Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Il nostro futuro? Evitare i localismi e progettare un’area vasta tra Sestri e Viareggio

a cura di in data 12 Agosto 2020 – 08:05

Intervista di Umberto Costamagna a Giorgio Pagano
La Gazzetta della Spezia 5 agosto 2020

D.:Il prossimo 28 agosto saranno passati 151 anni da quando il generale e architetto Domenico Chiodo inaugurò l’Arsenale Militare della nostra città. Da quel giorno cambiò radicalmente la natura e il destino di Spezia e degli spezzini. Quella che sembrava destinata a diventare una “splendida perla sul mar”, una città turistica e a vocazione terziaria, si trasformò prima in una città militare, basata sul parastato e successivamente in una città industriale legata alla difesa.
Poi, negli anni Sessanta del secolo scorso, in maniera quasi casuale, si ricominciò piano piano a riconsiderare la natura turistica della nostra terra. Il risultato oggi? Una citta “mes-ciua” dove si mischiano panorami mozzafiato e oasi di una bellezza straordinaria agli insediamenti industriali e portuali, dove le attività cantieristiche di eccellenza hanno fatto fatica a conquistarsi un giusto spazio.
Insomma, ma che razza di città è oggi Spezia e la sua provincia?

R.: Spezia è stata, dall’Arsenale fino agli anni Novanta una città a monocultura industriale. Ancora negli anni Sessanta ha accettato insediamenti energetici molto invasivi, Enel e Snam… Negli anni Novanta ha subito la deindustrializzazione come poche città italiane. Una crisi assoluta, strutturale, alla quale abbiamo reagito, a cavallo del millennio, con i due Piani strategici. Cioè con la scelta di un vero e proprio “cambiamento di pelle”, di una nuova missione della città: ancora l’industria, quella delle nuove tecnologie e dei moderni cantieri della nautica da diporto al posto dei vecchi cantieri di demolizione navale; il porto, non il “megaporto” che alcuni volevano ma un piccolo porto, efficiente e compatibile con la città; la ripresa dell’antica vocazione turistica, simboleggiata dall’inserimento di Tramonti, e quindi della città, nel neonato Parco Nazionale delle Cinque Terre, dalla scelta di recuperare il centro storico -non solo con le vie e le piazze pedonali ma con l’acquisto dell’area degradata del Poggio per venderla a privati disponibili a realizzare un hotel- e dalla scelta di “riconquistare” il mare, innanzitutto con il waterfront; la cultura e il sapere, vale a dire i Musei e l’Università; la coesione sociale e la lotta alle diseguaglianze; il risanamento ambientale e lo sviluppo sostenibile.
La città attuale è diventata solo in parte quella delineata allora. Non solo perché il waterfront non c’è ancora, o perché il piano del porto non è stato realizzato, ma soprattutto perché con la “grande crisi” del 2008 e la cultura neoliberista imperante anche a livello locale siamo tornati indietro in tutti i campi, perdendo non solo abitanti e posti di lavoro, ma anche qualità sociale e ambientale. Nel frattempo si sono aperte due nuove grandi questioni: un Arsenale sempre più abbandonato e una centrale Enel a carbone che ha finito il suo ciclo di vita, e che l’Enel vuole sostituire con una centrale a gas. Questioni irrisolte perché la città non le sta affrontando con posizioni chiare.

D.: Nella discussione aperta dalla “Gazzetta” c’è chi ha sostenuto la necessità di un nuovo piano strategico partecipato. Sei d’accordo?

R.: Certamente. E’ un’idea che hanno sostenuto in tanti, da Lara Ghiglione a Filippo Lubrano, da Gino Ragnetti ai “Murati vivi” di Marola… Chiamiamolo come vogliamo, ma il punto centrale è quello di superare la cultura neoliberista e di cercare di influenzare, di governare i cambiamenti: senza lasciare la sorte del territorio alle “naturali” tendenze demografiche, economiche, sociali e alle decisioni dei “grandi poteri”. Dobbiamo promuovere un confronto acceso, informato e ragionevole tra tutti i cittadini, che faccia riemergere legami comunitari che sembrano perduti attraverso la capacità di inventarsi e proporre una visione comune: cosa vorremmo essere tra venti-trent’anni. Sia chiaro, non propongo la copia di quel che si fece vent’anni fa: sia perché le tecniche partecipative si sono evolute, sia perché è ormai chiarissimo quel che vent’anni fa era stato solo intuito: “strategico” e “comunale” sono due parole che fanno a pugni, la strategia può essere solo di area vasta (non a caso il secondo Piano fu elaborato insieme alla Provincia). E soprattutto perché, con la crisi climatica e la pandemia, è cambiato tutto il contesto in cui discutere ed agire.

D.:Proviamo a immaginare il futuro adesso. Quello che vedranno i nostri figli e i nostri nipoti. Quale città gli stiamo preparando? O meglio, quale città tu pensi che valga la pena di preparare loro? Dopo la crisi climatica e la pandemia tu sostieni che la questione centrale è diventata l’ambiente?

R.: E’ così, ma ciò non significa dimenticare il lavoro, anzi. Lo sviluppo o sarà sostenibile o non sarà. Lo dice con chiarezza l’Unione europea, che ha stanziato una massa enorme di denaro con alcune “condizionalità” del tutto condivisibili: Green new deal, digitalizzazione, inclusione sociale. Il problema è lo scarto tra la direzione presa dall’Europa e tanta retorica italiana e spezzina, per cui basta spendere a prescindere da una visione coerente. I Comuni devono chiedere al Governo di essere coinvolti nell’elaborazione dei progetti per i fondi europei. Spezia deve da subito tornare “città strategica” e cimentarsi nella sfida, indicando il nuovo lavoro che lo sviluppo sostenibile comporterà: non solo con lo sviluppo delle energie rinnovabili ma anche con l’adozione dell’economia circolare, che implica il passaggio da un’economia basata sulla produzione a un’economia in cui si riduce la produzione e aumenta la manutenzione di prodotti che non diventano subito obsoleti ma vanno invece riparati, senza che vengano a costare più di quelli nuovi. Il futuro della città, e il futuro del lavoro, è questo. Non possiamo essere solo città turistica, cioè del consumo. Il lavoro qualificato lo avremo solo con attività di produzione e manutenzione.

D.:E che cosa significa pensare in termini di area vasta?

R.: Il Comune ha ormai una dimensione troppo piccola. Certamente non possiamo accontentarci del centralismo regionale, che ha impoverito la sanità e ha degradato i beni pubblici. Ma non dobbiamo nemmeno cedere al localismo e alla poliarchia di tanti piccoli poteri che non decidono più nulla o quasi. Un progetto per Spezia è necessariamente un progetto di relazioni. Innanzitutto nel Golfo dei Poeti, che è un sistema urbano, una “città in nuce”. Che aspettiamo a progettare insieme, fino a fonderci in un’unica struttura istituzionale? Il Golfo dei Poeti fa poi parte di un’area vasta sulla linea di costa, che va da Sestri Levante e dalle Cinque Terre a Viareggio, che ha tanti elementi in comune e che va unita da una metropolitana leggera di superficie. Questa linea di costa ha bisogno di una progettualità complessiva, che non si limiti ai singoli sotto-sistemi. Che senso ha, per esempio, un masterplan per la Palmaria? La Palmaria è già oggi vissuta come parte integrante del Parco Nazionale delle Cinque Terre, insieme a Portovenere: il suo futuro è in un Parco che le sta accanto. Che c’entra Capri? Altro esempio: Spezia è “crocevia tra il Mediterraneo e le terre del Nord”, come scrisse il Presidente Ciampi nel libro d’oro del Comune quando venne in visita alla Spezia. Quindi dobbiamo tornare al rapporto con Parma e con Verona, e riproporre la galleria di valico della ferrovia Pontremolese come opera fondamentale per il Paese.

D.: Cerca di trasformare questo “sogno” ideale in un progetto concreto su cui lavorare fin da subito. Cosa c’è o cosa ci sarebbe da fare per “scaricare a terra” questa idea?

R.: La questione più simbolica, e anche più urgente, è quella dell’Enel, che va avanti nel suo disegno della nuova centrale a gas. Il punto non è solo la liberazione dei gravami ambientali causati e riproposti da Enel alla città e ai Comuni confinanti. Altrettanto significativo è l’obiettivo di poter disporre della grande piana del levante urbano (non a caso il toponimo Pianagrande) di circa 73 ettari altrimenti utilizzabili. In Liguria, ma anche altrove in Italia, non c’è un’altra area di tale estensione che sia al contempo vicina al porto e all’autostrada, mentre la rete ferroviaria dista poche centinaia di metri. Destinare un’area che ha enormi potenzialità ad attività comunque inquinanti e che daranno lavoro a 30-40 persone è una follia. Queste cose vanno dette all’Enel dal Governo, ma le vanno dette innanzitutto dalla Regione. E’ del tutto evidente che se la Regione annunciasse il suo diniego a rilasciare l’intesa al progetto dell’Enel, il Governo sarebbe costretto a tenerne conto: l’autorizzazione ministeriale sarebbe improcedibile. Mentre l’autorizzazione non potrebbe essere negata se la Regione si dichiarasse favorevole. La legge parla chiaro, così le sentenze della Corte Costituzionale.

D.:La politica, si dice, è l’arte del possibile. Ma è anche, come insegnava don Lorenzo Milani, il modo per “sortire insieme dai problemi comuni”. E allora che fare per cercare, qui e ora, di costruire e raggiungere quel futuro che hai immaginato per Spezia, quel futuro-bene-comune per i cittadini che verranno?

R.: Un grande progetto per Spezia e la sua area vasta non può non contemplare una visione di rinascita della vita locale come vita civile partecipata e di rigenerazione della rappresentanza politica. Oggi la politica a Spezia è consunta. C’è una evidente decadenza della classe dirigente, che appare sempre più un’oligarchia dei giri, senza ricambio. Torniamo a produrre idee, costruiamo un campo di gioco condiviso per confrontarsi e, se necessario, opporsi. Ma ricercando sempre spazi di interazione cooperativa per elaborare strategie e piani di azione. Solo così, rompendo posizioni di rendita, sclerotizzazioni e autoreferenzialità, matureranno ed emergeranno nuove competenze e passioni civili al servizio della città.

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