ha accelerato la finanziarizzazione dell’economia mondiale e la degenerazione della finanza e ha portato alla “Grande crisi” fu decisa dai Governi di Clinton e Blair. Ed è negli anni della “terza via” che le diseguaglianze sono aumentate fortemente, sia negli Usa che in Gran Bretagna: il che è all’origine dell’indebitamento privato che portò alla crisi. Si ha un bel dire che il problema non è l’eguaglianza dei redditi, ma quella delle opportunità di vita: se il reddito si concentra nelle mani di pochi le opportunità non possono che divergere. Non a caso sia in Usa che in Gran Bretagna la mobilità sociale si è molto ridotta. L’innovazione, dunque, coincide oggi con la lotta organizzata dei subalterni per l’eguaglianza: non solo delle opportunità ma anche delle condizioni sociali che consentono ai cittadini di intraprendere le loro scelte di vita con responsabilità. Bobbio, inoltre, ci invitava a ricostruire in forme inedite il nesso tra eguaglianza e libertà. Cittadinanza, ambizioni, merito, diversità, diritti e doveri -tutto ciò che Renzi richiama- per Bobbio richiedono l’espansione della civiltà democratica e dunque un
rilancio continuo dell’eguaglianza, come modello ideale e stigma identitario della sinistra. La libertà richiede cioè un innesto sostanziale sui diritti sociali, come prevede l’articolo 3 della nostra Costituzione: per far valere la libertà serve l’eguaglianza. Senza l’accoppiamento con l’eguaglianza la libertà non è una condizione di giustizia. Né lo è il merito. Ancora qui passa la differenza tra destra e sinistra.
I fini: la libertà della persona che lavora
Il preambolo della nostra Costituzione rende perfettamente il significato dei valori dell’eguaglianza e della libertà quando afferma che l’Italia è “una Repubblica fondata sul lavoro”. Mettere il lavoro alla base del sistema politico comporta rivederne il significato, il valore, il senso: significa emanciparlo dalla sofferenza facendone una condizione di emancipazione sociale e di libertà. Questa è l’altra grande questione che non meno dell’eguaglianza definisce l’identità della sinistra: la libertà del lavoro dalla condizione di merce. Dopo il fallimento della risposta data a questa questione dal “socialismo reale”, la statalizzazione dei mezzi di produzione, il tema è stato abbandonato, ma andrebbe ripreso, recuperando nel contempo gli stimoli preziosi provenienti da una tradizione minoritaria della sinistra, quella ispirazione che Vittorio Foa ha definito “socialismo libertario” (Vittorio Foa e Federica Montevecchi, Le parole della politica, Einaudi 2008). Nel libro i nomi di Vittorio Foa e di Bruno Trentin sono ricorrenti: perché per loro al centro del lavoro c’è la libertà. Con il lavoro la persona umana realizza e valorizza se stessa, il proprio progetto di vita, la libertà, la dignità. La degenerazione del lavoro in merce, in cosa, come mera appendice della macchina, della tecnica, robotizza l’uomo ed è la negazione della libertà e della dignità.
La Gerusalemme rimandata di Vittorio Foa (Einaudi 2009) era il suo libro che lui amava di più. Lo scrisse dopo il 1980, quando aveva oltre settant’anni, in una ricerca fatta a Londra durata più di quattro anni. È il racconto delle lotte degli operai inglesi nel primo ventennio del Novecento per affermare il diritto al controllo operaio, attraverso i consigli. La classe operaia arrivò alla soglia della vittoria ma poi venne sconfitta. Per Foa la Gerusalemme, cioè la terra promessa, è la libertà del lavoro e nel lavoro. Dopo quella sconfitta prevalse in tutto il mondo la teoria del socialismo di Stato, sia pure divisa nelle due grandi metà del comunismo e della socialdemocrazia. “Non prevalse – scrive Foa – la classe operaia che lavora per sé”.
Ritroviamo la stessa aspirazione in Bruno Trentin, come spiega Iginio Ariemma: “Nella sua opera più matura – La città del lavoro (Feltrinelli 1997) –Trentin confessa il suo debito intellettuale verso la sinistra libertaria. Dopo il crollo del comunismo e la fine del Pci questa sintonia diventa ancora più dichiarata ed esplicita. Una sinistra che fa della libertà la priorità assoluta e che vede nel lavoro e nel sapere la fondamentale realizzazione dell’eguaglianza e della libertà umana” (La sinistra di Bruno Trentin, Ediesse, 2014). Per Foa e Trentin la politica ha senso e valore se contiene in sé un progetto capace di cambiare in meglio la vita delle persone. Via via con gli anni entrambi ritengono che la politica sindacale debba avere come priorità rispetto alla classe le persone che lavorano, la voglia di libertà e di conoscenza dei lavoratori e della comunità operaia. Al centro della loro riflessione non c’è l’individuo, ma la persona che lavora. La conclusione di Trentin in La città del lavoro è sostanzialmente analoga a quella di Foa nella Gerusalemme rimandata: sia la sconfitta degli anni Venti sia quella degli anni Settanta sono state determinate dalla concezione prevalente nel movimento operaio, sia comunista che socialdemocratico, con al centro l’assalto allo Stato, la conquista del potere politico, e non la trasformazione della società attraverso un processo dal basso, anche culturale e soggettivo, che aiuta i lavoratori a governarsi da sé. In Il coraggio dell’utopiaTrentin dice a Bruno Ugolini: “credo di essere arrivato alla convinzione che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica” (Bruno Trentin con Bruno Ugolini: Il coraggio dell’utopia, Rizzoli 1994). I cambiamenti devono avvenire qui e ora, e diventano reali e duraturi solo se procedono dal basso, dalle persone e dalla società. In questa concezione sono evidenti i debiti nei confronti del personalismo cristiano di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain e la vicinanza a Simone Weil. Per le mie strade sono arrivato a conclusioni analoghe. Mi hanno aiutato l’amicizia con don Andrea Gallo e, per altro verso, con una personalità del mondo cattolico impegnata nella cooperazione internazionale, Massimo Toschi: da loro ho imparato che la grande politica esige coerenza tra visione del futuro e gesti quotidiani, che è innanzitutto cambiamento personale come condizione del cambiamento sociale. La grande politica è la capacità di rendere le persone autonome, capaci di autogovernarsi da sé: è così che, nella Comunità di San Benedetto al Porto, gli “assistiti” di ieri sono diventati gli “assistenti” di oggi; e che, in Africa o in Palestina, gli “assistiti” di ieri sono diventati i nostri “partner” di oggi. La sinistra, dunque, ha bisogno, per vincere, che crescano la società e la cultura: ecco perché oggi il lavoro più importante da fare è quello sociale e culturale, dal basso. È così spiegata la mia seconda “scelta di vita”. Attenzione, però: ho scelto l’associazionismo, il volontariato, l’impegno civico, ma non ho dimenticato la centralità del lavoro, che non si è dissolta nelle magnifiche sorti e progressive del mercatismo. E ho sempre pensato che il mio lavoro sociale e culturale dal basso potesse svolgersi, perché no, anche nel sindacato. Magari in un sindacato più vicino alla materialità della condizione di lavoro, un sindacato più impegnato in un’opera di “risindacalizzazione”. Nell’integrazione tra la concezione dell’eguaglianza proveniente da Bobbio e la concezione della libertà della persona che lavora proveniente dalla sinistra libertaria sta la possibilità di costruire il nuovo umanesimo della sinistra del futuro: una “narrazione” che rimetta al centro della scena gli esseri umani con i loro bisogni, i loro problemi e le loro speranze, che si ribelli alla disumanizzazione provocata dal dominio del mercato e che riaffermi il diritto degli esseri umani a riappropriarsi de proprio destino. Il conflitto si sposta oltre la sfera economica e distributiva per investire la vita, l’autoaffermazione del lavoratore. C’è un allargamento del conflitto e una domanda di progettualità più ravvicinata, quotidiana. Ma il nuovo pensiero della sinistra ha bisogno di integrare con queste concezioni un altro segmento decisivo: la riflessione sulla difesa del capitale naturale.
I fini: la difesa della natura
Il caso Ilva ha dimostrato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l’esaurimento della tradizione teorica della sinistra sul punto della natura: essa percepisce, infatti, il danno all’ambiente quando viene arrecato alla salute delle persone (lavoratori e popolazioni locali) ma molto meno quando viene arrecato alla natura. Ora la politica e l’economia devono finalmente capire che qualsiasi società umana può beneficiare di benessere e sviluppo solo usufruendo delle risorse naturali e degli straordinari “servizi” che i sistemi naturali offrono quotidianamente e gratuitamente a noi tutti: la rigenerazione del suolo, il ciclo e la salubrità dei sistemi idrici, la purificazione dell’aria, la composizione chimica dell’atmosfera, i servizi degli impollinatori che consentono l’agricoltura… Ha detto l’economista indiano Pavan Sukhdev, che dirige il programma Green Economy dell’ United Nations Environment Program (Unep): “La nostra impronta ecologica è oggi pari a una volta e mezza il prodotto dalla Terra, e così facendo mettiamo a rischio la sopravvivenza della specie, inclusa la nostra. In altre parole stiamo consumando il passato, il presente e il futuro della biosfera, la nostra unica dimora, in un’insensata corsa al progresso. Scambiamo il Pil per il progresso, e stiamo tradendo il nome della nostra specie, Homo Sapiens” (Premessa al Rapporto al Club di Roma Bankrupting Nature, Earthscan/Rouledge 2012). La natura è la condizione essenziale per la vita dell’umanità e per la stessa economia, che “non è il sistema in cui viviamo, ma solo un sottosistema del grande ecosistema globale della Terra e come tale deve essere considerato” (Gianfranco Bologna, Quanto vale la natura, “L’Unità”, 22 ottobre 2013). La politica e l’economia devono quindi assegnare alla natura la dignità di realtà autonoma, di entità avente diritti. È il grande tema del “nuovo modello di sviluppo”, in cui alcune attività umane devono “crescere” perché “sostenibili” mentre altre devono “decrescere” perché “insostenibili”. Abbiamo tutte le condizioni di conoscenza, di saperi, di competenze per costruire uno sviluppo sostenibile per l’ambiente e per la persona. Non si tratta di predicare il pauperismo ma di ridefinire il concetto di benessere, di ricchezza e qualità della vita in una fase in cui siamo vicini alla rottura dell’ecosistema globale.
Alla sinistra sono e saranno utili, in questo lavoro di ricostruzione teorica, le tracce di una possibile linea alternativa lasciate in questi anni dalle sinistre, assolutamente minoritarie, che non si sono lasciate affascinare dalla “religione del progresso” e dalla sua variante secolarizzata, il produttivismo. Così come resta di grande attualità la critica di Pier Paolo Pasolini alla globalizzazione, cioè alla “conquista globale della mentalità tramite l’ossessione di produrre, di consumare, e di vivere in conseguenza” (Il sogno del centauro, Editori Riuniti 1983).
L’egemonia del neoliberismo
Il dopoguerra può essere suddiviso in due periodi storici dalla durata pressoché eguale, ma tra loro profondamente diversi: i “trent’anni gloriosi”, dalla fine della guerra fino al 1979-1980, e i “trent’anni ingloriosi”, che vanno dal 1980 alla “Grande crisi” del 2008. I primi contrassegnati dall’idea dell’inclusione sociale; i secondi dal mercatismo e dall’individualismo privatistico. Nei secondi i conservatori diventarono innovatori: la tavola dei valori fu riscritta e ribaltata. I risultati furono drammatici dal punto di vista sociale. Non solo: al termine del loro ciclo, la Thatcher lasciò la spesa pubblica quasi invariata (ridotta di un solo punto) nonostante le privatizzazioni massicce, mentre Reagan e poi Bush senior videro quadruplicare il debito pubblico americano nonostante i colpi al welfare. Nel primo caso i soldi incassati andarono a beneficio delle banche d’affari, nel secondo caso dell’industria bellica. Dopo la metà degli anni Novanta si aprì per la sinistra europea una seconda occasione: tredici Paesi su quindici dell’Unione europea scelsero maggioranze di sinistra o di centrosinistra. La stessa cosa avvenne in America. L’elettorato chiedeva inclusione e protezione sociale alla sinistra. Tutti e quattordici i Governi adottarono però politiche più o meno neoliberiste. Né andò meglio dopo. Nel 2007 il Pd nacque collocandosi sostanzialmente dentro la scia dei valori e del linguaggio del neoliberismo. Fu l’anno in cui, non a caso, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicarono Il liberismo è di sinistra (Il Saggiatore 2007). Nel 2008 la crisi dei subprime incrinò l’insieme del sistema finanziario americano. Il timore di un altro 1929 spinse tutti gli Stati a organizzare una gigantesca manovra di salvataggio con soldi pubblici. Il liberista intransigente Bush fu costretto a gestire il ritorno dello Stato. Ma i mercati finanziari, appena incassati i soldi pubblici, ripresero a comportarsi come prima. Con una novità: “questa volta la nuova preda dell’avidità speculativa della finanza internazionale erano quegli stessi Stati che si erano gravemente indeboliti per tamponare il buco provocato dalla finanza stessa e che per raggiungere questo obbiettivo avevano dovuto incrementare, come mai nel passato, il debito pubblico” (Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto, Mimesis 2012).
I mercati salvati dagli Stati si lanciarono con i soldi degli Stati stessi in una forsennata speculazione sul debito pubblico, per fronteggiare il quale agli Stati non restò che intervenire per ridimensionare il debito, con la riduzione della spesa pubblica e/o l’aumento della pressione fiscale. La “Grande crisi” si riacutizzò nel 2011: l’epicentro si spostò in Europa ed essa assunse la forma di crisi del debito pubblico. Il fallimento degli Stati, si cominciò a sussurrare, non è più un tabù. In quel contesto, il contenimento del deficit annuale del bilancio e dello stock complessivo di debito pubblico diventò una priorità assoluta. La Germania, il Paese più autorevole dell’area euro, si attestò in modo intransigente sulla richiesta di contenere deficit e debito a ogni costo, adottando la ricetta dei tagli alla spesa pubblica. La lettera dell’agosto 2011 della Banca centrale europea al nostro Governo segnò, di fatto, il commissariamento dello Stato italiano da parte del board della banca europea: dettava riga per riga i contenuti della manovra da farsi e richiedeva pubblicamente un cedimento di sovranità. Nel novembre 2011 la formazione del Governo Monti fu la conseguente autodichiarazione di impotenza della politica. Il Pd, dopo il fallimento della stagione veltroniana del “blairismo all’italiana”, aveva iniziato, sotto la guida di Pierluigi Bersani, la faticosa ricerca di una via neolaburista: ma arrivò senza un solido impianto politico- culturale all’appuntamento con la fase più acuta della crisi finanziaria europea e accettò di fare un passo indietro, dando via libera al Governo Monti e arrendendosi così, ancora una volta, al “pensiero unico” dominante. Secondo l’ideologia neoliberista le crisi economiche dipendono dallo sviluppo del welfare e dall’eccessivo potere del mondo del lavoro. Conseguentemente, in tutti questi anni si è colpito in una sola direzione, con il risultato dell’aumento spropositato delle diseguaglianze. Certamente il deterioramento dei bilanci pubblici è un dato reale, che ha molte cause, tra cui le scelte dei Governi italiani, quelli diretti da Berlusconi in primis. Ma è sbagliato usare l’argomento del debito per colpire il welfare e il mondo del lavoro: anche perché l’austerity non porta alla ripresa ma alla recessione, come i fatti hanno tristemente confermato. Un altro elemento dell’ideologia neoliberista fatto proprio dalla sinistra subalterna è quello racchiuso nello slogan “meno ai padri, più ai figli”, che sposta il conflitto sociale nel conflitto intergenerazionale. Anche questo mantra è stato smentito dai numeri.
Thomas Piketty ha dimostrato come la diseguaglianza tra i padri sia esplosa e sia stata trasferita sui figli e come la diseguaglianza intragenerazionale sia di gran lunga maggiore della diseguaglianza intergenerazionale, perché la stragrande maggioranza dei padri lavoratori è arretrata economicamente e socialmente e sono i loro figli, e non i figli in generale, a subirne le conseguenze (Capital in the Twenty-First Century, Harvard University Press 2014). Eppure, nonostante tutto, l’ideologia neoliberista ha ancora un largo consenso. L’intera società ne è stata plasmata in una forma talmente generalizzata da non essere avvertita in quanto tale: “Oggi tutti i rapporti, con gli altri e perfino con se stessi, sono orientati al principio mercantile del guadagno. Così, piuttosto che semplice modello economico, il neoliberismo si configura come l’insieme degli atti e dei discorsi che governano gli uomini secondo il principio della loro concorrenza” (Roberto Esposito, Mercato vs Stato, “la Repubblica”, 7 gennaio 2014). L’opposizione più vistosa è rappresentata dai diversi populismi: destra e sinistra, accettando l’opzione neoliberista, hanno entrambe logorato i loro rapporti con gli strati sociali che si sentono minacciati dalla globalizzazione e che non si sentono rappresentati. In questi varchi si sono inserite le nuove formazioni populiste emerse sulla scena politica europea e italiana.
La crisi della democrazia e i populismi
Le difficoltà straordinarie della sinistra non derivano soltanto dalla sconfitta sociale e culturale, ma anche dalla crisi di legittimità della democrazia rappresentativa e dei partiti politici, che alimenta l’insoddisfazione per la politica praticata la quale a sua volta dà ossigeno ai populismi e al mito dell’antipolitica e della politica antipartitica. Un mito che appartiene sia ai demagoghi sia ai potentati dell’economia, i quali detengono sempre più il potere reale, sottratto al controllo dei cittadini. Di fronte al fatto che le istituzioni democratiche sono sempre più impotenti rispetto ai nuovi poteri privati globali Colin Crouch ha parlato di una democrazia che tende a evolversi verso una “postdemocrazia” (Postdemocrazia, Laterza 2009). Qui sono le ragioni della marginalità della sinistra: svuotamento della democrazia e marginalità della sinistra sono cioè due facce della stessa medaglia. C’è una crisi di autorità dei Governi: gli elementi delle decisioni non sono nelle loro mani, spettano sempre più ai mercati finanziari e alle banche.
L’austerity neoliberista va criticata anche perché tende a corrodere gli spazi pubblici e le basi delle istituzioni democratiche. Gli esponenti dei poteri economici dominanti impongono il loro punto di vista nel dibattito pubblico e fissano l’agenda. Passato lo shock iniziale i sostenitori del pensiero neoliberista hanno accantonato ogni pudore e rilanciano le ricette che erano state all’origine della “Grande crisi”: privatizzazioni, deregulation, flessibilità. In un clima di perenne emergenza i potentati hanno buon gioco nell’affermare che il problema non è la bontà delle ricette ma gli impedimenti che hanno trovato sulla loro strada: bisogna, quindi, ridurre ulteriormente il peso dei poteri pubblici, restringere il ruolo dello Stato, tagliare il welfare. Il paradosso, nota Nadia Urbinati (A chi tocca decidere, “la Repubblica” 29 luglio 2014), è che “a una crisi di autorità corrisponde una mutazione della democrazia da parlamentare a esecutivista”. I Governi hanno margini di libertà di azione sempre più stretti e reagiscono reclamando “più potere decisionale, più libertà da lacci imposti dalle procedure e dalle istituzioni della democrazia costituzionale”; ma “senza alcuna certezza che più potere di decisione si traduca in decisioni meglio attrezzate a rispondere ai bisogni di una società impoverita e sfiduciata”. È la fase dei “capi carismatici”, del “decisionismo” e della “velocità”. Il leaderismo spegne la democrazia, che si trasforma e scivola verso una “democrazia del pubblico” (Bernard Manin, Principi del governo rappresentativo, Il Mulino 2010): devitalizzazione della politica, sua deriva oligarchica, svuotamento e demolizione dei partiti e dei corpi intermedi, trasformazione del cittadino in spettatore. Leggiamo dal libro citato di Riccardo Terzi questa analisi (lo scritto è del 2009): “Il governo democratico consiste nel prendere tempo, tutto il tempo necessario per ascoltare le diverse opinioni, per mediare tra i diversi interessi, per costruire una sintesi condivisa. La democrazia si occupa non della velocità, ma della qualità della decisione, ed essa ha bisogno di un tempo di maturazione, di un processo nel quale si possano ponderare tutte le possibili alternative. A tutto ciò si oppone la mitologia del decisionismo: il culto della velocità, il preconcetto che l’efficacia della decisione dipenda dalla concentrazione del potere, il mito del «capo carismatico», che da solo tiene in pugno tutta intera la situazione, l’idea insomma che la democrazia sia un dispendioso processo «ritardante», non più compatibile con una società in rapida evoluzione”. Il tema, ancora oggi, è sempre lo stesso: rafforzare i poteri dell’esecutivo, ridimensionare il ruolo delle rappresentanze, scardinare il modello costituzionale. Terzi proseguiva così: “Anche a sinistra c’è tutta una corrente di pensiero, se così si può dire, che affida le sorti della sinistra stessa alla piena accettazione del paradigma decisionista. Una sinistra finalmente moderna sarebbe quella che si libera del vecchio fardello partecipativo, e che compete con la destra sul suo stesso terreno… La ricetta non ha funzionato. E comunque sia, se si assume questo orizzonte ideologico, la distinzione tra destra e sinistra perde qualsiasi significato”.
Il problema, dunque, si chiama certamente Renzi, ma viene da più lontano. La risposta sta non solo in una contestazione del modello plebiscitario, che non è affatto una garanzia di efficienza ma solo di arbitrio, ma anche e soprattutto in una proposta radicalmente diversa che non metta in alternativa tra loro decisione e rappresentanza/partecipazione. La democrazia può darsi delle regole di efficienza senza rinunciare a se stessa. Il Pci, con Pietro Ingrao, era arrivato a proporre il monocameralismo – ma con una legge elettorale diversa! – e l’istituzione di forme e canali di partecipazione capaci di dare la parola ai cittadini e di rafforzare la democrazia rappresentativa integrandola con forme di democrazia diretta. Una innovazione forte, ma alternativa all’idea di un potere senza “limiti”. Tutta la riflessione sullo Stato moderno, nei suoi punti più alti, è stata una lunga, complessa meditazione sui “limiti” del potere, sul sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti a “unità”, cioè al potere di un leader. L’assenza, oggi, di una riflessione sui “limiti” del potere, pur nella consapevolezza della funzione del leader nella società contemporanea, è un grave segno di crisi della democrazia: del rischio di una sua “mutazione genetica”. La sinistra deve avere una proposta, perché c’è un legame che unisce a uno stesso destino la sinistra e la democrazia. Una proposta di governo della modernità, alternativa al populismo plebiscitario che è contro la modernità. Che sia basata su un principio fondamentale per la sinistra: la partecipazione. Il valore della democrazia sta nel fatto che essa dà a tutti i cittadini il senso che sia possibile decidere della loro vita: quando questo senso si assottiglia, molti possono arrivare a pensare che la democrazia sia inutile. Solo la democrazia partecipata può sconfiggere il mito dell’antipolitica e della politica antipartitica.
Il programma del riformismo radicale
La sinistra deve superare la vecchia contrapposizione tra le sue due anime, quella “riformista“ e quella “radicale”, uscendo dall’alternativa perdente tra la mera gestione dell’esistente e la mera protesta, unendo il realismo e l’immaginazione. La sua strategia deve essere quella del “realismo oltrepassante” (Carlo Galli, Sinistra, Mondadori 2013). La sinistra deve avere un programma di riformismo radicale: un progetto per le classi subalterne e per il Paese che sia innanzitutto un’alternativa convincente e credibile all’austerity. Deve dimostrare che è falso che non vi sia alternativa, come i più sostengono. Non è vero oggi, come non è stato vero ieri, come non lo sarà domani: c’è sempre un’altra possibilità. Negli scritti di questo volume ci sono molte proposte; un “catalogo” completo lo si trova nel libro di Giulio Marcon e Mario Pianta Sbilanciamo l’economia. Una via d’uscita dalla crisi (Laterza 2013). Gli autori lo riepilogano in “sette strade”, intrecciate e integrate tra loro: una politica della domanda per uscire dalla recessione, una spesa pubblica riqualificata, una “grande redistribuzione” che tolga ai ricchi per dare ai poveri, cominciando dalla tassazione, una riconversione ecologica del cosa e del come si produce, valorizzando i beni comuni e i saperi, il lavoro al primo posto e un Piano per il lavoro. Aggiungerei, se vogliamo che il lavoro industriale non si riduca ulteriormente, il punto della riduzione dell’orario di lavoro che in Italia, ce lo ha spiegato Pierre Carniti (La risacca, Altrimedia 2013), è più lungo che negli altri Paesi europei. Mi soffermo brevemente, in questa sede, su alcuni obbiettivi più controversi di altri, che a mio parere dovrebbero essere parte integrante e decisiva del programma riformista-radicale della sinistra. Essi fanno riferimento diretto ai grandi fini dell’eguaglianza e della libertà della persona che lavora. La riduzione delle diseguaglianze si ottiene con misure che abbiano effetti redistributivi sia in termini di reddito – la lotta all’evasione, la progressività delle imposte, alcune misure su profitti e rendite finanziarie – che in termini di ricchezza – l’imposta patrimoniale e quella di successione.
La riduzione delle diseguaglianze si ottiene poi agendo su altri fronti: l’aumento delle conoscenze, il miglioramento della qualità del lavoro, la riduzione della precarietà, i servizi offerti dal welfare. In questa strategia di redistribuzione è un elemento fondamentale il reddito minimo. La tutela del reddito di chi non lavora è il punto più debole del welfare italiano. Se consideriamo la dimensione della crisi occupazionale e la diffusione del precariato, il reddito minimo è lo strumento per assicurare continuità di reddito ed evitare la caduta in condizioni di povertà estrema. Questo strumento può permettere una gestione meno drammatica delle situazioni di crisi e di disoccupazione ed essere legato a programmi di formazione e politiche attive per il lavoro. E, a proposito di lotta alle diseguaglianze, il reddito minimo può consentire al figlio di una famiglia povera di finire gli studi. Ma c’è di più: oggi c’è una ricattabilità nei confronti dei lavoratori che non ha precedenti: l’imprenditoria non aveva mai avuto a disposizione tante braccia libere, un “esercito di riserva” disposto a lavorare a qualsiasi condizione. E quindi “occorre intervenire rendendo gli individui potenzialmente indipendenti, per la loro possibilità di vita, dal ricatto del lavoro, e separare sempre più marcatamente il reddito per vivere dalla prestazione lavorativa” (Piero Bevilacqua, Reddito minimo e il lavoro esce dalla schiavitù, “Il Manifesto”, 28 febbraio 2013).
Il reddito minimo, dunque, “si configura come punto di partenza”, mentre “l’approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale di cittadinanza” (Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza 2012). Ci sono, su questa proposta, resistenze politiche e sindacali, anche a sinistra, in forze che pensano ancora a un legame esclusivo tra reddito e lavoro. Ma la realtà del lavoro è per molti aspetti cambiata. Faccio esempi tratti dalla mia esperienza personale. Io sono un co.co.pro, ho brevi contratti legati a progetti, ed è praticamente impossibile averli in maniera continuativa. Io me la cavo perché per decenni ho avuto lo stipendio di funzionario di partito (anche quando facevo l’amministratore pubblico), che era poca cosa ma che mi ha consentito di mettere da parte qualche risorsa per le evenienze future. Ma i tanti giovani co.co.pro come me? Ce la possono fare solo se hanno una famiglia alle spalle. Ancora: tra i giovani ci sono tanti lavoratori intermittenti, occasionali, temporanei, che sperimentano e progettano in campo sociale, culturale, produttivo, e creano quindi una ricchezza che non è riconosciuta. È una realtà che sfugge ai più, ma tra i “non occupati” ce ne sono tanti che lavorano così! Per tutti costoro il reddito minimo sarebbe la possibilità di agire, uno strumento non solo per dignitose condizioni di vita ma anche uno strumento di libertà. Gli altri obbiettivi sono quelli legati al fine della libertà della persona che lavora. In Italia siamo sostanzialmente fermi ai diritti di informazione e consultazione introdotti nella metà degli anni Settanta nei contratti di categoria. Eppure i grandi cambiamenti culturali in atto, le nuove forme della comunicazione, la crescita di importanza della conoscenza come fattore della produzione consentirebbero di ritematizzare e rilanciare la questione, spingendo per la crescita della partecipazione creativa dei lavoratori all’attività produttiva. I lavoratori sono una “parte”, ma devono potere influire sulle strategie e sulla gestione aziendale. È il momento di applicare l’articolo 46 della Costituzione, che recita: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Sono arrivati i dinosauri
“Mai come oggi sarebbe indispensabile una sinistra capace di unificarsi attorno a un progetto-Paese inserito nel contesto dell’Europa e del mondo globalizzato. Mai come oggi si avverte il bisogno di una sinistra capace di spezzare il trend di deculturalizzazione della politica e di aprire varchi sui due lati delle istituzioni e dei movimenti, delle «strutture» e dei «soggetti». Mai come oggi sarebbe necessaria una sinistra machiavellianamente virtuosa e gramscianamente eretica, in grado di tenere insieme la politica come insieme di pratiche relazionali e la politica come evento, attitudine a decifrare i segni dei tempi. Mai come oggi una tale possibilità sembrerebbe a portata di mano. Mai come oggi essa appare remota” (Giacomo Marramao, Prefazione a Gianni Borgna, Senza sinistra, Castelvecchi 2014): questa è la conclusione, con le parole di Marramao, del percorso tracciato da Borgna poco prima di lasciarci. E questo è il punto, oggi. Condivido l’obbiettivo della lotta alla “deculturalizzazione”, tanto che ne ho fatto, quando ho lasciato la politica “tradizionale”, una delle mie ragioni di vita: l’Associazione Culturale Mediterraneo nacque nel 2008 proprio per cercare, nel suo piccolo, di restituire alla politica la sua dimensione ideale e culturale, in un rapporto diretto con la vita delle persone e le loro domande di senso. Una dimensione senza la quale la politica diventa affare di piccole oligarchie rampanti. Condivido anche l’obbiettivo di tenere insieme Machiavelli e Gramsci, il “mio” Gramsci della tesi di laurea, che prima o poi riprenderò per trarne il libro “Perché il Pci non è mai stato gramsciano”, su sollecitazione di Beppe Vacca, amico e Presidente della Fondazione Gramsci.
Faccio mio anche il ragionamento finale, anche se forse lo piego di più dal lato dell’“ottimismo della volontà”. Ma purtroppo non è la prima volta che, per usare il vecchio linguaggio tipico del dibattito politico-ideologico della sinistra italiana, una situazione ormai matura oggettivamente – perché di sinistra c’è bisogno! – non trova un soggetto in grado di interpretarla in maniera adeguata. Non c’è dubbio, veniamo dall’ennesima sconfitta. Ho intitolato un capitolo del libro La sinistra che avrei voluto: è la sinistra che è stata scientemente massacrata. Nel maggio 2011 Giuliano Pisapia fu eletto Sindaco di Milano: una svolta che aveva alle spalle un lungo lavoro nella città, di resistenza, di critica culturale, di ricostruzione della partecipazione civile. Nel giugno ci fu lo straordinario risultato dei referendum sui beni comuni: un grande pronunciamento per la loro inclusione in una “sfera pubblica” che non può essere ricondotta ai codici del mercato ma che nel contempo non si identifica -è importante sottolinearlo- con la “sfera politica”. I referendum raccolsero una domanda di partecipazione che sarebbe arrivata fino alla manifestazione della Fiom a ottobre, una delle più grandi di sempre. In quella fase mi impegnai con ancora più passione nei movimenti e aderii a Sel, perché sentivo la necessità di una “virata” del centrosinistra che raccogliesse quella spinta. E perché capivo che quella speranza di cambiamento, nel vuoto di una risposta politica, avrebbe incontrato il vento dell’antipolitica. Purtroppo la “virata” a sinistra non ci fu, anzi. A fine anno, caduto Berlusconi, avrebbe potuto esserci una trasformazione politica davvero profonda: ma il Pd decise di evitare le elezioni anticipate e di sostenere il Governo Monti. Forse lo fece anche perché alle primarie del centrosinistra avrebbe molto probabilmente vinto Nichi Vendola; certamente non fu solo per questo, ma anche e soprattutto per un malinteso senso di responsabilità sempre al confine con la subalternità, e per la volontà di smussare il più possibile la radicalità del riformismo. Per il progetto di Sel ciò fu esiziale: perché nell’“emergenza”, reale e amplificata, cambia l’ordine del discorso e prevale il “qui e ora” sul progetto di trasformazione. La sconfitta nasce già qui. Le elezioni politiche del febbraio 2013, dopo un anno di Governo Monti e con il Pd che continuava a proporre l’“agenda Monti”, diedero il risultato che molti di noi temevano. La campagna elettorale apatica, al limite dell’autolesionismo, del Pd vi contribuì non poco. Sel decise di svolgere un ruolo di “garanzia della tenuta a sinistra dell’alleanza”, ma pagò, anche per suoi errori, un prezzo altissimo. Le mobilitazioni dal basso, non trovando una rappresentanza nei soggetti politici tradizionali, finirono con il premiare la protesta populista contro la Casta: il Movimento 5 Stelle divenne il primo partito, e ottenne risultati straordinari nella Val di Susa della Tav, nella Taranto dell’Ilva e nelle aree di crisi occupazionale più grave. Dopo le elezioni scrissi un’e-mail a Enrica Salvatori, un’amica docente universitaria, per invitarla a un’iniziativa pubblica di Sel. Ho conservato la sua risposta, perché è davvero un “segno del tempo”. Eccone il testo: “Il danno di quello che è stato fatto è incommensurabile e lo pagheremo carissimo negli anni a venire.
Sel, che ha tutta la mia stima e che ho votato, non ha la minima forza per ricostruire dal basso un processo di trasformazione, perché c’è già qualcuno che l’ha fatto al posto suo e con altri mezzi e fini (Grillo). Ogni ambiente funziona come un sistema ecologico, se la nicchia ecologica è occupata dai dinosauri il posto per l’uomo non c’è, bisogna aspettare che si crei. Questo significa che qualsiasi operazione si metta in campo ora è destinata a produrre frutti solo nel corso di uno o due lustri. Unica chance: lavorare su poche idee forti: socialismo nei sistemi produttivi, pari diritti e ambiente; contemporaneamente agire nel concreto per applicare queste direttive a livello locale insieme ai grillini, che sono destinati fatalmente a trasformarsi”.
Il partito “pigliatutto”
L’elettorato di sinistra ha scelto in parte il M5S, in parte l’astensione, ma in parte, nelle elezioni europee del maggio 2014, anche il nuovo Pd di Matteo Renzi. Renzi rappresenta la conseguenza inevitabile dei fallimenti della classe dirigente di sinistra, politica ma anche sindacale, degli ultimi vent’anni. E se, dopo tanti fallimenti, arriva un bravo comunicatore che dice “voglio cambiare tutto”, anche se non spiega con chiarezza che cosa intende fare, è normale che abbia un seguito in un elettorato di sinistra smarrito. Di Renzi ho apprezzato la manovra degli 80 euro, anche se avrei preferito che fossero dati anche ai più poveri e ai pensionati, e che fossero finanziati non con tagli agli enti locali e alla spesa sociale ma con prelievi sulle grandi ricchezze; ho criticato invece le misure sul mercato del lavoro, la debolezza dell’iniziativa per cambiare l’austerity in Europa, l’accordo spregiudicato con Berlusconi per ridisegnare a misura d’entrambi il profilo delle istituzioni… Considero il Pd di Renzi un partito “pigliatutto”, che cerca di intercettare interessi sempre più eterogenei: un partito di centro, o “americano”. Che non ha perso i due vizi originari del Pd: una visione di fondo neoliberista e una forte compenetrazione clientelare con lo Stato, a partire dai territori. Va detto che il trionfo percentuale alle urne contiene delle componenti ingannevoli: con un’astensione superiore al 41% e le schede bianche e nulle oltre l’8%, 11 milioni e 200.000 voti sono tantissimi, ma quasi un milione di meno di quelli ottenuti dal Pd di Veltroni nella sconfitta del 2008. E, lo stesso giorno, il Pd ha ottenuto molti voti in meno là dove si votava per le elezioni amministrative. La verità è che l’elettorato è diventato sempre più fluido, volatile, privo di riferimenti stabili; e che la mappa del sistema politico non è ancora delineata. Assisteremo probabilmente a scomposizioni e ricomposizioni del sistema, perché tutti i partiti esistenti sono tenuti insieme da collanti incerti. Il Pd può evolvere verso il “partito unico articolato” tipico delle “larghe intese permanenti”: è infatti nella più radicata tradizione delle classi dirigenti italiane la scelta di avvalersi di un “partito unico” di governo, e da Monti a Letta e a Renzi abbiamo visto operare, in forme diverse, questo schema. Gli schieramenti possono essere di volta in volta diversi, ma comunque agiscono sempre all’interno dello schema, valoriale e programmatico, tracciato dal “partito unico”. La politica diventa solo una tecnica, subalterna al mercato; e si fa essa stessa mercato, scambio di favori e di convenienze reciproche. Il ceto politico diventa sostanzialmente intercambiabile. Se andassero avanti questi processi, molto evidenti anche nei territori, bisognerebbe parlare di una vera e propria “mutazione genetica” del Pd. Vorrei sbagliarmi, ma questa mi sembra oggi la direzione prevalente.
Certo, il Pd può anche evolvere verso un nuovo centrosinistra – quello vecchio ha smesso di esistere da un pezzo-, ma solo se terrà conto di forze di sinistra presenti al suo interno (anche se molto indebolite) e dell’orientamento di sinistra prevalente nel suo elettorato (anche se calante: alle europee sono arrivati al Pd un milione e 270.000 voti dal partito di Monti e mezzo milione dal partito di Berlusconi). L’evoluzione del Pd dipenderà da molte cose: non sarà irrilevante se nella politica italiana ci sarà o meno una forza significativa di sinistra.
Un nuovo partito della sinistra
Gianni Borgna ha previsto in Senza sinistra che “le componenti moderate del Pd e del Ncd di Alfano alla lunga finiranno con l’incontrarsi” e che “a quel punto sarà inevitabile che il resto del Pd si unisca ad altre forze della sinistra, creando a sua volta un partito realmente, e non a parole, socialista e riformista”. È un’ipotesi verosimile. Dovrà essere una forza non minoritaria, non semplicemente “a sinistra del Pd”, ma portatrice di un punto di vista autonomo e di un disegno di società. Le potenzialità esistono, come dimostra il raggiungimento del quorum del 4% alle elezioni europee raggiunto dalla lista “L’Altra Europa con Tsipras”, ottenuto nel momento più difficile: il trionfo del Pd di Renzi e la sua “cannibalizzazione” delle forze ad esso elettoralmente più vicine. Il percorso di Alexis Tsipras e di Syriza in Grecia è senz’altro un punto di riferimento, innanzitutto perché Syriza è una forza unitaria frutto di un intenso lavoro tra gli strati più deboli della società, che si è costruita come un soggetto al contempo politico e sociale. Syriza non ha solamente proposto una linea e dei contenuti politici, si è anche insediata nella società e ha promosso esperienze di mutualismo e di welfare territoriale. Questo è un punto di fondo: il nuovo partito della sinistra potrà sorgere solo da un’osmosi permanente tra politico e sociale. Io sono critico nei confronti dell’idea del primato dei partiti e dell’autonomia della politica: perché i partiti hanno bisogno del sociale e perché anche i movimenti sociali hanno contenuti politici. Nel contempo sono critico anche dell’idea del primato dei movimenti e dell’autonomia del sociale: perché i movimenti hanno bisogno del politico e perché i partiti devono essere essi stessi società. La sinistra politica esiste in quanto si ricostruisce una sinistra sociale; ma quest’ultima non può essere lasciata a se stessa, avulsa dai partiti. Il lavoro politico non può non essere insieme un lavoro sociale, di radicamento nella società, di costruzione della capacità di rappresentanza sociale: la politica senza rappresentanza diventa solo il campo della competizione per il potere. Il lavoro sociale a sua volta non può non essere insieme un lavoro politico, non può disertare la politica né pensare di sostituirsi alla politica, ma deve ambire a ridefinirne lo spazio, introducendovi nuovi attori e procedure di democrazia partecipativa. Il nuovo partito dovrà essere l’esito dell’apertura dello spazio della politica alle pratiche di partecipazione dal basso di associazioni e movimenti: proprio ciò che è contenuto in nuce, pur tra tante contraddizioni, nella “polifonia” alla base dell’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras”.
La sorgente sociale dei movimenti non è più solo il lavoro: la loro esperienza critica matura dentro e fuori dal lavoro. Essi raccolgono forze e sollecitazioni che attraversano tutta la società. Il blocco sociale e culturale post liberista alla base del nuovo partito della sinistra dovrà avere più protagonisti: le comunità locali attente ai loro territori e a un nuovo modello di sviluppo; il terzo settore, l’economia solidale, il mondo della solidarietà sociale; la parte più vitale della piccola impresa; i movimenti pacifisti e ambientalisti. Ma il lavoro non ha cessato di essere un’esperienza centrale della vita delle persone: è ancora il punto di partenza per la costruzione del blocco sociale e culturale post liberista. Certo, il lavoro è oggi segmentato e lacerato – si pensi soprattutto alle nuove soggettività sociali “non garantite” – e appare come un insieme di interessi non più riconducibile all’unità. Ma nella storia le differenziazioni ci sono sempre state, in misura più o meno marcata, e l’unità è sempre stata “il risultato di una costruzione culturale e politica, non una confluenza spontanea” (Salvatore Biasco, Ripensando il capitalismo, Luiss University Press 2012). Ricomporre i diversi tasselli del mosaico è il grande compito della sinistra, politica e sindacale, anche in questa fase: un compito che va esercitato nel vivo del grande conflitto in corso su “chi paga” la crisi e su “come uscirne”. Il nuovo partito della sinistra non deve essere un partito personale, dove contano solo i capi o addirittura solo il capo. Nella personalizzazione del potere non sono le idee a fare la politica ma il leader-attore in uno spazio pubblico che è sempre più spazio pubblicitario. Ho conosciuto il partito vero, organismo collettivo. Ricordo che fui eletto Segretario provinciale prima del Pci e poi del Pds a larghissima maggioranza e a voto segreto, pur facendo parte di un’area politico-culturale di minoranza: contava il merito, e c’era la voglia di cooperare tra persone diverse. Quando lasciai, nel 2007, era già cambiato tutto: al posto del merito la fedeltà alla fazione, al posto della cooperazione la competizione per il potere. Dopo aver fatto il Sindaco sarei dovuto diventare uno dei capi bastone del Pd, con un mio ”potentato”. Lasciai perché avevo nuove passioni e perché non credevo nel Pd. Ma lasciai anche per il degrado del partito: figuriamoci, non mi ero nemmeno mai occupato in passato di come i miei principali collaboratori si schierassero nei congressi… Immaginavo il futuro, anche se non così in basso. Per me partito e sinistra sono sempre stati due concetti storicamente e teoricamente connessi: non ho cambiato idea. Riformare radicalmente i partiti è dunque un imperativo categorico. Bisogna tornare al merito e alla cooperazione, in un organismo collettivo. Che sia molto più democratico, inclusivo, orizzontale rispetto al passato. In cui si aprano continuamente canali di comunicazione e di partecipazione con gli iscritti, con gli elettori, con la rete variegata dell’associazionismo. Che si basi sulla “mobilitazione cognitiva” di cui ha parlato Fabrizio Barca (La traversata. Una nuova idea di partito e di governo, Feltrinelli 2013). “Il potere è come la droga… nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce il rifiuto della realtà e il ritorno di segni infantili di onnipotenza” (Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi 1986). L’antidoto alla tossicità del potere è la sua democratizzazione e socializzazione, è il partito non verticalizzato e gerarchizzato. Il nuovo partito della sinistra deve essere nuovo, come ho cercato di dire, nei valori, nei programmi, nel modo di essere: un progetto in costante divenire, non la cristallizzazione di vecchie certezze. Ma “tra innovazione e tradizione c’è e deve esserci tensione, nella quale alla prima spetta tagliare i rami secchi e alla seconda conservare quelli vitali… La tabula rasa è un’illusione infantile, perché nessuno ricomincia mai davvero da capo” (Gustavo Zagrebelsky, Chi ha tradito l’antico patto tra padri e figli, “la Repubblica”, 24 maggio 2014).
Tutto il libro è animato da questo spirito. La lunga storia di emancipazione delle classi subalterne ha lasciato tracce profonde: resta un deposito di energie da cui attingere. Certamente non basta, ma il futuro non è nelle mani di chi è senza storia. Come nel famoso quadro di Paul Klee, Angelus Novus, dobbiamo essere consapevoli del fatto che noi procediamo verso il futuro, nella bufera, con il volto che guarda all’indietro, rivolto al passato.
Bisogna immaginare Sisifo felice
L’attuale configurazione del sistema politico ha un carattere aleatorio. Renzi non è un leader stabile: potrebbe presto cominciare la caccia a un nuovo salvatore… E Grillo ha sì occupato lo spazio vuoto di cui mi scriveva Enrica Salvatori, ma lo ha fatto per mantenerlo vuoto: nel senso che la sua non è una politica di sinistra. La sinistra ha quindi le sue chances, ha una prospettiva, malgrado tutto, ancora aperta. Ma la sinistra può solo fare una grande politica: deve quindi avere un grande progetto. Sui valori e sui programmi non partiamo da zero: bisogna mettere insieme in un disegno coerente i tanti segmenti vitali di cui disponiamo. Mentre le radici sociali della sinistra non sono state del tutto divelte. Nel libro uso spesso il termine “macerie”: la progettualità strategica ha bisogno di tempi lunghi. Però le classi subalterne e il Paese non aspettano, dobbiamo provare a incidere da subito, muovendoci per tentativi. Serve un sussulto. Dobbiamo sentire i nostri doveri verso le classi subalterne e verso il Paese. La lista Tsipras, Sel e il Prc, le persone di sinistra che sono nel Pd, le persone di sinistra che sono nel M5S, le tante energie del mondo della cultura, le associazioni nazionali e locali… siamo tutti chiamati, dentro, fuori e oltre i partiti, all’impegno per innescare il processo di ricostruzione della sinistra italiana. Un processo che nasca sia dall’alto che dal basso, che viva con il metodo della democrazia partecipativa e che ritrovi un popolo. Bisogna mettere da parte i vecchi mali dell’egoismo di parte, dell’indisponibilità ai compromessi e del settarismo per tornare al confronto e all’unità. È faticoso, lo so, ma è un obbligo e alla fine ci farà star bene: “Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice” (Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani 2001). Come scrive Piero Bevilacqua, “la lotta pur tra difficoltà e delusioni, quando si inscrive in un orizzonte visibile di possibilità, quando è ispirata da un obbiettivo di giustizia, quando è illuminata da una partecipazione corale, costituisce pur sempre, per chiunque la pratichi, una ragione di vita in un mondo altrimenti svuotato di senso” (Il grande saccheggio, Laterza 2011). Io cercherò di fare la mia piccola parte. Non ha davvero più senso, se mai lo ha avuto, la vecchia domanda che mi è stata fatta infinite volte: “tornerai?”. Io non sono mai “andato via”. Ho scelto di studiare e di scrivere, ma in me lo studioso non è in alcun modo separabile dall’organizzatore di cultura, di solidarietà sociale e di iniziative politiche. È il contrario esatto dell’intellettuale e del dirigente politico “tipico” del nuovo millennio: ma io non ho “il desiderio di essere come tutti”. E, come Katie, ci sarò sempre.
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