La brigata garibaldina Ugo Muccini Racconto sui partigiani e le partigiane della Val di Magra – Santo Stefano Magra, Biennale sulla Resistenza – 21 ottobre 2022
La brigata garibaldina Ugo Muccini Racconto sui partigiani e le partigiane della Val di Magra
Santo Stefano Magra
Biennale sulla Resistenza – 21 ottobre 2022
Conferenza di Giorgio Pagano
Sulla storia della Brigata garibaldina Ugo Muccini non mancano le fonti, sia primarie che secondarie.
Tra quelle primarie, ci sono ovviamente gli archivi: AISRSP, AMARF, AILSREC, ASSP, ACS. Gli archivi, oltre ai documenti, contengono anche molte testimonianze scritte o video di partigiani e partigiane della Brigata.
Circa le fonti secondarie, segnalo: il volume scritto da Giulivo Ricci e altri contributi dello stesso autore; le voci del sito ISR; i libri su Paolino Ranieri, Flavio Bertone, Rudolf Jacobs (su Jacobs anche i film); le testimonianze raccolte in “Eppur bisogna ardir” e in “Sebben che siamo donne”; i libri di memorie di Goliardo Luciani, Lido Galletto, Vanda Bianchi, Giuseppina Cogliolo; il romanzo storico di Lamberto Furno; le ricerche di Giorgio Neri sulla Resistenza arcolana[1].
In questo racconto utilizzerò anche alcune fonti inedite: la memoria di Primo Battistini “Tullio” e le sue interviste a Giulivo Ricci e i materiali di Piero Galantini “Federico” (racconti, documenti, riflessioni). Queste fonti mi sono stati messe a disposizione dai figli e saranno presto pubblicate a mia cura. Si tratta di contributi rilevanti per una nuova storia della Muccini, e anche della Resistenza spezzina. Anche perché di e su “Tullio” e “Federico” di edito c’è poco.
La memoria di “Tullio”, in particolare, è l’occasione per approfondire il tema della Resistenza santostefanese.
Quindi ci rivedremo, spero, alla luce delle nuove fonti e delle nuove pubblicazioni.
E magari anche per approfondire temi, aspetti, storie di vite partigiane su cui oggi potrò fare solo brevi cenni.
Mi limiterò a una rapida sintesi della storia della Brigata, a qualche approfondimento su “Tullio” e su “Federico” e a un omaggio finale a una partigiana sarzanese, Anna Maria Vignolini, responsabile dei Gruppi Difesa della Donna in provincia e poi staffetta nella Muccini.
Premetto che non sarà una relazione oleografica. Bisogna fare emergere le soggettività, con la loro moralità e le loro contraddizioni. Le grandezze e le miserie di partigiani in carne e ossa. Come ci hanno insegnato i grandi storici, a partire da Claudio Pavone, e i testimoni-scrittori: Fenoglio, Calvino, Revelli, Meneghello… L’unico modo per mantenere in vita la Resistenza, il significato della lotta contro il fascismo, è fare opera di verità, guidati dalla passione e dal rigore. Non c’è una storia appiattita che porta all’apoteosi finale. C’è una storia tortuosa, tormentata. Anche nella Resistenza ci furono i vinti, e sono vinti che ci parlano ancora.
La Brigata Muccini prese il nome da un comunista arcolano morto eroicamente combattendo nella guerra di Spagna. Si costituì formalmente a fine estate 1944. Ma la sua storia cominciò prima, con le formazioni che la precedettero, anche se non avevano quel nome (qualcuno lo afferma, qualcuno lo nega, documentazione non ne esiste).
La nomea della Muccini è quella di “brigata dei sarzanesi”. Un po’ è vero, un po’ no. C’è anche, in questa nomea, l’autorappresentazione.
La Muccini fu essenzialmente, ma non solo, emanazione del gruppo sarzanese del Pci, con una fisionomia decisamente politica e classista. Espressione, scrisse Giulivo Ricci nella sua Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini”, “di un gruppo abbastanza omogeneo […] unico nell’intera provincia della Spezia, ove altri gruppi esistettero, affondanti le radici negli anni del ventennio, ma meno forti, meno omogenei, meno dotati di coesione e di coerenza nell’azione, e perciò più esposti ai pericoli della divisione, dell’incertezza, della mancanza di direzione unitaria”[2]. Leggiamo ancora Ricci: “Non esisteva iattanza od ostentato senso di superiorità; certo, non difettava in molti la coscienza, non già di essere migliori, ma di essere stati posti in grado, dalle circostanze e dalla volontà, di conseguire una capacità di valutazione degli avvenimenti e un’organizzazione quali non sempre e non subito altri seppero promuovere”[3].
Non a caso decine di “quadri” usciti dalle file della Muccini si affermarono negli organismi democratici, istituzionali e sociali, della Val di Magra e della provincia, e anche nel Parlamento e nel Pci nazionale.
Ma lo stesso Ricci mise in evidenza il contributo alla Muccini e alla Resistenza in generale anche di Arcola e degli altri Comuni della Val di Magra, Santo Stefano soprattutto, il cui apporto non fu “secondo a quello di alcun altro Comune della provincia della Spezia”[4] in termini quantitativi, anche se con “le manchevolezze e i punti deboli”[5] dell’individualismo ribellistico e protestatario del proletariato rurale e operaio santostefanese, di cui era tipica espressione Primo Battistini, uno dei capi della Muccini. Il suo antifascismo, scrisse Ricci, “era istintivo, alieno da ogni preoccupazione politica e partitica, venato di sentimenti anarchici e piuttosto insofferente ai freni” che i comunisti sarzanesi “avrebbero voluto a buon diritto imporre”[6].
Un giudizio che contiene elementi di verità ma che risente all’autorappresentazione tipica del tempo (Ricci scriveva nel 1978); e che va approfondito, reso più sfaccettato. Ci tornerò.
Aggiungo subito che l’apporto alla Muccini venne anche dai castelnovesi, dai lericini e dagli spezzini, soprattutto migliarinesi (alla Spezia non si poteva quasi operare, per più motivi). L’apporto dei lericini e degli spezzini appare evidente se si pensa ai caduti del monte Barca. In generale ci fu un forte apporto degli operai spezzini o comunque delle fabbriche spezzine: per esempio Cesare Signanini “Adalberto”, uno dei primi uomini a combattere con “Tullio”, era di Muggiano, mentre molti operai della Pertusola, per fare un altro esempio, combatterono con il gruppo Orti, guidato da Lido Galletto.
Esaminiamo le prime azioni della Muccini, dal settembre 1943 al marzo 1944.
Fu un peregrinare: per le caratteristiche non del tutto favorevoli alla guerriglia delle colline della Val di Magra.
A Sarzana si formò un piccolo gruppo dirigente coeso di ex confinati ed ex condannati, che organizzò la manifestazione del 26 luglio 1943.
Figura centrale, all’inizio, fu Anelito Barontini (poi avrà un ruolo provinciale, poi ancora regionale). Gli altri erano Paolino Ranieri, Dario Montarese, Guglielmo Vesco, Goliardo Luciani, Emilio Baccinelli…
Si videro la sera dell’8 settembre, poi del 9, anche con Ugo Boccardi vulgo “Ramella”, anarchico.
Cominciarono ad allontanarsi da casa, per sicurezza.
Raccoglievano armi e cercavano giovani.
Stavano nascosti a Prulla, a Ghiaia di Falcinello, sul monte Nebbione.
Baccinelli era la guida militare, Ranieri la guida politica, Montarese l’uomo dei collegamenti.
Baccinelli operava come gappista a Sarzana. Il 13 dicembre, dopo due tentativi falliti, fu ferito Michele Rago, commissario prefettizio di Sarzana e segretario del partito fascista.
Quasi subito si instaurò un rapporto tra sarzanesi e santostefanesi.
“Tullio” (il nome lo assunse solo mesi dopo, nel parmense; prima si faceva chiamare “Tenente” o “Tenente medico”) salì sul monte Grosso non dopo i sarzanesi. Il suo gruppo fece azioni a Fornola, a Caprigliola, alla Trigola. Per l’azione alla Trigola “Tullio” fu criticato per le possibili rappresaglie. Un tema complesso e controverso della vicenda resistenziale, che mai ci abbandonerà in questo racconto.
I due gruppi autonomi si unirono. Si può quindi usare il termine di “brigata dei sarzanesi e dei santostefanesi”.
Ranieri andò sul monte Grosso da “Tullio” per conoscere i suoi sentimenti politici: “Io risposi che ero un proletario. Quindi traesse lui le debite conclusioni”[7]. La risposta di “Tullio” dice già tutto del contrasto che sempre ci fu.
I due gruppi erano insieme al Trambacco di Tresana, alla fine 1943. Erano venti-trenta uomini. Tra i santostefanesi: Angelo Tasso “Parma”, Cesare Signanini “Adalberto”, Ottorino Schiasselloni (persona equivoca, forse responsabile della morte di Signanini). Tra i sarzanesi anche il giovane Bertone. E i dirigenti comunisti spezzini Giovanni Albertini “Luciano” e Anselmo Corsini. “Tullio” cuoceva le frittelle.
Dal Trambacco si muovevano per azioni gappistiche a Sarzana. Leggiamo la testimonianza di Paolo Ambrosini su quanto accadde dopo il ferimento di Rago:
“In Sarzana ciò valse a stuzzicare il vespaio: elementi della X Flottiglia MAS affluirono dalla Spezia e controllarono i principali accessi a Sarzana. Il caposquadra della GNR Dante Pallini, decorato della prima guerra mondiale, fu ucciso. Il giorno 10 gennaio 1944 sei patrioti riuscirono ad eludere i posti di blocco fascisti e, giunti nei pressi della casa dei fratelli Moruzzo, li chiamarono fuori. Da notare che i due uccisi, soltanto per il maggiore (Euro Moruzzo) esistevano motivi gravi tali da giustificare una misura così draconiana. Il minore, Giglio Moruzzo, era aviere, e si trovava a casa per una breve licenza: era sempre stato estraneo all’attività squadristica del fratello e della famiglia.
Se da parte fascista mancò la rappresaglia di massa nei riguardi degli antifascisti locali (arrestati come sospetti di conoscere gli autori di tali uccisioni), ampie misure di carattere militare vennero immediatamente adottate. Un forte rastrellamento a largo raggio ebbe inizio e tutte le vie di entrata in Sarzana furono bloccate: i patrioti non rimasero nella cerchia per puro caso, in quanto, preavvisati a tempo, si erano sganciati in località Novegigola”[8].
Di questo rastrellamento nelle colline patirono le conseguenze i contadini. Ritorna, ancora, il tema delle rappresaglie.
Neppure al Trambacco, però, c’erano le condizioni della permanenza.
Un gruppo, costituito in prevalenza da sarzanesi, decise di rifugiarsi a Zerla di Albareto (Parma), a nord del monte Gottero: Ranieri, Montarese, Luciani, Vesco… e alcuni giovani. Ma sulle loro tracce c’erano i fascisti: da qui lo spostamento a Popetto di Tresana e poi a Vallecchia, sopra Castelnuovo Magra. Fu qui che Bertone si aggregò definitivamente.
Dal Trambacco, invece, una decina di uomini capeggiati da “Tullio” si spostarono più in alto, alle Prede Bianche, valico tra Val di Magra e Val di Vara, dove il 30 gennaio 1944 furono sorpresi dai tedeschi e sopraffatti. Si salvarono solo grazie all’audacia di “Tullio” e di Tasso. Forse la sorpresa derivò da una spia portata su con avventatezza da Albertini (colui che, come vedremo, sarà il più spietato accusatore di “Tullio”).
In quella occasione morì un polacco: la prima vittima della Resistenza spezzina. Il nostro primo morto fu uno straniero, e fu un partigiano di “Tullio”. Tre partigiani furono incarcerati a Marassi, scrisse Ricci, uccisi per rappresaglia al Turchino il 19 maggio 1944. In realtà gli uccisi al Turchino furono due: Angelo Castellini di Arcola e Augusto Calzolari di Pitelli. Il terzo, Ilvio Baldassini di San Bartolomeo, morì con la Gramsci nel rastrellamento dell’8 ottobre 1944. In sei si salvarono: “Tullio”, Tasso, Gerini…
Su indicazione del Pci (Mario Portonato, migliarinese) i sei si recarono a Valmozzola, nel parmense, a rafforzare la banda Betti, formazione guidata da Mario Betti, a cui si aggregarono anche alcuni arcolani. E lo stesso Portonato, poi anche Ranieri.
Il 12 marzo fu il giorno dell’attacco al treno di Valmozzola: la liberazione di alcuni giovani renitenti alla leva, la cattura e l’uccisione di molti fascisti, la morte di Betti e il successivo massacro dei partigiani sul monte Barca (probabilmente una rappresaglia). Betti e “Tullio” avevano tenuta nascosta l’azione a Ranieri.
L’attacco di Valmozzola fu un momento decisivo per il movimento partigiano di Spezia e di Parma. Fu la svolta. Ogni anno gli spezzini si recano in pellegrinaggio a Valmozzola…
Ho ritrovato in ASSP un documento molto importante: un volantino distribuito alla Spezia, a Vezzano e ad Arcola, a firma del Comando Distaccamento d’Assalto Garibaldi (che non esisteva) con data marzo 1944.
Leggiamo la parte finale, che segue al racconto dei fatti di Valmozzola e dell’eccidio sul monte Barca:
“Lavoratori, cittadini!
Il Comando del Distaccamento Garibaldi additando a Voi l’esempio dei suoi Caduti, vi invita a solidarizzare, ad aiutare nella lotta i valorosi distaccamenti “GARIBALDINI”. Invita i giovani a raggiungerli arruolandosi nei volontari della “LIBERTA’” contro l’odiato invasore tedesco e i fascisti traditori.
Ogni officina, ogni quartiere sia un punto di lotta contro il nazismo. L’ora della resa dei conti definitiva sta per suonare per i briganti hitleriani e per i loro strumenti di barbarie. Tutti uniti per l’ultimo sforzo. Avanti verso la Vittoria per fare dell’Italia un Paese indipendente.
Onore ai nostri eroici Caduti!
Morte all’invasore tedesco ed ai traditori fascisti![9]”.
E’ un documento scritto dal Pci.
All’origine della svolta c’è il nucleo della Muccini, c’è “Tullio”. Fosse solo per questo, non si può definire Tullio “unica macchia nera”[10] della Resistenza spezzina (come fece il Comitato Federale del Pci spezzino nell’agosto 1945). E’ un falso storico. Poi Tullio fu ancora eroe e ancora indisciplinato e, nel dopoguerra, fu anche fuorilegge. Ma “Tullio” è l’inizio, è Valmozzola. “Tullio” poteva essere il primo morto della Resistenza spezzina, o l’eroe caduto a Valmozzola. Non lo fu solo per caso. O meglio, grazie al suo coraggio.
“Tullio” subentrò nel comando a Betti, ma dopo qualche tempo emerse la critica ai suoi metodi di conduzione. Il casus belli fu l’uccisione di un ufficiale postale, una spia.
Coraggio, intuito, antifascismo istintivo, odio verso i fascisti, grande ascendente verso i giovani: questo era “Tullio”. Certo, anche ribellismo, indisciplina. Da qui un contrasto che sempre ci fu con l’antifascismo più politico, che aveva una visione più generale… Con Ranieri non si “presero” mai. Erano agli antipodi. L’amore per le donne, forse, li unì. Ma per il resto… Da ogni parola dell’uno e dell’altro traspare la profonda diversità. “Tullio” era anarchico più che comunista? Può darsi. Devo approfondire ancora. Ma un po’ il “Tullio” del dopoguerra, il “Tullio” alla testa delle manifestazioni nazionali di Lotta Continua negli anni Settanta fa pensare di sì… Certamente, se fu un comunista, fu un comunista molto diverso…
Dopo Valmozzola nacque il distaccamento Mario Betti, con il reggiano Ezio Saccani “Renzo”, che era stato con i fratelli Cervi, comandante -soffriva a stare “sotto ‘Tullio’”- e lo spezzino Mario Portonato “Claudio” commissario politico. “Tullio” disse: devo andare a Bolano a comandare una formazione.
Dobbiamo comprendere bene tutte le vicende. Il CLN di Parma diede l’ordine al gruppo Betti di catturare una spia, Gabotto di Bardi. Gli spezzini -“Tullio” non c’era già più- uccisero sette prigionieri. I locali erano incerti, non vollero far parte del plotone d’esecuzione. Ci furono rappresaglie. I fascisti uccisero i partigiani del Griffith a Bardi, tra cui la nobilissima figura di Giordano Cavestro, medaglia d’oro. Il tema è così complesso che non si possono dare patenti univoche. La violenza suscitatrice di rappresaglie non caratterizzò solo “Tullio”, come sembra emergere dalla vulgata.
A fine aprile gli spezzini si ricongiunsero, sempre con “Tullio” comandante. Si separarono da Saccani. Ranieri e altri si erano spostati nel parmense, a Bardi, insieme agli uomini fino ad allora rimasti con Vesco e Bertone a Vallecchia. Il 18 marzo i fascisti avevano ucciso Baccinelli. Il 20 marzo ci fu l’attacco partigiano al treno, alle Ghiaie di Falcinello: da lì cominciò la fama di Bertone.
A Bardi si ripropose la questione di “Tullio”, che si convinse di dover abbandonare il comando e la zona, e si spostò nello Zerasco, dando vita al raggruppamento Signanini, poi Brigata Vanni.
Il comando fu assunto da Bertone, con Ranieri commissario politico. La formazione -il distaccamento Baccinelli del Battaglione Betti della XII Brigata Garibaldi Parma- fu protagonista della costituzione della “zona libera” del Ceno, una tra le prime, se non la prima, in Italia (10 giugno 1944): gli spezzini eseguirono la parte forse più importante dell’azione, la liberazione di Bardi. Ranieri fece il primo comizio a Bardi, con Luigi Marchini “Dario” e Luigi Leris “Gracco”. Ci fu un pranzo in trattoria dei comandanti e dei commissari, Bertone e Ranieri c’erano. Gli spezzini entrarono per protesta cantando “Noi siam la canaglia pezzente”. Ranieri spiegò. Bertone e Ranieri furono sempre attenti ai principi di democrazia ed eguaglianza. Ecco, la critica al tavolo dei soli comandanti fu un elemento che accomunò “Tullio” e Paolino.
Intanto nasceva anche la “zona libera” del Taro, grazie anche alla nostra Brigata Cento Croci. Ma, nei giorni successivi, i nazifascisti passarono all’offensiva: prima il libero Stato partigiano del Taro, poi quello del Ceno furono sconfitti. Il 15 luglio iniziò lo sganciamento dei partigiani da Bardi. Il rastrellamento nella valle sarebbe durato fino al 29 luglio.
Dopo l’arrivo a Roma degli alleati, il CLN di Spezia chiese, verso il 10 luglio, che il gruppo di Bertone e di Ranieri rientrasse nella zona di Sarzana, alla Nuda di Falcinello. Qui arrivò, dopo varie vicissitudini, ai primi di agosto, un altro gruppo di partigiani, comandato da Piero Galantini “Federico”, anche lui sarzanese, democratico non ancora comunista, proveniente da una vecchia famiglia antifascista, ex ufficiale. “Federico” era stato probabilmente -non esiste documentazione- il comandante della Brigata 37B, dissolta da un grande rastrellamento a luglio: dalle sue radici nacque la Brigata garibaldina Leone Borrini. Membro della 37 B e poi comandante della Borrini fu Edoardo Bassignani “Ebio”, di Merizzo, comunista, ucciso nel cuore del paese, alla presenza della madre, il 3 febbraio 1945. Il tramite tra Bassignani e i sarzanesi fu sempre Goliardo Luciani, che con Bassignani era stato alle Tremiti.
Il 22 luglio fu ucciso “Facio”. Su “Facio”, su “Facio” e “Tullio”, occorrerebbe una occasione di riflessione a parte. Non affronto il tema, che esula dalla storia della Muccini.
Il giudizio negativo del Pci e di altri su “Tullio” -che è parte decisiva delle vicende successive della Muccini- non derivò dal caso “Facio” ma dal rastrellamento del 3 agosto, e dalla critica al comportamento di “Tullio” in quel frangente.
Nel periodo in cui “Tullio” fu al comando della formazione Signanini, poi Vanni (giugno e luglio) ci furono numerose azioni di sabotaggio, assalti… Era una formazione di 400 uomini. La stragrande maggioranza dei giovani santostefanesi era nella Vanni.
Il grande rastrellamento del 3 agosto 1944 colse tutta la I Divisione Liguria impreparata. Vanni compresa. “Tullio” era a Codolo di Pontremoli con Emilio Battistini “Ken” e con Vincenzo Montani “Freccia”.
Secondo Giovanni Albertini “Luciano” (poi secondo Luciano Scotti “Vittorio”, capo di stato maggiore della I Divisione Liguria, in una lettera al PCI spezzino in data 15 agosto 1944, e tutta una vulgata) “Tullio” era lontano, con una donna, seppe ma non avvisò.
L’atto di accusa, firmato “Il Commissario Politico (Luciano)”, fu pubblicato da Giorgio Gimelli nel secondo Volume di “Cronache militari della Resistenza in Liguria” (1969). Era stato rintracciato da Giulio Mongatti. Ma Gimelli non disse dove. L’originale è in AISRSP.
Colpisce che sia una lettera al PCI, con un poscritto finale a penna non pubblicato da Gimelli:
“Perciò vogliamo il consenso di codesto Comitato Federale per procedere al suo arresto (di “Tullio”, NdA) essendoci prove sufficienti per la punizione”[11].
Colpisce il fatto che le date siano in rosso, quasi come fossero una correzione successiva:
“Il giorno due, vigilia del rastrellamento, il Tullio si trovava a Codolo e precisamente verso le ore cinque veniva avvisato da una certa signorina e da altre che non abbiamo potuto raccogliere i nomi che vi sarebbe stato il giorno seguente un rastrellamento nella zona di Zeri.
Il Tullio non diede ascolto a queste notizie così delicate ed anzi redarguì gli informatori; durante la sera stessa il Tullio che aveva il dovere di ritornare immediatamente al Comando per avvisare e disporre le forze in condizioni di prevenire le mosse del nemico e parare così gli attacchi se ne rimaneva invece a Codolo come se tutto fosse normale.
La notte però quando il pericolo si era profilato mortale un contadino cosciente di nome [manca, NdA] il quale sapeva dove il Tullio dormiva si recò immediatamente ad avvisarlo che la situazione precipitava essendo di già le macchine tedesche passate per andare a Zeri. Il Tullio ancora una volta dette scarsa importanza a ciò che il contadino gli disse, e per contro andò in una casa ove abitava una signorina che risultò essere la sua prediletta, e costà si trattenne un’ora, dichiarando che avrebbe voluto fare un’azione sulla strada carrozzabile di Zeri, da questa gente fu scongiurato a desistere per il bene della popolazione; il Tullio pensò bene di mettersi al sicuro in una località boscosa ad attendere gli eventi.
La stessa notte Tullio stesso scrive una lettera e la fa pervenire al Commissario Politico Luciano cui diceva che la situazione era calma e nulla vi era di allarmante e che a Pontremoli non vi erano tedeschi e lui sarebbe rientrato il giorno seguente.
Il commissario politico invece dopo mezz’ora aver ricevuto la lettera del Tullio viene avvisato da una staffetta che il 4° e 5° distaccamento della brigata siti in zona avanzata verso Pontremoli erano stati attaccati dai tedeschi.
La mattina del tre il rastrellamento era in corso dall’alba il Tullio non solo non rientrò ma fu visto da testimoni oculari girovagare in cerca di frutti lontano dalla lotta e quando tentò di prendere contatto con i patrioti che si stavano battendo si profilò per lui un certo pericolo pensò bene di ritornare indietro e andò a mangiare in casa di un certo [manca il nome] di Betigna.
Il Tullio rientrò il giorno 5 e prese contatto con i Commissari Politici Salvatore [Antonio Cabrelli, il principale responsabile dell’uccisione di “Facio”, NdA] e Luciano i quali lo interrogarono per sapere il motivo della sua assenza.
Lui fu molto evasivo e raccontò di essere stato impossibilitato di rientrare alla base.
Dietro indagini fatte dal Commissario Luciano ciò risulta falso ed anzi quanto è avvenuto dopo la sua destituzione ha dimostrato di essere un traditore della nostra causa. Nuovi elementi si stanno raccogliendo a suo carico che dimostreranno con sicurezza la sua colpevolezza”[12].
Il racconto di quella lunga notte non è molto convincente; e mai è stata trovata la lettera che “Tullio” avrebbe fatto pervenire a “Luciano”.
Leggiamo ora, su quei giorni, un brano della memoria di “Tullio”. “Tullio” richiamava i fatti dei giorni precedenti che lo “resero maggiormente inviso al Comando; cosa del resto ricambiata da parte mia.” Poi così proseguiva:
“Trascorsero alcuni giorni. Il Comando di Divisione mi incaricò di effettuare un nuovo sopralluogo alle batterie tedesche di Pontremoli.
Partii di sera con Vincenzo Montani ‘Freccia’ ed Emilio Battistini ‘Ken’, mio cugino. Sostammo a Codolo. Verso le tre o quattro di notte, mentre ci accingevamo a muoverci, udimmo il frastuono degli automezzi tedeschi nella strada sottostante. Intuimmo che cosa stava accadendo, anche se non pensammo ad un rastrellamento quale poi si verificò. Del resto, eravamo partiti non molte ore prima da Adelano di Zeri senza che nessun indizio fosse ancora giunto al nostro Comando, né alcun messaggio ci era stato successivamente inviato.
Giudicammo impossibile raggiungere direttamente Zeri, dal momento che i tedeschi stavano arrivando con gli automezzi vicino a Noce. Eravamo tagliati fuori. Montammo sui cavalli e scendemmo verso Bassone inoltrandoci per un canale.
Prendemmo quindi un altro canale che porta verso le vette dei monti sopra Zeri, per dirigerci verso la mia Brigata ad Adelano. Il nostro cammino era reso difficoltoso ed incerto dalla presenza di numerosi banchi di nebbia.
Era il mattino del 3 agosto 1944.
Arrivai sul crinale sopra Zeri, in mezzo ad una prateria. Ad un certo momento un colpo di vento disperse la nebbia e ci accorgemmo di essere a circa 50 metri da una squadra di tedeschi che stavano piazzando i mortai per bombardare il nostro Comando di Divisione ed il mio Comando di Brigata. Girammo i cavalli prima che i tedeschi si riavessero dalla sorpresa e ci sparassero addosso. A gran carriera ci lanciammo nuovamente giù per il monte. Arrivati in fondo, risalimmo per un canalone per raggiungere le Cascine di Bassone, ove sostammo fino a sera. Non potevamo fare nulla per rimetterci in contatto coi nostri.
A sera giunsero alle Cascine dei giovani di Bassone riusciti a sfuggire al rastrellamento. Con loro erano anche dei partigiani. Alcuni dei nuovi venuti si arruolarono subito con noi. Mangiammo con loro. Quindi pernottammo.
Al mattino presto partimmo e raggiungemmo posizioni più elevate. Riuscimmo a sganciare definitivamente il nemico ed arrivammo alle Cascine della Cervara, sul lago Verde. Al lago Verde ci raggiunsero altri partigiani, in maggioranza appartenenti alla mia Brigata. Tra di essi, oltre naturalmente a “Freccia” e “Ken” che già erano con me, ritrovai ‘Cailò’, ‘Crasna’, ‘Dick’, ‘Oscar’, ‘Sandro’, ‘Bi’ e ‘Nerone’ (Carlo Guastini, Mario Tavilla, Vittorio Baldassini, Nello Battistini, Sandro Garbini, Renato Zannoni e Luigi Camaiora, NdA). Recuperammo molti dei nostri muli e parte del vettovagliamento. Ci riorganizzammo. Ci raggiunsero alcuni uomini di altre formazioni. Il nostro numero salì ben presto a circa 40 uomini. Ci fermammo per 10-15 giorni alle Cascine della Cervara. Dopo una settimana che eravamo lassù, passò Cabrelli, assieme a pochi altri (tra loro una donna). Gli chiesi se desiderasse fermarsi lì con me. Non accettò, adducendo come scusa che doveva passare il fronte. Ebbi l’impressione che mi raccontasse delle frottole. Mentre parlava evitava di guardarmi, quasi che avesse qualcosa sulla coscienza, qualcosa da nascondermi: avevano messo in giro la voce che il maggior responsabile della disfatta di fronte al rastrellamento tedesco ero stato io, perché all’inizio del rastrellamento stesso non ero presente alla mia Brigata, che anzi ero impegnato in avventure galanti. La mia Brigata, trovandosi senza guida, era stata la prima a cedere. Era facile per Cabrelli e Fontana (il colonnello Mario Fontana, comandante della Divisione Liguria, NdA) sostenere una simile tesi, approfittando del fatto che io non fossi presente.
Ma i due sapevano il motivo della mia assenza:
erano stati loro ad ordinarmi di effettuare il sopralluogo alle batterie tedesche di Pontremoli in concomitanza dell’inizio del rastrellamento. Avevano mentito consapevoli di mentire. Probabilmente intendevano farmi fare la fine di ‘Facio’. Ma avevano fatto i loro calcoli senza tener conto della fiducia che riscuotevo presso i miei uomini.
[…] Il dubbio che all’interno nostro ci fosse qualche infiltrato (Cabrelli?) si fece strada in me. Compresi che probabilmente la prossima vittima di tale losco disegno sarei stato io. Per evitare tale eventualità, radunai tutti gli uomini, un’ottantina circa, e comunicai loro che intendevo riportarmi vicino alla mia zona d’origine, e più precisamente nel Canale dei Torchi, nelle Lame di Aulla”[13].
Nacque il Battaglione Signanini, e le vicende di “Tullio” tornarono a incrociarsi con quelle della Brigata Muccini.
Ma cerchiamo di andare a fondo su quanto accadde il 3 agosto 1944. La domanda chiave è: quando il Comando seppe del rastrellamento?
Nelle due relazioni del comandante della Divisione Liguria Mario Fontana “Turchi” -la prima scritta a ridosso dei fatti, la seconda subito dopo la Liberazione- le versioni divergono radicalmente.
Nella “Relazione sull’attività svolta dal Comando della I Divisione Liguria dal 26 luglio al 4 agosto c.a.”, inviata al CLN di La Spezia e per conoscenza al CLN di Genova, emerge che Fontana non sospettava assolutamente nulla e che fu informato del rastrellamento alle 6,15 del mattino del 3 agosto:
“Verso la fine del mese di luglio […] si ebbe al Comando la notizia, risultata poi falsa, che circa seimila alpini avrebbero desiderato passare alle Bande dei Patrioti.
In attesa del colloquio richiesto dal Comandante di questi e fissato dal sottoscritto a Varese Ligure, si dovettero sospendere le ispezioni delle Brigate, già preventivamente disposte.
[…] Il mattino del giorno 3 agosto alle ore 6,15 circa lo scrivente venne informato dall’avv. Fortelli che i tedeschi avevano attaccato Noce. Recatosi al Comando, questa notizia, oltre che al rumore della fucileria, dei colpi di mitragliatrice e di mortai, veniva confermata dalle fumate che si innalzavano dal paese di Noce e, verso le ore sette, dall’arrivo dei primi sbandati i quali ripiegavano su Adelano, senza vincoli organici.
Lo scrivente dichiara a questo proposito che durante l’intera giornata non ricevette da alcun comando comunicazioni di sorta”[14].
Nel testo successivo, la “Relazione sull’attività operativa svolta dai reparti della IV Zona dal luglio 1944 al 25 aprile 1945″, Fontana scrisse invece che il rastrellamento non fu una sorpresa:
“Per ben comprendere il grave stato di confusione, di indipendenza e di incertezza che caratterizzava questo periodo occorre tener presente che l’azione non costituì sorpresa. Erano stati iniziati approcci per la diserzione di seimila alpini ed il dubbio che tali tentativi di avvicinamento costituisse inganno per poter cadere improvvisamente sulle bande fiduciose, aveva consigliato il Comando di emanare direttive per una probabile azione, per l’occultamento del materiale ingombrante, sgombero dei magazzini ecc.”[15].
In realtà Fontana cercava, nel secondo testo, di nascondere il fatto di essere caduto nel tranello ordito dal comandante della Divisione alpina Monterosa:
“Non si era ancora del tutto concluso il suo trasferimento in Liguria che già la Divisione Monterosa impiegava alcune sue aliquote nel rastrellamento del 3-4-5 agosto contro la Divisione Ligure Unificata in provincia di La Spezia, conducendo l’attacco anche nel settore della Brigata Cento Croci, a Monte Scassella.
In quella occasione, lo stesso comandante della Divisione, tenente colonnello Carloni, fu autore di un tranello ai danni delle formazioni patriottiche proponendo al Comando partigiano -pochi giorni prima del rastrellamento- un convegno a San Pietro Vara (da tenersi il 4 agosto) onde discutere il passaggio della Monterosa alle forze della Resistenza.
Questo trucco fece probabilmente ritenere ai dirigenti delle forze patriottiche che non vi fosse in vista -almeno per quel momento- alcuna iniziativa bellica da parte fascista e contribuì quindi a far cogliere di sorpresa lo schieramento partigiano”[16].
Fontana è smentito da Marcello Jacopini e da Gordon Lett, che erano entrambi con lui nello Zerasco, con funzioni di primissimo piano.
Leggiamo il racconto di Marcello Jacopini, rappresentante del Pci nel comitato militare del CLN:
“La Monterosa stava in realtà preparando un attacco in forze contro i partigiani. E cominciò con un tranello.
Il comando divisione fece sapere al nostro di essere disposto a passare, armi e bagagli, dalla parte della Resistenza, e propose un convegno a San Pietro Vara, per il 4 agosto.
Il colonnello ‘Turchi’ ebbe il torto di prestar fede alla proposta confermando che saremmo andati al convegno, all’ora fissata. Senza aspettare altro, fece anche comunicare agli alleati, molto ottimisticamente, che la Monterosa stava per arrendersi al completo alla I divisione partigiana Liguria.
Il 2 agosto, i rapporti quotidiani del nostro servizio informazioni, alle ore 18, non portavano alcuna novità da tutti i posti di vedetta. Nessun movimento di truppe. Solo da Pontremoli giunse notizia dell’arrivo di un reparto di SS tedesche, che si accantonò presso Casa Corvi. La sera, a tavola, stappammo qualche bottiglia, uscita fuori da chissà dove. Faceva caldo, l’aria era piena di profumi. Una nebbia bassa pesava sulle piante. Sudati sotto i pesanti camicioni di lana, bevemmo volentieri e, all’aperto, ci mettemmo a cantare, sdraiati sull’erba finché la brezza della notte ci portò qualche brivido nella schiena.
All’alba del 3 fui scosso dalla voce concitata di un compagno: ‘I tedeschi hanno attaccato. Vieni subito al comando’. Misi la testa sotto la fontana per snebbiare i fumi della bevuta della sera e arrivai al comando: c’erano già tutti . ‘Turchi’ mi mise al corrente della situazione.
[…] Eravamo completamente accerchiati. L’operazione era stata brillantemente condotta, tenuto conto che fino alle diciotto del giorno avanti le nostre vedette non avevano notato nulla: semplicemente, era entrata in scena la Monterosa che, d’accordo con i tedeschi, ci aveva proposto il convegno per coglierci di sorpresa il giorno prima”[17].
Ed ecco il racconto di Gordon Lett, comandante del Battaglione Internazionale:
“Un’ulteriore interminabile discussione ebbe luogo la notte stessa all’osteria del villaggio [Rossano di Zeri, NdA]. Poco prima dell’ora di cena era arrivato un ‘commissario politico’, fumante d’ira perché gli era stato impedito di tenere un discorso ai rossanesi. Lasciata la stanza della conferenza, Fred [Brattisani, partigiano del Battaglione Internazionale, NdA] aveva fatto immediato ritorno nella Vallata giungendovi pochi attimi prima del sedicente oratore e davanti al Palazzo degli Schiavi aveva trovato adunata una piccola folla in attesa di veder apparire al balcone il novello tribuno. Fred non aveva tergiversato. Aveva spedito una pattuglia armata incontro al ‘commissario’ e lo aveva fatto dissuadere dal suo proposito; con un senso di sollievo la folla aveva fatto ritorno a casa.
Rientrato ad Adelano imbestialito, il ‘commissario’ si presentò all’osteria spalleggiato da alcuni dei suoi e la tavola della cena si trasformò ben presto in un’arena politica. Stavolta erano presenti parecchi dei nostri, fra i quali i fratelli Beretta [Gino e Guglielmo Cacchioli, della banda Beretta, in quella fase unificata con la Brigata Cento Croci, di cui Gino Beretta era comandante, NdA] che Nello [Sani, partigiano del Battaglione Internazionale, NdA] aveva provveduto a convocare, ritenendo che il nostro gruppo non fosse abbastanza numeroso. In breve ci venimmo a trovare in una vera bolgia. Il colonnello, nella sua qualità di comandante della zona [Fontana, NdA], si spolmonò ad affermare che la questione politica doveva restare in sottordine fino a guerra finita, ma inutilmente, Mario [Fortelli, partigiano del Battaglione Internazionale, NdA], per la prima e l’ultima volta in cui lavorammo insieme, perse le staffe e si espresse in termini non strettamente legali.
Alle due del mattino li piantai in asso per andare a dormire. Fuori della porta mi aspettava Nello ed insieme ci dirigemmo alla casa di don Grigoletti.
-Maggiore -mi chiese quando arrivammo- è proprio vero che domani notte verrà un aereo?
-Sì, Nello, l’aereo verrà, purché il tempo si mantenga buono.
-E non abbandoneremo i rossanesi, vero?
-Non c’è pericolo.
-Bene. Buona notte, Maggiore.
Era la notte del 2 agosto 1944.
Fu Mario a svegliarmi il mattino seguente, che albeggiava appena. Nello era con lui.
-Il colonnello ti vuole al comando il più in fretta possibile. Si sentono scariche di mitraglia dalla direzione di Pontremoli e non sappiamo che cosa significhino.- Prima ancora di lasciare la casa udii distintamente le sparatorie”[18].
Ammettiamo per ipotesi che Tullio abbia mentito: che non sia stato mandato in missione. Ma in ogni caso non poteva sapere nulla, perché nessuno sapeva nulla. La notte passata da Jacopini a bere e a cantare… La bolgia nell’osteria che coinvolse il ‘commissario’, Lett e i Beretta… L’inganno della Monterosa… Difficile addebitare ogni colpa a “Tullio”, “traditore della nostra causa”!
Anche la relazione del comandante della Colonna Giustizia e Libertà Vero Del Carpio “Boia” è chiara sul fatto che il rastrellamento non era stato previsto[19].
La verità è che il 3 agosto fu un disastro.
Lo dimostra un brano della testimonianza di Giorgio Giuffredi -del Battaglione Picelli, quasi liquefatto dopo l’uccisione di “Facio”- resa a Giulio Mongatti:
“Ho messo in salvo due distaccamenti miei che si trovavano a Sesta Godano e vado sul posto dove era avvenuto il combattimento e trovo dei compagni e mi dicono che era stato un tradimento del colonnello e che i russi lo avevano ucciso”[20].
Ressero bene la Brigata Cento Croci e il distaccamento di Giustizia e Libertà guidato da Daniele Bucchioni: fu grazie a loro che il disastro fu limitato. Ma per le brigate garibaldine e per il Comando il termine giusto è “disastro”. Con responsabilità di tutti coloro che avevano un ruolo di comando.
Ed è significativo che solo i testi di Fontana e di Jacopini facciano riferimento alle “scorribande amorose” di “Tullio”. Non lo fanno né il testo di Lett né quello del “Boia”, pur essendo entrambi in rapporti non certo buoni con “Tullio”.
Il termine “disastro” fu usato anche nella relazione del Comitato Federale del Pci dell’agosto 1945, che evidenziò anche le responsabilità del Comando:
“Il 3 agosto avemmo il primo grande rastrellamento nelle formazioni. Fu un disastro: solo la Cento Croci riuscì a resistere all’urto, permettendo lo sganciamento e lo sbandamento delle altre brigate senza gravi perdite. Lo stesso Comando di Divisione tagliò la corda”[21].
“Tullio” fu destituito da comandante della Vanni. Nel giro di poche settimane ricostruì il battaglione Signanini con 200 uomini e preparò il ritorno nella Muccini che stava per costituirsi. L’ascendente non lo aveva perduto.
Ma nella Muccini persisteva la vecchia ruggine, aggravata dalle accuse non provate sul 3 agosto. Fino al 29 novembre tante furono le azioni, ma anche le polemiche.
Paolino Ranieri “Andrea” sostenne che “Tullio” doveva rimanere come partigiano, ma con un altro comandante.
Pietro Perpiglia, che svolgeva il lavoro politico per il Pci tra le formazioni nel CLN di montagna, diede invece fiducia a “Tullio”. Anche perché si era accorto della falsità delle accuse a lui rivolte sui colpi in bianco, ecc. Perpiglia sarà criticato, per questo, nella citata relazione del Pci del 1945.
Il 12 settembre 1944 il Comando diede una formale diffida a “Tullio” a sospendere ogni attività. Ma sette giorni dopo fu reintegrato nella Muccini come comandante di tre distaccamenti, che poi divennero sette. Fu reintegrato non dal Comando o dal CLN. Ma grazie alla sua forza, al suo fascino tra i partigiani, che erano orgogliosi di militare con “Tullio”. Tullio esprimeva un’anima del partigianato, esplosiva, ribelle, protestataria. Era questa la sua forza. Anche la sua debolezza politica, certo. Ma le due anime dovevano convivere. E’ qui che correggerei il giudizio di Ricci, che ho riportato all’inizio. Il maggior senso politico dei dirigenti comunisti sarzanesi (non parliamo dei dirigenti comunisti ai monti in Val di Vara e nello Zerasco, tutta un’altra risma) non era sufficiente di per sé, aveva bisogno anche dell’altra anima. Si doveva andare verso l’esercito partigiano, ma democratico, senza le tradizionali gerarchie, con il rispetto dell’autonomia delle formazioni. Era questo l’incontro da fare, la sintesi da cercare.
Non era semplice. C’era anche il campanilismo, l’emulazione con i sarzanesi. “Tullio” impersonava i santostefanesi. Il contado contro la città, prevenuto verso la città. E viceversa.
In qualche modo si continuò a convivere, fino al 29 novembre 1944. “Tullio” non rinunciò mai a battersi per la “riabilitazione” piena, e a un certo punto pose la questione dell’autonomia della sua formazione dalla Muccini. Ma non ottenne né l’una né l’altra. I “sarzanesi” tentarono di togliergli gli uomini, senza riuscirci: non ci fu mai una diserzione, una secessione.
L’autunno 1944 non fu comunque un periodo facile per la Resistenza spezzina. Certamente per la rinuncia degli alleati ad avanzare, ma anche per la complicata ricostruzione delle brigate garibaldine dopo il disastro di agosto in Val di Vara e nello Zerasco. E poi c’era la fame, quella vera.
Studiando le carte di archivio, si scopre che da settembre a novembre il Comando -Fontana e Cabrelli, a volte Tommaso Lupi, vice commissario politico- non faceva che criticare, pressoché quotidianamente, la Vanni e la formazione di Nello Quartieri “Italiano”, variamente denominata nelle diverse fasi. Eugenio Lenzi “Primula Rossa”, che poi diventerà comandante della Vanni, era un bersaglio fisso: per requisizioni e prelevamenti non autorizzati, per azioni non concordate, per assenze ingiustificate. Fontana e Lupi il 28 novembre lo paragonarono a “Tullio”. Il 5 ottobre la Vanni veniva criticata per la requisizione di una Fiat Balilla, “non si comprende a quale scopo dato che per ora i patrioti non hanno possibilità di marciare in automobile”[22]. Anche contro Quartieri le accuse del Comando contro “azioni non autorizzate” erano uno stillicidio: dalla “severa diffida”[23] del 23 settembre si passò, il 13 novembre, alla notifica che “la Brigata Borrini ha ricevuto ordine di procedere al tuo disarmo anche con la forza”[24]. Il 3 dicembre il comando di un’altra brigata garibaldina, la Matteotti, fu sciolto per “impulsività” del comandante Franco Coni[25]. Per leggere un elogio della Vanni bisogna aspettare il 4 dicembre, per quello della formazione di Quartieri il 12 dicembre. Naturalmente le formazioni e i singoli cercavano ogni tanto di difendersi dalle critiche, esattamente come “Tullio”. Ma poi tutto fu dimenticato, tranne che per “Tullio”.
Ma facciamo un passo indietro.
Con la fine di luglio 1944 era aumentata nella bassa Val di Magra l’affluenza di partigiani: si pose la questione dell’unità dei tanti distaccamenti. Nacque così, il 19 settembre 1944 nel bosco di Faeta sopra Falcinello, la Brigata Muccini.
Galantini fu eletto comandante, Montarese commissario politico. Galantini non era comunista, ed era un ex ufficiale. Forse fu scelto anche per questo. Certamente anche per le sue qualità. Leggiamo Paolino Ranieri:
“Federico un mastino. Calmo, esageratamente calmo. Non so chi è quel partigiano che lo ha mai visto una volta correre. Era sempre a studiare i colpi più audaci per poi parteciparvi. Si metteva in testa e camminava calmo, sparavano e rimaneva calmo, di una calma che inchiodava gli uomini al loro posto”[26].
La Muccini fu una brigata di grande forza. C’era il distaccamento Righi, con gli intellettuali. Il Gerini, molto combattivo. Il Cheirasco, nuovo nome della formazione Orti, di Lido Galletto, partigiano che era sempre stato geloso dell’autonomia organizzativa e ideologica della sua banda, un comunista libertario, un intellettuale.
Il più bel libro sulla Muccini è “La lunga estate” di Galletto. Leggete l’inizio, le pagine straordinarie sulla violenza anche partigiana, sulla “furia cruenta degli uomini impazziti per l’orrore della guerra”[27]. Quelle sui partigiani di Paghezzana, “passionali, spesso estremisti e tribali”[28]. E la bellezza dei ritratti dei contadini, degli operai, delle donne, dei vecchi anarchici. L’esistenza agra, la voglia di tornare a vivere. Il rapporto di “Orti” con Vilmo Cargioli “Stelio”, che lo sostituì quando si dimise da comandante. La poesia di “Stelio”, “Lamento per Bibi”:
“Senza dottrina, forse, ma con negli occhi una voglia una voglia come di rivoltare il mondo”[29].
Galletto colpisce anche per l’acutezza dell’analisi:
“La creazione della Ugo Muccini sarzanese era stato il capolavoro politico di ‘Andrea’ Paolino Ranieri per la quale aveva dedicato tutte le sue energie, operando con diplomazia e coagulando la diversa tendenza politica dei partigiani e comandanti di distaccamento, in prevalenza di orientamento comunista. Anche la scelta di ‘Federico’ (Piero Galantini) a comandante rispondeva ad una logica politica lungimirante.
La nomina di un comandante, democratico, senza una precisa appartenenza ad un partito creava i presupposti di una più ampia adesione al movimento partigiano di quelle classi sociali borghesi della società sarzanese.
Solo ‘Tullio’ (Primo Battistini) di Santo Stefano Magra ex Sotto-Ufficiale della Marina Militare (in realtà Mercantile, NdA) si dichiarava anarchico, con una carica ribellistica notevole.
Infatti non accettava facilmente la subordinazione al Comando di Brigata, creando anche contrasti violenti con i responsabili politici e militari della brigata, che si andavano a determinare subito dopo la costituzione.
[“Tulio”] godeva fra i suoi partigiani, tra cui molti di orientamento comunista o libertari, stima e fiducia.
[…] Questa componente partigiana con caratteristiche di origine sociale, ambientale e politica diversa da quella della vecchia guardia comunista sarzanese non si adeguerà alla disciplina e alle regole che il Comando di Brigata della Ugo Muccini andrà progressivamente a stabilire”[30].
“Orti” fu l’unico a porre l’obiezione giusta riguardo alla Muccini: la formula stanziale non era facilmente difendibile né avrebbe permesso le possibilità di manovra indispensabili alla guerriglia. L’unica via di scampo era quella aspra e difficile delle Apuane. Ma ormai tutto andava in un’altra direzione.
Il Comando di Brigata si insediò a Canepari, nella scuola. L’unità delle bande della Val di Magra era un fatto positivo ed esaltante. Ma aveva il punto di debolezza segnalato da “Orti”: la ristrettezza del territorio, la sua accessibilità da ogni lato. La Muccini non era in montagna, ma in colline esposte alle facili avventure dei nazifascisti. Questo punto di debolezza venne purtroppo alla luce durante il grande rastrellamento del 29 novembre 1944.
Fino ad allora le azioni furono frequenti, importanti e a volte clamorose. Il 24 settembre 1944 una pattuglia del distaccamento di “Tullio” uccise un tedesco a Ressora di Arcola, mentre altri due vennero fatti prigionieri. Dieci giovani vennero fucilati da tedeschi e fascisti per rappresaglia. Tra loro c’era Renato Grifoglio, vecchio comunista di Migliarina, che era stato, insieme a un gruppo di altri migliarinesi, in contatto con i sarzanesi fin dai tempi della banda Betti. In mezzo alla popolazione arcolana, pur fortemente antifascista, l’uccisione del tedesco non venne generalmente approvata.
Un’altra azione contro le brigate nere, effettuata da altri distaccamenti intorno al 20 settembre, conclusasi con la cattura di alcune di esse, indusse i fascisti a prelevare quattordici ostaggi tra la cittadinanza sarzanese, tra i quali i padri di Galantini, di Vesco e del partigiano cattolico Franco Franchini. Nella notte tra il 25 e il 26 cinquanta partigiani della Muccini entrarono in Sarzana e penetrarono nel carcere per liberare gli ostaggi, che però erano stati trasferiti altrove. La notte successiva duecento partigiani, guidati da “Federico”, bloccarono completamente da ogni parte Sarzana. Fu una grande azione di efficienza e di forza, che servì anche a rincuorare la popolazione civile. Gli ostaggi furono poi liberati grazie a uno scambio con i fascisti catturati il 9 novembre dalla Brigata Carrara della Divisione Lunense.
Il 3 novembre il sottufficiale tedesco Rudolf Jacobs, che aveva disertato e aderito alla Muccini, organizzò un eroico e sfortunato attacco contro la caserma delle brigate nere sita nell’albergo Laurina: Jacobs cadde crivellato di colpi.
Il 27 novembre, durante un attacco ai tedeschi in Garfagnana, condotto dalla Muccini assieme alla Divisione Lunense e agli alleati, che però all’ultimo momento rinunciarono a intervenire, morì eroicamente Miro Luperi “Reno”, per proteggere la ritirata dei compagni.
Veniamo al grande rastrellamento del 29 novembre. Stretta nella morsa di 8-10 mila nazifascisti, cannoneggiata dalla Palmaria, da Punta Bianca e da altre postazioni, la Muccini affrontò furiosi combattimenti fino a sera. Il nemico ebbe 54 vittime, i partigiani 18. Fallì il tentativo di annientare la brigata, ma venne al pettine il nodo di fondo: la Muccini era ammassata in uno spazio ristretto, mancante di zone di protezione e di vie d’uscita. La lunga resistenza dei santostefanesi a Ponzano Superiore e a Vecchietto salvò molti reparti della Muccini. Gran parte della brigata si diresse, sotto la guida di Galantini, verso le Apuane per passare le linee e giungere nelle zone già in mano agli alleati. La decisione suscitò la critica del Partito comunista. “Federico” passò le linee con l’intenzione di chiedere armi e ritornare in zona, ma trovò il diniego degli alleati. Solo il 5 aprile 1945 ottenne di essere impegnato con i suoi uomini: si creò la così detta Brigata Muccini di linea, che partecipò alla fase finale della lotta. Bertone e Ranieri rimasero invece nascosti nei boschi della zona per occuparsi dei feriti. Ranieri cadde in un’imboscata il 14 dicembre proprio mentre era in cerca di medicinali, fu ferito, arrestato e incarcerato al 21° Reggimento alla Spezia, dove rimase prigioniero, nonostante i tanti tentativi di liberarlo, fino al 23 aprile 1945. Flavio Bertone “Walter” riuscì, il 16 dicembre, a ricostituire formalmente la Muccini, con sei distaccamenti. Con lui, eletto comandante, c’erano Montarese, Portonato e Luciani.
Il Comitato Federale del PCI spezzino si complimentò con “Walter”:
“La decisione che hai presa di raggruppare intorno a te tutte le forze sane della Brigata Muccini che hanno sentito che il loro dovere è qui, che il loro posto di combattimento non è oltre le linee ma nelle zone che già altre volte li hanno visti combattere e vincere, nelle zone dove hanno terrorizzato i briganti neri, è altamente meritevole, tanto più meritevole perché presa nel momento che anche i migliori hanno titubato”[31].
Il Pci, come detto, era molto critico. L’11 dicembre Antonio Borgatti “Silvio”, segretario della Federazione, scrisse a Jacopini:
“Noi non siamo d’accordo sui passaggi in massa delle linee, assolutamente contrari poi quando si tratti di elementi di comando. […] la Muccini è passata quasi al completo, ma ci ha messi di fronte al fatto compiuto”[32].
Dai documenti vari di Galantini, tutti scritti a Pescia, in territorio alleato, o immediatamente dopo il ritorno a Sarzana, emerge un grande tumulto interiore. “Federico” vuole tornare a combattere, si sente in colpa, non riesce a convincere gli alleati: hanno bisogno di piccoli gruppi esperti, non di una formazione ampia come la sua. “Federico” ha nostalgia della vita partigiana: i racconti sono pieni di entusiasmo e di lirismo. Secondo Ricci, Galantini, nei suoi sforzi per rientrare, “riuscì ad entrare nelle grazie” del capitano Petruzzi [Galantini gli scriveva definendolo tenente, NdA] “anche prestandosi a scrivergli dei racconti”[33]. Daniel J. Petruzzi era un ufficiale italoamericano, “affascinato dalla storia, l’arte e la cultura del paese, elementi ai quali guardò non come un turista qualsiasi ma come parte delle proprie radici”[34].
Il testo chiave, nei materiali di Galantini, è un documento di sei pagine datato 28 aprile 1945. Nel retro è scritto “Alla Federazione Comunista di La Spezia. Questa mia autocritica sul mio operato dal 29-11-44 al 23-4-45”. Federico parla di “momento di debolezza” e di “grave responsabilità di aver abbandonato la lotta, ma con la speranza di tornare”. E usa il termine “domanda di grazia”[35] per chiedere l’iscrizione al PCI. Sono pagine di grande forza, con una loro epicità.
Anche “Tullio” passò le linee, ma rientrò dopo il Capodanno, con un suo gruppo di trentadue uomini, come sabotatori della Special Force, d’intesa con Gordon Lett e Charles Macintosh. Il Pci fu molto critico, così i Comandi della IV Zona e della Muccini. Fontana scrisse a Lett protestando. Il PCI si rivolse direttamente “ai componenti il Gruppo Tullio” per chiarire che il partito non aveva alcun rapporto con “Tullio”. Lett rispose a Fontana che il Gruppo Tullio traeva effettivamente legittimazione dal Comando alleato e, in concreto, agiva alle dipendenze dirette della Special Force. I rapporti si deteriorarono ulteriormente. Il Pci tentò ancora una volta di dividere “Tullio” dai suoi uomini, senza riuscirci. Fontana gli intimò più volte di abbandonare la IV Zona, ma “Tullio” non lo fece, spostandosi di continuo. “Tullio” entrò in rotta di collisione anche con gli alleati, perché approfittava delle sue missioni per uccidere spie fasciste. Venne convocato a Firenze ma non andò. Fu molto attivo: la sua azione più spettacolare fu far saltare gli argini del Canale Lunense, sconvolgendo centinaia di metri di binari ferroviari.
Anche la Muccini di “Walter”, pur numericamente esigua e senza aiuti da nessuno, fu molto attiva. Il 2 aprile morì in combattimento la prima donna: Amalia Lydia Lalli “Kira”, figlia di un esponente socialista, che era entrata nella brigata, inizialmente, come infermiera.
Le brigate nere sarzanesi effettuarono una feroce rappresaglia il 10 aprile, fucilando otto antifascisti. Nella notte “Walter” con dodici uomini, scese a Sarzana e fece saltare con la dinamite la caserma fortificata delle brigate nere: quelle superstiti, prese dal panico, abbandonarono la città.
“Walter” e i suoi uomini furono protagonisti della liberazione di Fosdinovo e di Sarzana, il 23 aprile, prima degli alleati. La Muccini fu raggiunta dalla Muccini di linea: nella piazza di Sarzana ci fu l’abbraccio tra Bertone e Galantini, che sanzionava l’impegno comune degli antifascisti sarzanesi.
“Tullio” il 25 aprile era nella sua Santo Stefano:
“Mi diressi al mio paese, a Santo Stefano Magra, ove trovai il maggiore Macintosh della Special Force con un’autoblinda. Intanto la popolazione mi si era fatta incontro festeggiandomi e porgendomi fiori.
Riferendomi alla precedente richiesta della Special Force di rientrare a Firenze dissi al maggiore Macintosh che ero a sua disposizione per chiarire ogni cosa; sarei stato disposto anche a sostenere un processo; che però tale processo dovevano farmelo lì davanti a tutti i miei partigiani, coi quali per tanti mesi avevo diviso fame, fatiche e pidocchi, non avendone come beneficio che una famiglia ridotta in estrema povertà, un figlio (Sandro) ridotto quasi cieco ed una casa devastata dai tedeschi e dai fascisti.
Macintosh non obbiettò nulla, anzi volle stringermi la mano; infine ordinò che alla mia famiglia fosse consegnato ogni genere di conforto”[36].
Concludo con un omaggio ad Anna Maria Vignolini “Valeria”. Ecco il suo racconto:
“Il 25 luglio, quando tutta Sarzana esultò per la caduta del fascismo, presi parte alla manifestazione che si svolse nelle vie cittadine: fu la prima esperienza attiva alla quale partecipai. Dopo l’8 settembre e lo sfacelo dell’esercito aiutammo i giovani militari sbandati. Fu quella la svolta. Anche noi ragazze ci davamo da fare, non parlavamo più di ballo o di ragazzi. Andavamo in bicicletta al fiume in costume, per dare la sensazione di essere innocui bagnanti, invece facevamo riunioni politiche. Cantavamo ‘Bandiera rossa’ e l’’Internazionale’ sul fiume o nel Campo dei Cappuccini, dove ora c’è lo stadio. Prima ero timida, riservata e un po’ paurosa, di svenimento facile, poi il lavoro clandestino mi diede coraggio. Gli ideali portano a osare cose inimmaginabili.
Mi fu affidato il compito di organizzare gruppi femminili che aiutassero la costituzione delle prime bande, con la raccolta di denaro e vestiario. Riuscii a formare un gruppo di dieci unità. Facevamo propaganda: volantini, manifesti, scritte murali. Mi muovevo soprattutto con la bicicletta. Organizzammo il grande sciopero del marzo 1944 a Spezia, sostenevamo la lotta delle operaie dello jutificio. Mi fu poi affidato il compito di organizzare le donne delle zone di Arcola, Vezzano, Prati di Vezzano, Termo e Limone. Nell’estate del ’44 cominciai a essere notata dalle brigate nere, il CLN mi consigliò di spostarmi da casa, per collocarmi più vicino alla Brigata Muccini.
Alloggiai nella casa di ‘Venù’ (Benvenuto Ambrosini), futuro suocero di Flavio Bertone ‘Walter’, nella zona di Giucano, una casa che era l’avamposto della ‘Muccini’ verso il piano. Quante volte sono passata davanti all’albergo Laurina, sede dei fascisti, con materiale ad altissimo rischio! Lassù conobbi Lydia Lalli ‘Kira’ e diventammo amiche, anche se con compiti diversi: io comunicavo con le donne, lei combatteva con le armi.
Dopo il rastrellamento del 29 novembre i fascisti vennero a cercarmi nella casa di Sarzana. Riuscii a spostarmi a Carrara, per portare assistenza ai feriti, trovare cibo e vestiario e per organizzare le donne. Non solo perché la guerra doveva finire ma anche perché le donne non dovevano più essere gli angeli del focolare ma protagoniste nella società. Le donne di Carrara furono meravigliose: al mercato prendevano patate e pomodori e le tiravano contro i tedeschi. Potevano farlo perché erano tantissime”[37].
Dopo la Liberazione Anna Maria fu dirigente della Commissione femminile della Federazione spezzina del Pci, consigliere comunale alla Spezia e assessore all’assistenza sociale del Comune di Sarzana. Nel 1951 diventò mamma: quando rimase incinta non era ancora sposata, fu criticata dal partito insieme al suo compagno, Turiddu Perugi, partigiano della Muccini. Erano gli anni dei licenziamenti politici. Anche Turiddu perse il lavoro, e rimase per otto anni senza. Lo stipendio del partito non bastava, grazie al diploma Anna Maria riuscì a entrare in Provincia.
A Carrara aveva conosciuto Bruna Conti, che fu poi la moglie del segretario nazionale del Pci Luigi Longo. Un giorno lo incontrò, e lui le disse, dandole del “voi”, come usava: “Voi siete troppo modesta e non avete ambizione sufficiente, perché un pochino occorre”. “Ma io sono sempre così”[38], mi disse Anna Maria quando mi raccontò di questo incontro.
Anche questa è una piccola lezione. E’ proprio vero, i vinti ci parlano ancora.
[1] Si vedano: Giulivo Ricci, Avvento del fascismo. Resistenza e lotta di liberazione in Val di Magra, Istituto storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1975; Giulivo Ricci, Storia della brigata garibaldina “Ugo Muccini”, Istituto storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978; Brigata Garibaldi U. Muccini (scheda online a cura di Maria Cristina Mirabello), presente sul sito dell’Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, s.d., ma 2015; Pino Meneghini, Paolino Ranieri, Comune di Sarzana, Sarzana, 2008; Andrea Ranieri, Mio babbo partigiano. Patriota senza nazione, Castelvecchi, Roma, 2020; Comitato Provinciale Unitario della Resistenza della Spezia, Walter, un uomo della Resistenza, Edizioni Giacché, La Spezia, 2000; Lorenzo Vincenzi (a cura di), Rudolf Jacobs. Le radici della democrazia europea, Comune di Sarzana – Assessorato alla Cultura/Istituto storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1978; Luigi Monardo Faccini, L’uomo che nacque morendo, Nuova Iniziativa Editoriale, Roma, 2005; Carlo Greppi, Il buon tedesco, Laterza, Bari-Roma, 2021; Giorgio Pagano, Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2015; Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello, Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2017; Goliardo Luciani, Ricordi 1914-1946, Zappa, Sarzana, 1992; Lido Galletto, La lunga estate, Ceccotti, Massa, 1995; Pino Marchini, Un berretto pieno di speranze. I ricordi di Vanda Bianchi, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2010; Giuseppina Cogliolo, Una ribelle di nome Fiamma, Chillemi, Roma, 2009; Lamberto Furno, Il drago e il Sagro, Lucarini, Roma, 1985; Giorgio Neri, Arcola nel movimento partigiano della Bassa Val di Magra-La strage di Ressora, in Comune di Arcola-Comitato Unitario della Resistenza, Arcola tra storia e ricordo 1939-1945, Centrostampa, Arcola, 1996; Giorgio Neri (a cura di), Percorsi partigiani, Comune di Arcola – ANPI di Arcola, Edizioni Giacché, La Spezia, 2005.
[2] Giulivo Ricci, Storia della brigata garibaldina “Ugo Muccini”, cit., p. 35
[3] Ivi, p. 36.
[4] Ivi, p. 39.
[5] Ivi, p. 40.
[6] Ivi, p. 50.
[7] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, manoscritto inedito, p. 8.
[8] Nascita del primo gruppo patriottico nel Sarzanese, testimonianza di Paolo Ambrosini raccolta da Giulio Mongatti, in Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1975, p. 125.
[9] ASSP, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, b. 85, fasc. 1, c. 38. Le parole sottolineate e quelle scritte in maiuscolo sono nel testo originario.
[10] Relazione sull’attività del Comitato Federale dal 1939 all’agosto 1945, Soc. An. SIT, La Spezia, Stab, Ind. Tipografico, s.d., ma 1945, p. 15.
[11] AISRSP, fasc. 34.
[12] Ibidem.
[13] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, cit., p. 70.
[14] Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Volume II, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, Genova, 1969, pp. 193-199. Gimelli citava dall’originale, depositato presso l’Archivio della Resistenza in Liguria, senza indicare una data, che dovrebbe essere di poco successiva ai fatti.
[15] Mario Fontana e la IV Zona operativa, Istituto Storico della Resistenza “Pietro Mario Beghi”, La Spezia, 1972, p. 20. Il volume comprende anche la relazione di Fontana ma non indica la data della sua stesura, che dovrebbe essere di poco successiva alla Liberazione, e comunque precedente il 1948, anno della morte di Fontana.
[16] Giorgio Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Volume II, cit., p. 98.
[17] Marcello Jacopini, Canta il gallo, Edizioni Avanti!, Milano, 1960, pp. 79-81.
[18] Gordon Lett, Rossano, ELI, Milano, 1958, pp. 118-119.
[19] Brigata Colonna Giustizia e Libertà, Relazione sul rastrellamento avvenuto il 3 agosto 1944, 7 agosto 1944, AISRSP, fasc. 73.
[20] AISRSP, fasc. 34.
[21] Relazione sull’attività del Comitato Federale dal 1939 all’agosto 1945, cit., p. 11.
[22] AISRSP, fasc. 271.
[23] Ibidem.
[24] AISRSP, fasc. 272.
[25] Ibidem.
[26] Andrea, Federico e Walter, in 29 novembre, Numero unico della Brigata d’Assalto Garibaldi “Ugo Muccini”, Sarzana, 1947.
[27] Lido Galletto, La lunga estate, cit., p. 9.
[28] Ivi, p. 122.
[29] Ivi, p. 389.
[30] Ivi, pp. 345-346.
[31] AISRSP, fasc. 746.
[32] AISRSP, fasc. 697.
[33] Giulivo Ricci, Storia della brigata garibaldina “Ugo Muccini”, cit., p. 442.
[34] Matteo Pretelli, Francesco Fusi (a cura di), Voci di libertà. I combattenti alleati di origine italiana nella Seconda guerra mondiale, EUT, Trieste, 2022.
[35] Piero Galantini, Sarzana 26 aprile 1945, Alla Federazione comunista di La Spezia. Questa mia autocritica sul mio operato dal 29.11.1944 al 23.4.1945, documento inedito.
[36] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, cit., p. 94.
[37] Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2017, pp. 113-114.
[38] Ivi, p. 115.
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