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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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“L’economia giusta” di Edmondo Berselli

a cura di in data 28 Marzo 2012 – 09:25

Nel libro scritto durante la malattia l’intelettuale scomparso ad aprile affronta il futuro del capitalismo. Con una ricetta sorprendente.

Prima di lasciarci, pochi mesi fa, Edmondo Berselli ha scritto questo saggio, denso e acuminato. Diverso, in qualche misura, diverso dai suoi libri precedenti. Dagli articoli che ha continuato a pubblicare, fino alla fine. Diverso, perché “essenziale”, nello stile e nei contenuti. Mentre Berselli ha coltivato – per metodo e filosofia – lessenzialità dell’inessenziale. Occupandosi di sport, musica, gossip, vita quotidiana. In modo strettamente contestuale alla cultura (sedicente) alta, alla politica, all’economia, alle imprese, agli affari. Scivolando fra Liga (bue) e Lega, tra i Post-italiani e Forza Italia, fra “il più mancino dei tiri” (di Mariolino Corso) e gli svarioni dei “sinistrati” (politici). Attraverso uno stile in-imitabile. Dove, appunto, nulla è divagazione. E tutto lo è. Perché, in questo “paese provvisorio”, nulla è essenziale. Quanto il fatuo. Ebbene, in questo saggio Berselli sceglie uno stile asciutto. Ma, come sempre, vitale. Forse perché la vita, mentre scriveva, lo stava lasciando. E lui lo sapeva, anche se mai – mai – si è arreso. E mai – mai – ha rinunciato a vivere. Cioè a scrivere. Fino in fondo. Ma il tempo stringeva e, complice (come sempre) sua moglie Marzia, ha colpito al cuore una questione che gli stava a cuore – da sempre. L’economia giusta, che distribuisce le risorse in modo “equo”. Dove le differenze di reddito e di condizione non sono abissali come adesso. «Nella società fordista veniva considerato equo che il presidente o l’amministratore delegato di una grande impresa guadagnasse trenta volte lo stipendio di un usciere. Oggi, o soltanto fino a ieri, si considerava normale che il reddito del grande manager ammontasse da tre a quattrocento volte la retribuzione di un impiegato di basso livello». Berselli ricostruisce – con approfondita cura analitica, bibliografica e critica – l’ascesa e il declino dell'”economia giusta”, come ideale e progetto. Partendo da Marx e Leone XIII per giungere fino ad oggi. Ma traccia anche la parabola – molto più rapida – della “economia libera” (e iniqua). Una superstizione di successo. All’origine di leggende, fiorite e sfiorite in fretta. Con esiti devastanti, per le borse, le banche e i mercati globali. E per una moltitudine di poveretti, divenuti ancor più poveri.

Il saggio di Berselli è un atto di accusa spietato. Verso il liberismo monetarista che ha venduto illusioni, spacciando superstizioni per verità («i soldi che generano soldi», a prescindere dall’economia). Ma anche verso il riformismo socialdemocratico e democratico-cristiano. Verso i soggetti – politici e culturali – che hanno immaginato la “società giusta”, cercando di progettare e di realizzare l’economia sociale di mercato, che lega insieme impresa, individuo, comunità. E Stato. Ma poi si sono arresi al “pensiero unico” del monetarismo, quasi senza combattere. Oggi il turbo-capitalismo e il globalismo finanziario sono bersaglio di critiche spietate. Da parte della sinistra, della Chiesa (Berselli cita, al proposito, i ripetuti interventi di Benedetto XVI). E perfino di esponenti della destra (?) di governo (si pensi a Tremonti). Le alternative, però, non si vedono. I profeti dell’economia sociale e i critici della superstizione monetarista oggi appaiono disarmati.

Berselli offre, al proposito, due spiegazioni controcorrente. E impopolari. Come nel suo stile.

La prima è “culturale”. «I maestri latitano, di questi tempi. Sono dispersi anche gli ideologi, quegli intellettuali che avevano la formula per tutto, per qualsiasi problema e soluzione di problema». Cioé: mancano le idee e gli idealisti. Manca, in altri termini, la “cultura politica”. Senza la quale la politica stessa diventa sterile.

La seconda spiegazione è conseguente. Per progettare un¿alternativa occorre mettere in discussione una convinzione comune alle socialdemocrazie e al neoliberismo. A Confindustria e a molti esponenti della sinistra. L’idea della “crescita”, condizione irrinunciabile di sviluppo e benessere. Ebbene, scandisce Berselli, a conclusione del saggio, non è “più” così. Al contrario: «Dovremo abituarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine». D’altronde, l’alternativa è tra impoverirsi senza ammetterlo, peggio: senza accorgersene. Oppure affrontare il declino del benessere, l’impoverimento (se vogliamo usare una formula meno aspra, la “minore ricchezza”) in modo consapevole. In modo “giusto”.

È l’ultima lezione di un intellettuale vero (che sentendosi definire tale si ritrarrebbe inorridito). Edmondo Berselli. Non ha mai temuto di sfidare le convenzioni e i luoghi comuni. In questi tempi pesanti, senza ironia e senza vergogna, ci mancano (personalmente: molto) il suo sguardo leggero, il suo anticonformismo ironico e autoironico. Le sue idee, destinate a far discutere a lungo. Come questo saggio, che non va considerato una “eredità”. Un lascito postumo. Ma un contributo “vivo” e attuale al dibattito sul nostro futuro.

Fonte: www.ilmiolibro.kataweb.it

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