“Non come tutti” – Prefazione di Piero Bevilacqua
PREFAZIONE DI PIERO BEVILACQUA
Giorgio Pagano incarna una di quelle figure – divenute ormai sempre più rare nel panorama politico italiano – che spiegano a posteriori buona parte delle ragioni della grandezza del vecchio Pci, il suo radicamento territoriale, l’alterità morale dei suoi quadri dirigenti, l’efficacia riformatrice della sua azione pluridecennale nella società italiana. Perché egli è stato e continua a essere il politico militante e a un tempo l’amministratore solerte, quotidianamente vicino ai problemi e ai bisogni popolari, ma anche l’intellettuale vigile e informato. E col termine intellettuale non intendo l’organizzatore di premi letterari estivi per esibire un po’ di divismo culturale ai cittadini, ma il militante che studia, che segue il dibattito teorico-politico, che continua ad analizzare la realtà in cui opera, non contentandosi della mera empiria amministrativa, ma utilizzando gli strumenti offerti dalla migliore pubblicistica corrente. Egli insomma legge libri – evento divenuto ormai raro tra gli esponenti del ceto politico – e perfino ne scrive (questo è il suo terzo) intervenendo con la propria originale elaborazione nel dibattito pubblico.
Già queste caratteristiche storiche, per così dire, di Giorgio Pagano mostrano a sufficienza le ragioni di una mia prefazione a questo suo libro. Gran parte della buona amministrazione, della creazione di servizi efficienti, il soddisfacimento di diritti fondamentali dei cittadini, insomma l’estendersi di aree di civiltà democratica nella Penisola, in regioni come l’Emilia, la Toscana, la Lombardia, la Liguria, ma non poche volte anche nel nostro Mezzogiorno, si deve al fervido lavoro di figure come la sua, animate da un imperativo che in tutti questi anni anni turbolenti non si è mai appannato: perseguire il bene comune, praticare la politica non come mestiere affaristico, ma come leva per allargare l’accesso al benessere sociale e alla libertà di un numero crescente di esclusi. Ma il mio consenso al suo lavoro non si limita al sommario e necessariamente rapido inquadramento della sua persona in una storia generale, pur così grande e nobile. Io concordo pienamente con le idee politiche di fondo che Giorgio Pagano elabora con ammirevole chiarezza nelle pagine di questo libro. Nel senso che mi ritrovo nelle posizioni che egli elabora per definire il campo della sinistra nel nostro Paese e più in generale nelle interpretazioni che egli abbozza circa la nostra storia politica più o
meno recente. Un “riformismo radicale” – il tipo d’azione politica auspicata da Pagano – è, a me pare, l’espressione calzante per indicare ciò che oggi può distinguere una formazione politica
di sinistra nella Babele dei linguaggi che assorda e confonde la scena pubblica. Una espressione indicante una strategia di lotta e di allargamento delle basi del potere, che in una democrazia
matura non può più essere, ovviamente, di tipo insurrezionale, ma nello stesso tempo in grado di incidere con efficacia reale nei rapporti di forza fra le classi. Com’è noto, il termine riforma, riformismo, riformatore è così inflazionato da essere inutilizzabile. Oggi viene anzi maneggiato con significato opposto, rispetto a quello coniato dalla grande tradizione socialista e comunista, dai vertici di Bruxelles e da non pochi epigoni della propaganda neoliberale.
Perfino il presidente della Bce, Mario Draghi, usa il termine “riforme strutturali”, rubandolo (e macchiandolo, per così dire, con un sigillo di classe avverso) alla storia del Pci. Le “riforme di struttura” fu una parola d’ordine coniata da Palmiro Togliatti, diffusa e propugnata dai comunisti italiani tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. E voleva dire profonde trasformazioni nell’economia, come per esempio la nazionalizzazione dell’energia elettrica e di altri comparti industriali, e un equivalente mutamento nei rapporti fra le classi a vantaggio dei ceti popolari. Nel lessico tecnocratico di oggi queste agognate riforme sono dirette prevalentemente contro la classe operaia e il mondo del lavoro, hanno il fine di ritardare l’andata in pensione delle varie figure, di rendere flessibile la forza lavoro, trasformarla definitivamente in merce pienamente disponibile da parte della imprese. Così comanda l’aspro agone della competizione orchestrata dal capitale su scala mondiale. Ma Pagano non si limita alle definizioni. Ricorrendo agli studi di Norberto Bobbio, agli scritti di Vittorio Foa e di altri militanti o studiosi, entra nel merito delle caratteristiche che dovrebbero segnare e anzi dominare il campo della sinistra. E l’elemento distintivo, l’obbiettivo strategico di essa dovrebbe essere la lotta contro le diseguaglianze. Un obbiettivo di giustizia sociale che basta da solo a distinguere ciò che è di destra da ciò che è di sinistra, a separare con una frattura geologica i due campi in schieramenti avversi senza possibilità di camuffamenti. Non dimentichiamo che talora la destra si camuffa di sinistra, con metamorfosi spesso sorprendenti e spettacolari, per imporre il suo interesse classista e le sue soluzioni. Oggi ne abbiamo una prova solare nella politica di Matteo Renzi, che sta realizzando i programmi del centro-destra utilizzando il corpo inerte e ormai svuotato di un partito che doveva essere di centro-sinistra. Com’è noto, e come Pagano ricorda, fu proprio Bobbio, nell’ormai celebre Destra sinistra (Donzelli,1993) a dare al perseguimento dell’eguaglianza la connotazione di elemento distintivo della sinistra rispetto alla destra. Per la verità, non è che si trattasse di chissà quale scoperta teorica. Chi aveva letto almeno un po’ di Marx riusciva ancora a ricordarsi che cosa volesse significare essere di sinistra. Ma Bobbio vi tornò su con la sua forza analitica e la sua autorevolezza, in un momento in cui si andavano rimescolando le carte del sistema politico italiano, con l’entrata in scena da protagonista della vecchia destra fascista, riammodernata in Alleanza Nazionale da Giancarlo Fini. E sopratutto ebbe il merito di dare rilievo a una questione destinata a ingigantirsi negli anni a venire.
La diseguaglianza, infatti, è forse il più grave e lacerante problema sociale del nostro tempo. Studi di grande valore mostrano come essa sia alla base dell’emarginazione di ceti e individui, spinga al consumo di droghe, alimenti l’evasione scolastica, favorisca la maternità e gli aborti precoci delle adolescenti, induca alla violenza di strada e insomma procuri a un numero crescente di persone l’infelicità del vivere. In una inchiesta a due mani durata 25 anni, pubblicata in Italia da Feltrinelli con il titolo La misura dell’anima (2009), Richard Wilkinson e Kate Pickett, ricordando che “la diseguaglianza è violenza strutturale”, hanno mostrato all’opinione pubblica mondiale i guasti insostenibili di questo fenomeno devastante. Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha dedicato un libro, Il prezzo della disuguaglianza (Einaudi 2013) per certificare come l’ineguale e iniqua distribuzione del reddito danneggi la stessa regolare espansione del capitalismo, operi in maniera controproducente per la stessa acclamata crescita. E anche studiosi italiani, come Maurizio Franzini con Disuguaglianze inaccettabili (Laterza 2013) o Emanuele Ferragina, con A chi tutto a chi niente (Rizzoli 2013), hanno mostrato con dovizia di dati i danni sociali innumerevoli prodotti dal modo diseguale con cui la ricchezza si ripartisce fra i cittadini se è il solo mercato a regolarne la dinamica. Oggi disponiamo di uno studio, il grande lavoro (e in parte collettivo) a firma di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo (Bompiani 2014), che prova, con ampiezza incomparabile di dati e di riscontri analitici, come sia il capitalismo neoliberista della nostra epoca a generare, con i suoi specifici meccanismi di accumulazione, diseguaglianze crescenti tra le classi sociali e a concentrare la ricchezza generale in ambiti sempre più ristretti di ceti, gruppi e individui. Ma Pagano pone un altro elemento decisivo a fondamento dell’identità storica e presente della sinistra: il lavoro umano, vale a dire il cuore del modo di produzione capitalistico su cui si regge la nostra epoca. E lo fa con una espressione particolarmente efficace e insieme così drammaticamente aderente ai tempi: “Questa è l’altra grande questione che non meno dell’eguaglianza definisce l’identità della sinistra: la libertà del lavoro dalla condizione di merce.” Non poteva essere espressa più efficacemente. In un’epoca in cui la libertà individuale è diventata la retorica dominante, di fatto si cancella dallo sguardo generale e dallo stesso immaginario collettivo la progressiva, incalzante impossibilità dei lavoratori di sottrarsi alla pura vendita del corpo nel mercato generale delle merci. Si dimentica la perdita della dignità personale del disoccupato, l’impossibilità di progettarsi la vita di milioni di giovani alle prese con lavori precari, la crescente impossibilità per così tanti uomini e donne, in Italia e in varie parti del mondo, di far corrispondere al lavoro un reddito che consenta di accedere a diritti sempre più privatizzati e sempre più costosi. Oggi, e Pagano ne fa cenno qua e là, il problema del lavoro, della sua sicurezza e dignità non è solo una questione sociale: è un problema rilevante di democrazia. Questa infatti non è semplicemente una architettura giuridica. Non si esaurisce semplicemente in un repertorio di norme che garantiscono la cosiddetta libertà negativa dell’individuo. La mia libertà di criticare apertamente il potere senza essere incarcerato è certamente un pilastro dello stato di diritto da difendere strenuamente, ma esso non basta a fondare la democrazia. Se io sono privo del reddito per vivere, io devo asservirmi a qualcuno per non morire, la mia libertà è perduta. È evidente che esiste un nesso vincolante tra welfare e democrazia: quello che abbiamo conosciuto e sperimentato dopo la seconda guerra mondiale in tutti i grandi Paesi industrializzati. Oggi che il welfare è sotto attacco appare evidente, quasi immediata e automatica conseguenza, come anche gli spazi della democrazia si restringano e le istituzioni del potere tendano ad assumere una configurazione sempre più escludente e autoritaria.
Sono molti i temi trattati dall’autore nel saggio introduttivo inedito e nei vari articoli raccolti, ai quali qui non si può neppure accennare. Eppure, nello spazio modesto di queste brevi note, vorrei riprendere almeno un punto, una considerazione storica appena accennata dall’autore. Pagano allude più volte ai limiti della concezione riformatrice del vecchio Pci. Credo che si tratti di un problema rilevante che oggi meriterebbe un approfondimento storico di non modesta portata. Anche chi, come me, considera l’esperienza del Pci nella vita italiana tra gli anni ’50 e ’70 del ’900 come una delle più grandi pagine della storia italiana, oggi si accorge dei tanti limiti culturali con cui quel partito affrontò le sfide del suo tempo. Limiti soprattutto di lettura e di comprensione delle dinamiche del capitalismo italiano e internazionale. Ma certamente il partito nuovo di Togliatti costituisce una grande invenzione politica, senza la quale il Paese non sarebbe probabilmente diventato quel che pure è diventato. E non a caso i problemi si porranno più tardi. Ebbene, benché non sia possibile qui argomentare, credo che Pagano non si allontani molto dalla verità storica quando afferma che il Pci comincia il suo declino con il compromesso storico. Non perché i successi elettorali non abbiano immediatamente arriso a quella esperienza. Spesso la storia ama travestirsi e nasconde con trionfi momentanei la strada senza uscite che si è imboccato. Quella scelta rivelava sotterraneamente l’esaurimento di un progetto, un declino di creatività, il venir meno di una capacità di ripensare un modello di democrazia più avanzata in un Paese come l’Italia, chiuso entro i vincoli del “blocco atlantico” e proiettato negli spazi di un capitalismo che andava vincendo sul piano mondiale la sua lotta con il comunismo. Certo, dopo il 1989, sulla carta, esistevano nel nostro Paese le forze capaci di riprogettare un partito che tenesse conto di quella catastrofe, che si manifestò allora sotto forma di crollo, ma che era iniziata almeno dagli anni ’30, con la trasformazione in dittatura sanguinaria della rivoluzione bolscevica. Ma quelle forze non sono state capaci di imboccare una via forse possibile. Sappiamo come è andata a finire. Sappiamo che alla fine, dopo tante metamorfosi, è nato il Pd e che la storia di questa superstite sinistra si è manifestata e quasi esaurita nel movimento fisico di un continuo indietreggiare: sul piano del legame con le masse popolari, della difesa dei diritti, della elaborazione progettuale, della rappresentanza, dell’organizzazione dei conflitti. Altro tema accennato da Pagano. Senza i conflitti non solo la democrazia, ma l’intera società imputridisce, come l’acqua che non ha scorrimento. La cultura politica italiana lo sa almeno dai tempi di Niccolò Machiavelli, autore di in un celebre capitolo nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. La pagina che mostra come il conflitto tra i patrizi e i plebei nella Roma repubblicana fosse alla base della creazione di istituzioni libere nella città. E non è necessario scomodare il lontano e partigiano Marx per ricordare il ruolo dei conflitti nelle società del nostro tempo. È sufficiente il parere autorevole di un liberal-democratico come il Ralf Dahrendorf di Classi e conflitto di classe nella società industriale (Laterza 1963). Ma queste sono citazioni spropositate, me ne rendo conto, se il soggetto nell’argomentare è il Pd. Quale conflitto, quale analisi delle tendenze del capitalismo del nostro tempo ha mai messo in campo questa formazione? Bastano i sondaggi, le misurazioni dei tecnici degli istituti demoscopici, i nuovi intellettuali di una società ridotta a mercato elettorale. Gran parte dei dirigenti appartenuta un tempo alla sinistra è stata ormai inquadrata con nuove divise nell’esercito dall’avversario, guarda al mondo presente con gli occhi del vincitore, che ha strappato una battaglia storica. E parlano ormai il suo linguaggio. Ma è uno sguardo e un linguaggio senza avvenire, perché non saranno certo gli epigoni tardivi, e i convertiti al nuovo potere che saranno in grado di tirar fuori dal disordine e dalle convulsioni un modello di società giunto all’esaurimento delle sue capacità egemoniche. La sinistra dispersa e politicamente informe non appare oggi in grado di aggregare un grande movimento unitario popolare. Benché oggi possegga gli strumenti teorici per leggere con profondità il corso della storia presente, e abbia la possibilità di indicare nuove e percorribili vie: capaci di mettere in armonia il benessere materiale e l’ espansione delle libertà democratiche, il moto di umana emancipazione con la preservazione degli equilibri di un pianeta oggi in pericolo. Ma i tempi della politica e quelli della storia spesso sono sfasati, nonostante oggi la storia corra a una velocità ben diversa da quella delle epoche del passato. Forse si deve consumare fino in fondo la morte di una grande tradizione politica, perché il nuovo progetto trovi gli uomini capaci di renderlo concreto e operante. Ma questo non avverrà necessariamente per l’evoluzione spontanea delle cose. Senza il concorso dell’umana volontà, la storia non cammina. Non cammina secondo i nostri disegni.
PIERO BEVILACQUA
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