“La difficile strada per costruire la pace e trasformare il futuro”, 3 giugno 2023 – Intervento di Giorgio Pagano
“La difficile strada per costruire la pace e trasformare il futuro”
La Spezia, 3 2023 a giugno all’Urban Center
Intervento di Giorgio Pagano
Ringrazio per l’invito ed esprimo apprezzamento per l’iniziativa.
Anche perché dà la parola a chi non condivide la posizione del Pd, o della maggioranza del Pd (partito con cui noi – parlo a nome della Rete spezzina Pace e Disarmo – ci siamo sempre confrontati, e con cui ci siamo a volte ritrovati, come nella grande manifestazione del 5 novembre 2022, ma a volte no). Apprezzo quindi l’apertura.
Unire le due parole è giusto.
La pace è la questione fondamentale per il futuro.
Quindi lo è per un partito che vuole essere di sinistra e trasformare il futuro, nella direzione della giustizia sociale e ambientale.
Solo così si può superare la crisi o scacco o morte della sinistra (nell’ultimo caso: si può rinascere).
E i ceti subalterni possono riconoscersi come un “insieme”, per dirla con Gramsci.
Serve discutere: con il Pd, con il M5S, con le forze di sinistra, con il tessuto associativo, a partire da quella grande forza che è ancora la CGIL. E con il movimento pacifista, espressione di un dialogo e di un’unità tra forze diverse che è di grande interesse politico.
Serve costruire non una forza minoritaria ma un grande soggetto politico plurale in grado di operare entro ogni segmento della realtà sociale.
Che sia guidato da una nuova coesione civile e morale. Che abbia una nuova, chiara identità. Cose che non si possono realizzare solo con l’economicismo.
Nel nuovo sistema di valori la pace è elemento fondamentale.
Il pericolo della guerra nucleare – che è tornato – ci dice che una intera fase della civiltà umana sta finendo. E’ una tragedia non solo materiale ma spirituale.
Negli anni Sessanta se ne uscì con la speranza, con un nuovo ordine, con una nuova moralità.
Diceva Don Milani:
Nell’età atomica “non esiste una guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione”.
E John Kennedy:
““Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva”.
Don Milani aggiungeva:
“Se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura… Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce, e così non riusciremo a salvare l’umanità. Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non ci potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima”.
Oggi – rispetto ad allora – c’è un mondo, c’è un’Italia non dico senz’anima, ma con meno anima. In una crisi spirituale: in cui gli animi si sono immiseriti, in cui gli Stati sono rinchiusi in una logica di potenza. In cui dobbiamo dire: per fortuna c’è il papa.
Il che non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri, di “combattenti per la pace” (come i miei amici palestinesi e israeliani dei Parents Circle). Anche perché il papa sia meno solo.
C’è il papa, c’è il movimento pacifista, manca un grande soggetto politico plurale.
In un incontro di un partito che si dice di sinistra penso sia consentito citare Palmiro Togliatti e il suo straordinario discorso di Bergamo su “Il destino dell’uomo”. Era il 20 marzo 1963:
“Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa ‘novità’, l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, annientare l’umanità.
Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. E una dimensione nuova acquista, di conseguenza, tutta la problematica dei rapporti tra gli uomini, le loro organizzazioni e gli Stati, in cui queste trovano il culmine. La guerra diventa cosa diversa da ciò che mai sia stata. Diventa il possibile suicidio di tutti, di tutti gli esseri umani e di tutta la loro civiltà. E la pace, a cui sempre si è pensato come ad un bene, diventa qualcosa di più e di diverso: diventa una necessità, se l’uomo non vuole annientare se stesso. Ma riconoscere questa necessità non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata. Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova”.
Togliatti, in sintonia con papa Giovanni XXIII, poneva la questione di riunificare gli uomini e le nazioni, Oriente e Occidente. La Chiesa modificava, o arricchiva, la sua posizione, ma anche il PCI: la salvezza dell’uomo comportava un nuovo socialismo europeo (tema che Togliatti non sviluppò a fondo prima della morte improvvisa, ma che aveva chiaro).
Che sono le questioni di oggi, nei tempi nuovi.
Ecco, vorrei che la nostra discussione fosse anche sulla visione, sulla strategia, sui valori.
Contro la logica dello sterminio e l’ideologia dell’indifferenza, che negli anni Sessanta si chiamava consumismo o ideologia americana, e oggi si chiama liberismo, vincente in tutto il mondo.
Il nodo è l’Europa. Quello che Togliatti aveva solo intravisto. La comunità nata nell’epoca atomica con la missione di tener fuori la guerra dal suolo europeo.
Una necessità ribadita dai Trattati che impediscono di finanziare le industrie militari nazionali con soldi europei.
Per questo il voto del Pd e dei socialisti europei nel Parlamento europeo è stato sbagliato. Perché erode i principi cardine della costruzione europea, dell’autonomia strategica dell’Europa.
Non è solo il fatto, già grave, che l’economia di resilienza viene trasformata in economia di guerra, nel senso che quest’ultima può essere finanziata con le risorse stanziate per la prima. Oggi la Meloni può dire che non lo farà, ma domani potrà dire di sì. E gli altri Paesi europei possono dire di sì da subito: con soldi anche nostri.
E’ anche e soprattutto il segno del fallimento-tradimento politico di una comunità nata con un’altra missione.
Questa Europa così irrilevante e così subalterna agli Stati Uniti e alla Nato favorisce il predominio degli Stati Uniti e della Cina nello scenario internazionale.
Se invece si attivasse per mediare a oltranza il certamente difficile accordo tra Russia e Ucraina, supportando l’impegno del Papa, l’Europa rispetterebbe la sua missione, riscatterebbe la sua credibilità tra i cittadini europei e riconquisterebbe un ruolo nel mondo. Altrimenti, come destino politico, l’Europa è finita. Perché vuol dire che pensa solo alla volontà di trasformare la tragedia della guerra al suo interno in occasione di profitto per le industrie delle armi, alle quali vengono destinati miliardi di euro e alle quali si concede di lavorare sette giorni su sette e di disapplicare le norme su ambiente e sicurezza: è l’economia di guerra.
Se la sinistra guidasse il processo per la pace supererebbe la sua crisi, o rinascerebbe.
Del resto la questione ormai è chiara. Nonostante la propaganda di guerra, nonostante la moralizzazione della guerra che sta sostituendo il ripudio della guerra: chi fa la guerra è morale, chi chiede la pace è un vile, o sta con Putin. Perfino il Papa è censurato e attaccato: come se la sua posizione non fosse quella della Chiesa da oltre un secolo. Ho citato Giovanni XXIII, ma dobbiamo ricordarci con quale forza Giovanni Paolo II contrastò la guerra in Iraq.
La questione è questa: ci hanno detto che bisognava inviare armi in Ucraina per poter trattare da una posizione di equilibrio. Ma, dopo un anno di guerra, chi ci governa ha il dovere di dirci quando arriva questo equilibrio. Ridotta l’iniziativa europea e occidentale alla sola dimensione militare, il condivisibile obbiettivo della difesa dell’Ucraina finisce con il trasformarsi nell’avventuristico obbiettivo della sconfitta totale della Russia: cioè di una potenza nucleare, che può essere sconfitta solo con l’arma nucleare. Ecco perché l’unico esito possibile della guerra è un compromesso. Se qualcuno facesse il primo passo, la storia gliene renderebbe merito, come ha detto nei giorni scorsi Marco Tarquinio. Va trovato a tutti i costi uno spiraglio. Si potrebbe iniziare, come hanno proposto in occasione del 2 giugno molte associazioni del mondo cattolico e nonviolento, con la ratifica, da parte del governo italiano, del Trattato dell’Onu di proibizione delle armi nucleari: sarebbe un primo passo.
L’Italia ha il dovere di cercarlo perché ce lo impone l’art. 11 della Costituzione, che ripudia la guerra e ci dice di non alimentarla con le armi e di ricercare sempre il negoziato.
La questione della pace è centrale per la sinistra anche perché la sinistra deve lottare per un nuovo modello di sviluppo: unire il lavoro, unire il lavoro e l’ecologia. Con una certa idea dell’Europa. Ma invece sta passando un altro modello di sviluppo, fondato sulle armi e sulla ricerca bellica. Quello che contesteremo tra poco con la manifestazione “Un mare di pace. Riconvertiamo Seafuture”.
Ma forse l’avversario non è solo la forza del complesso industriale-militare, della nuova classe dominante legata all’industria bellica. Forse c’è anche un’attiva pulsione di odio e distruzione nell’umanità. In una parte di ognuno di noi. A Einstein, che gli chiedeva se questa pulsione poteva essere domata, Freud rispose così:
Qualsiasi cosa che crea legami emotivi fra gli esseri umani contrasta inevitabilmente la guerra. Ciò che andava ricercato, disse, era “una comunità di sentimento”.
Ma la sinistra che cos’ è se non è una comunità di sentimento?
Giorgio Pagano
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