Manifestazione al Passo del Rastrello – 20 Maggio 2022
Intervento di Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia
Anche quest’anno ci ritroviamo attorno al monumento simbolo della Resistenza di Spezia, Massa e Parma.
In questa zona di montagna si formarono, tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, le prime bande dei ribelli: a Torpiana di Zignago le bande di GL; in Val di Vara-Val di Taro la banda Beretta e poi la Centocroci, formazioni autonome e moderate, con la presenza, nel caso della Centocroci, anche di comunisti spezzini; nel Pontremolese il Battaglione garibaldino Picelli, sotto il comando parmense; nello Zerasco il Battaglione Internazionale, guidato dal maggiore inglese Gordon Lett.
Grazie alle azioni di questi primi gruppi si formò, nel giugno-luglio 1944, un’area libera da presenze fasciste che comprendeva decine di piccoli paesi. Questa zona aveva il suo centro nei monti Gottero e Picchiara e, sebbene con confini variabili, finì per inglobare buona parte della Val di Vara, Zeri e parte degli altri Comuni montani della riva destra del Magra. L’area liberata si rivelò molto importante per l’approvvigionamento delle bande e per il reclutamento dei giovani della zona. La presenza dei partigiani era minacciosa per i tedeschi e per i fascisti, perché le azioni di guerriglia e di disturbo rendevano più difficile il transito di mezzi militari sui passi appenninici e rallentavano la costruzione della Linea Gotica, la linea di difesa appenninica. Ci fu anche una vittima illustre, il podestà di Sesta Godano Tullio Bertoni, responsabile del partito fascista repubblichino in Val di Vara, uno dei responsabili della morte, a Chiusola, dell’eroe Piero Borrotzu. Bertoni fu catturato e fucilato; a lui fu poi intitolata la Brigata Nera della Spezia.
Dall’altro lato, oltre il passo delle Cento Croci, il movimento partigiano liberò, in quegli stessi mesi, la Val di Taro e la Val di Ceno.
Proviamo a immaginare lo spettacolo inconsueto di quella primavera-estate del 1944. Cesare Godano, partigiano azionista, così descrisse il monte Picchiara:
“I grandi prati a pascolo che dalla linea di displuvio si abbassavano dolcemente e gradualmente fino all’inizio dei boschi […] erano invasi da una specie di città magica, fatta di un arcobaleno di colori, distribuiti senza ordine, qui più densi, là più radi, a comporre un quadro incredibile, stupefacente. Almeno un centinaio dei grandi paracadute recuperati dai lanci erano utilizzati come tende. […] L’effetto visivo era quello di una magica città orientale, dove una miriade di palloncini colorati galleggiano su un mare, che qui era il verde sui prati”.
La reazione tedesca non tardò. L’estate del 1944 fu la stagione dei grandi rastrellamenti.
Prima il Wallenstein I, tra Cisa e Cerreto. Verso la popolazione lunigianese, ritenuta responsabile e punibile, i nazifascisti si comportarono con estrema durezza (ne è simbolo la strage di Ponticello di Pontremoli). Fu una gigantesca razzia di derrate alimentari, bestiame e uomini da destinarsi ai lavori forzati in Germania.
Poi il Wallenstein II, in Val di Taro e Val di Ceno. Con caratteristiche simili, anche se i tedeschi subirono in una prima fase pesanti sconfitte (Manubiola e Pelosa) da parte dei partigiani, tra cui quelli della Centocroci.
I repubblichini, preoccupati, chiesero insistentemente ai tedeschi di rastrellare anche questa zona. Il rastrellamento ebbe inizio nelle prime ore del 3 agosto con l’avanzata concentrica verso il monte Gottero e il monte Picchiara di migliaia di tedeschi, aiutati dagli alpini della Monterosa e dai repubblichini della X Mas. La resistenza partigiana fu subito vinta. Solo la banda giellista guidata da Daniele Bucchioni “Dany” a Calice e soprattutto la banda Centocroci sul monte Scassella, poco più a nord del monte Gottero, si fecero onore resistendo e contrattaccando, e permettendo così ai resti delle altre brigate di ripiegare. Fu una sconfitta pesante per i partigiani, che lamentarono almeno cinquanta vittime. L’area rastrellata, in particolare il territorio di Zeri, fu teatro di violenze anche verso la popolazione civile: 19 civili furono uccisi nei paesi o mentre si davano alla fuga. Tra questi don Angelo Quiligotti, direttore del ginnasio del seminario di Pontremoli, ucciso insieme ad altri civili sul monte Gottero. Tutte le frazioni del Comune di Zeri furono totalmente o parzialmente incendiate e lo scarso bestiame requisito. Il rastrellamento fu inesorabile nella zona di Rossano, Chiesa e Bosco di Rossano, Valle e Paretola. I reparti nemici catturarono un gruppo di feriti del Battaglione Internazionale di Gordon Lett nascosti nei prati intorno al palazzo Schiavi a Chiesa e li uccisero, poi minarono il palazzo facendolo saltare.
Leggiamo la testimonianza di Piera Malachina, contadina di Zeri, sostenitrice dei partigiani:
“Quella mattina dovevamo andare a tagliare il grano su a monte Vaio, io ero rimasta indietro perché dovevo preparare da mangiare per tutti. Mia mamma con mia sorella Fede erano partite prima con la traggia (mezzo di trasporto in legno trascinato da buoi che si usava per portare fieno o fasci di grano), con me c’era mio babbo. Noi eravamo quasi a metà strada e vediamo dalla parte di Pradalinara molti uomini, qualcuno spara una specie di razzo che cade in una casa a Montelama e l’incendia, che paura, a Castoglio c’erano delle case che bruciavano e alla Chiesa pure. Mio babbo parte di corsa per andare a riprendere la sua famiglia più avanti. Io intanto arrivo in cima dove si vede la vallata di Zeri e verso Noce si sentono i colpi del ta-pum, spari, scoppi e fumo; bruciano i paesi di Noce e di Patigno, qui brucia anche la sede comunale.
Incrociamo dei partigiani in fuga che ci dicono dei tedeschi e loro fuggono verso monte Picchiara.
Intanto mio babbo raggiunge la mamma che piangeva, stacca la traggia e gira i buoi tornando verso casa.
Arrivati in paese il babbo ci fa portare le bestie giù nel canalone assieme a quelle degli altri del paese, perché i nemici viaggiavano solo sui crinali mi disse, ed era vero; in seguito ci fa preparare della pattona e del pane nei testi per i duri giorni che si prospettavano. Quella notte dormimmo vestiti, con le scarpe, pronti a tutto.
Per fortuna il nostro paese non fu toccato, ma la sera dopo per sicurezza andammo a dormire in un seccatoio alle pendici del monte Picchiara. Eravamo circa una trentina di persone del paese”.
E’ una testimonianza che ci dà il senso dello sbandamento e della scarsa capacità di reazione dei partigiani.
La spiegazione migliore è quella, spietata ma lucida, presente in una relazione comunista successiva di alcuni mesi. Il segretario del Pci spezzino Antonio Borgatti imputava la crisi ai problemi creati dalla crescita accelerata e caotica del mondo ribelle.
Fu in quella fase che i nazisti compirono le stragi più infami: Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto, Valla e Bardine il 19 agosto, Vinca il 24 agosto, Monte Sole il 29 e 30 settembre. Tutto all’insegna di una organizzazione meticolosa e di una regia militare: nulla di spontaneo.
Ma in quel tragico agosto del 1944 i nazifascisti si illusero di aver stroncato il movimento partigiano.
Le misure draconiane dell’estate non riuscirono ad annientare la Resistenza.
Un documento della 14° Armata tedesca rilevò che nella zona della Spezia “la divisione partigiana si era ripresa con sorprendente rapidità”.
Dalla repressione e dalla sconfitta nacque un movimento nuovo, più organizzato e disciplinato. Dalle bande ribelli nacque l’esercito della Liberazione: Brigate e Divisioni messe sotto la diretta influenza del CLN e del Comando unico.
Tra l’agosto del 1944 e l’aprile del 1945 ci furono altre, inaudite, sofferenze.
Nell’ultima fase i massacri diminuirono sensibilmente, ma nella nostra zona molto meno che altrove.
Pensiamo al rastrellamento del 29 novembre 1944 tra Val di Magra e Apuane e, in queste montagne, al rastrellamento più grande e terribile: quello del 20 gennaio 1945.
I partigiani reagirono al primo urto nemico, poi ripiegarono verso il monte Gottero. Fu una grande battaglia difensiva, di “sganciamento”.
Leggiamo la testimonianza di Saverio Sampietro “Falchetto”, del Battaglione Vanni:
“Per la riuscita della manovra occorreva seguire la strada di Torpiana, scendere dal monte Picchiara verso Chiusola, risalire il monte Gottero e ai Due Santi dirigersi verso Montegroppo o sopra Albareto, spostandosi a seconda della situazione verso Fontana Gilente e verso Pontremoli.
Naturalmente, in una marcia del genere occorreva fare i conti, oltre che con i tedeschi, anche con il freddo, la neve e il ghiaccio, la mancanza di viveri di scorta.
[…] Camminammo tutta la notte, in fila indiana, raggiungendo Chiusola di primo mattino. Affrontando la salita del Gottero ci trovammo con la neve alla cintura impiegando tutto il giorno per raggiungere la cima: nella tarda mattinata, intanto, i tedeschi avevano raggiunto Chiusola.
[…] Scendendo lungo il fianco del Gottero ci giunsero le notizie dei primi casi di sfinimento e di congelamento (che poi si moltiplicarono).
Tra questi ricordo Stringa (gli saranno poi amputati i piedi ad Albareto), Giulio, Cavallo, Lepre…
Vi furono anche dei morti assiderati, tra i quali Ivan, il russo, che riconobbi, riverso sulla neve, dal suo berretto di marinaio con la fascia rossa.
[…] Raggiunta Fontana Gilente trovammo che l’unica capanna della zona era stata bruciata dai tedeschi. Sempre senza mangiare camminammo nella neve alta tutta la notte tra il 22 e il 23 raggiungendo, il mattino, una località dove potemmo finalmente ripararci in alcune baracche di pastori e dove ci dividemmo (pochi grani a testa) una manata di granoturco trovata rovistando sotto una tavola.
Il giorno 24 arrivammo nella zona di Zeri, dove erano già passati i tedeschi: la sosta in una baracca ci consentì di accendere un fuoco per riscaldarci e mangiare una patata cotta nella cenere. Si proseguì poi la marcia attraverso il torrente che va verso Pontremoli e che era in piena.
Non vi erano passerelle perché i ponti erano distrutti: occorreva affrontare l’acqua gelida che raggiungeva il petto e che rischiava di travolgerci.
Facemmo una catena e attraversammo tenendo le armi il più alte possibili. I miei stivali si erano riempiti d’acqua e non potevo levarmeli perché i piedi mi dolevano, così camminai tutta la giornata lungo la base del monte Gottero, questa volta in direzione del monte Picchiara.
Raggiungemmo la zona che era già notte e bussammo alla porta di una casa: ci fecero entrare, sedere accanto al fuoco e ci diedero qualcosa da mangiare.
Qualcuno mi suggerì di togliermi gli stivali bagnati per asciugarmi e riscaldarmi i piedi al fuoco: con fatica riuscii a togliere lo stivale destro, fradicio, e ricordo che appena lo ebbi tolto sentii il piede scoppiare come un pallone di gomma e un tanfo di carne marcia si sparse per tutta la cucina dove eravamo”.
La lunga marcia di “Falchetto” e dei suoi compagni si concluderà solo con il rientro a Pieve di Zignago, il 25 gennaio; con molti altri egli dovette essere subito ricoverato in un ospedaletto da campo perché colpito da un congelamento agli arti inferiori.
Ma i partigiani non si arresero mai. Venne il 25 aprile. I partigiani scesero dalle valli e liberarono le città.
Come poté accadere? Accadde perché la Resistenza, e la nostra in particolare, fu un grande moto popolare. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche ai contadini delle valli. E decisive furono le donne. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo delle campagne e delle montagne introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. La testimonianza di Piera Malachina e quella di “Falchetto” sull’ospitalità dei montanari ci spiegano come tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una guerra popolare perché il popolo -anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre- ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza, perché anche di questo si trattò, e per la vittoria. I partigiani dei nostri monti sopravvissero nei durissimi inverni 1943-44 e 1944-45 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne di queste valli, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Oggi ricordiamo dunque non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza civile e sociale; non solo i comandanti militari, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti.
E ricordiamo che alla radice di tutta la Resistenza, armata e civile, vi fu la scelta morale. La scelta per il bene contro il male, per la libertà contro la dittatura, per la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche collettivo, per gli altri e con gli altri. La vita intesa come farsi carico della sofferenza degli altri.
Una scelta rivoluzionaria, l’unica capace di cambiare il mondo. L’apertura incondizionata verso l’altro è la cultura di cui abbiamo bisogno. E’ la riflessione di don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’immedesimarsi nell’altro per cercare tutti insieme di liberare, di autogovernare, di rendere degne le nostre vite: ecco la lezione perenne dei partigiani.
Dobbiamo reagire all’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta a oggi, animata dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza, che ha raccolto ben più di un successo. Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”. Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia della Resistenza e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Oggi, ricordando il rastrellamento del 3 agosto 1944 e del 20 gennaio 1945, gli errori, gli umanissimi errori -perché gli uomini sono uomini, e anche i partigiani lo erano- ma anche gli atti di eroismo e gli slanci ideali dei partigiani, il loro sacrificio, l’altruismo, la sofferenza e la morte di tanti civili, abbiamo raccontato la storia, contro la memoria “drogata e deformata”.
A 77 anni dal 25 aprile 1945 siamo consapevoli della portata del revisionismo, ma anche dei risultati nonostante tutto raggiunti grazie alla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura fascista, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
E ci resta la volontà di pace. La pace era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la guerra di liberazione. La guerra di liberazione voleva la fine della guerra, la fine di tutte le guerre, la condanna della guerra, come male non riparabile. E la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte. Di cui il fascismo era -e portava sulle proprie divise- l’emblema.
Non a caso l’art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra fu cioè compreso dai resistenti, che pure avevano vinto anche con le armi, quando divennero costituenti.
Da queste montagne sacre, al confine tra Spezia, Massa e Parma, tutte e tre Medaglia d’oro della Resistenza, ribadiamo la ferma condanna dell’aggressione della Russia all’Ucraina, un atto di guerra che nega il principio dell’autodeterminazione dei popoli e che ha fatto precipitare il mondo sull’orlo di un conflitto globale, che potrebbe diventare nucleare.
Chiediamo l’immediata cessazione dello scontro militare e un vero tavolo di trattativa tra tutte le parti.
Chiediamo che l’Europa e i suoi governi siano in prima linea per conseguire questi obiettivi.
Deve ritornare la politica, intesa come capacità di composizione dei conflitti.
Con la corsa al riarmo non si costruisce la pace.
Facciamo nostre le parole della staffetta partigiana genovese Mirella Alloisio: “Noi vogliamo la pace proprio perché abbiamo conosciuto la guerra. E perché ci spaventa una guerra che può andare a finire con la distruzione atomica”.
La storia non si ripete, la differenza la fanno le persone, con le loro passioni, le loro parole, il loro impegno. Ribadiamo, in queste montagne sacre: “MAI PIU’ FASCISMO!”, “MAI PIU’ LA GUERRA!”, “VIVA LA LIBERAZIONE!”, “VIVA LA PACE!”.
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