Il libro sulla Resistenza di Giorgio Pagano – intervista di Simona Pardini
Cronaca4, 11 gennaio 2016 – “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945” è il titolo dell’ultimo libro di Giorgio Pagano, già sindaco della Spezia, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza e presidente dell’Associazione Culturale Mediterraneo. Il libro, presentato l’11 dicembre al Centro Allende, nelle prossime settimane sarà presentato a Sarzana, Levanto, Follo, Lerici e Sesta Godano. In libreria è esaurito subito, ora è stato ristampato. La prefazione è di Donatella Alfonso, scrittrice e giornalista di Repubblica, seguono l’introduzione dell’autore e quattro capitoli: “La storia”, “Racconti e ritratti”, “Facio e Laura” e “La Resistenza e la sua eredità. 1945-2015”. Con questa intervista all’autore cerchiamo di “andare alle radici” del libro.
Come mai ha deciso di scrivere un libro sulla Resistenza?
I protagonisti del libro sono i partigiani, i resistenti. Soltanto con le loro parole, le loro testimonianze, i loro racconti possiamo e potremo trasmettere l’eredità della Resistenza. Il libro è un continuo interrogarsi su come trasmettere questa eredità, su come restituire i valori di quegli anni ai giovani di oggi: l’ho scritto per questo. Oggi i partiti non ci sono più, o almeno non ci sono più quelli veri, radicati nel popolo. E c’è anche una crisi della società civile “partigiana”, dei “corpi intermedi”. Prima l’eredità della Resistenza cercavano, anche se non ci sono mai riusciti fino in fondo, di trasmetterla loro. Ma oggi? Credo che dobbiamo ripartire dalle persone, dalle donne e dagli uomini semplici che hanno fatto la Resistenza, e che sono i protagonisti delle tante piccole storie di questo libro. Ma anche, più in generale, dalle donne e dagli uomini semplici della nostra storia del dopoguerra e di oggi. Quindi ben oltre la configurazione antifascista di quegli anni. Facciamolo, però, animati dalla stessa scelta morale di settant’anni fa, dall’ “ardir”, dal coraggio per il bene, per la cura degli umili e degli oppressi, per la partecipazione civile, per la libertà e la democrazia.
C’è un rapporto tra il libro e l’Africa, il luogo in cui l’ha scritto?
La Resistenza italiana si è svolta nell’ambito della “guerra popolare europea” contro il nazismo, e ha inserito l’Italia nel novero delle nazioni europee. Il nesso Italia-Europa è evidente. Ma io penso che la Resistenza, italiana ed europea, abbia valori universali. Che mi stanno guidando anche in Africa: non parlo solo della libertà e dell’eguaglianza, parlo anche della capacità di autogoverno delle persone, dell’emancipazione personale, della concezione della vita come cammino non solo individuale ma anche e soprattutto con gli altri. I valori della Resistenza mi guidano nella battaglia contro l’individualismo e il dio denaro, per la solidarietà e la vita comunitaria. Una battaglia che è fondamentale perché l’Africa sappia respingere il neocolonialismo e costruire una sua autonoma strada allo sviluppo. Anche in Africa esistono valori simili. C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: “ubuntu”. E’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia, l’umanesimo. Il poeta e scrittore nigeriano Wole Soyinka spiega così l’”ubuntu”: “la solidarietà è obbligatoria, siamo tutti responsabili, altrimenti perdiamo la nostra umanità”.
Perché ha scelto il titolo “Eppur bisogna ardir”?
La canzone più popolare dei partigiani ai monti era “Fischia il vento”. Nel libro spiego che nel testo originario la canzone cominciava così: “Soffia il vento, urla la bufera / Scarpe rotte eppur bisogna ardir”. L’ardimento, inteso come coraggio morale, è la parola chiave del libro: da qui la scelta del titolo. Perché, come disse Robert Kennedy, “il coraggio morale è merce più rara del coraggio in battaglia o dell’intelligenza”. Il valore del coraggio morale, che caratterizzò i partigiani, è più che mai attuale in una fase come l’attuale, in cui è del tutto assente dalle qualità degli uomini pubblici, sostituito dall’accondiscendenza supina e dalla cedevolezza d’animo. Di coraggio morale abbiamo bisogno perché solo il ritorno alla politica-virtù può redimere la politica-tecnologia del potere dal discredito crescente di cui è oggetto. Pensiamo a come le riforme elettorali e costituzionali in campo siano tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, quella rappresentativa. Che cosa significano le “liste bloccate” se non l’umiliazione di questa funzione? Queste istituzioni inducono alla piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di riferimento. Per essere eletti queste sono le doti funzionali al partito nel quale ti arruoli. Non è il tempo dell’ardimento, è il tempo della vigliaccheria. Dobbiamo tornare al tempo dell’ardimento.
Dal libro emerge che la Resistenza, e quella spezzina in particolare, fu un grande moto popolare…
Sì, tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche della città ai contadini della Val di Magra, della Val di Vara e della Lunigiana. E decisive furono le donne, non a caso tra le protagoniste del libro. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo delle campagne introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. Lo sforzo costante del libro è quello di rievocare non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; e di far parlare non solo i comandanti militari, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti. C’è poi, nella nostra Resistenza, una componente “patriottica” molto forte, per la presenza della Marina Militare: dal sacrificio degli uomini della corazzata “Roma” a quello di tanti militari attivi nelle Squadre di Azione Patriottica.
Quando e come si manifestò l’”ardir” della scelta morale?
Si manifestò già subito dopo l’8 settembre 1943, quando il Re e i capi militari decisero l’armistizio con gli Alleati e fuggirono nel Sud già liberato, lasciando il Nord in mano ai tedeschi: sia con i primi barlumi di iniziativa di molti militari sbandati per combattere tedeschi e fascisti, sia con le manifestazioni di solidarietà e di aiuto concreto che gran parte della popolazione offrì ai soldati fuggiaschi. Nel libro lo spiega molto bene, tra le altre, la testimonianza di Luigi Fiori “Fra Diavolo”. La scelta la fecero, in quei giorni, non solo i militari che non esitarono da subito a combattere i nazifascisti, ma anche i comunisti, i socialisti, i popolani che si misero a raccogliere le armi: nello spezzino avvenne dappertutto. Ma dopo i primi giorni la spontanea, umana solidarietà non fu più sufficiente. Le truppe tedesche cominciarono a dare organizzazione alla loro violenza, i fascisti crearono la Repubblica Sociale: la scelta da compiere divenne più dura e drammatica, la disobbedienza aveva prezzi sempre più alti…. Il libro riporta, tra le altre, le riflessioni di un intellettuale azionista, Cesare Godano “Gatto”, e di un operaio comunista, Bruno Brizzi “Cammello”. Il primo scrive di “una rivoluzione… anzitutto nella propria interiorità… per estrarne una visione della vita totalmente opposta a quella del fascismo e del nazismo”. Il secondo si domanda: “Chi ci chiamava a partecipare a una guerra non conosciuta, dove non vi erano caserme per proteggerci, approvvigionamenti sicuri, riforniti di niente?”, per rispondere così: “Sicuramente la nostra scelta non era l’avventura, ma la ribellione contro un regime oppressore della libertà”. Ciascuno si trovò solo di fronte alla propria scelta. Ogni partigiano ebbe un suo caso di coscienza, un suo personale “ardir”. Ma da tutte queste storie individuali sorse una storia collettiva. Fu questa dimensione morale, che Piero Calamandrei indicava come una sorta di impulso diffuso, generato “da una voce sotterranea”, a indicare agli italiani la via della ribellione e del riscatto.
Qual è il partigiano che ricorda con più affetto e perché? Forse Dante Castellucci “Facio”, a cui ha dedicato un capitolo del libro?
L’affetto è per tanti, certamente è molto forte verso chi ho avuto la fortuna di conoscere e di avere come “maestro”. “Facio”, invece, non l’ho conosciuto: fu ucciso da un gruppo di partigiani il 22 luglio 1944. Però, da quando ho conosciuto la sua storia, non sono riuscito a staccarmene più. Nel libro ci sono anche le pagine buie, le tragedie della Resistenza, come quella della sua morte. Ci sono anche le figure controverse, come Primo Battistini “Tullio”, “eroe e fuorilegge”. Io credo che tutto dobbiamo raccontare, e soprattutto che tutto dobbiamo cercare di capire. Lo storico e partigiano Marc Bloch diceva: l’esigenza di capire è più forte di tutto. Sulle violenze, i tradimenti e le ombre della Resistenza spezzina va fatta piena chiarezza e, ove necessario, come nel “caso Facio”, anche un’autocritica radicale da parte di chi porta responsabilità. Tuttavia queste tragedie non riescono a scalfire il tessuto connettivo della lotta partigiana, la luce della scelta morale. La Resistenza cambiò non tanto il Paese, quanto le persone che vi presero parte. Fu scuola di vita, laboratorio di maturazione, di crescita personale e sociale, di emancipazione. Ci furono eccezioni, come quella dell’uccisione di “Facio”, ma in generale il modo di combattere e conquistare il consenso dei partigiani fu opposto a quello dei fascisti. Qualche giorno fa ho percorso un sentiero della Resistenza lunigianese, da Tavernelle ad Apella. Lungo la via ci sono alcuni cartelli collocati dall’Anpi. In uno c’è questa frase di Alberto Asor Rosa: “Dietro il milite delle brigate nere più onesto, più in buona fede, più idealista, c’erano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni e l’olocausto. Dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, che di queste cose non ce ne sono”.
Che segno ha lasciato la Resistenza nella realtà spezzina?
Un segno profondo, nella classe dirigente e nella società civile. Nel dopoguerra gli amministratori locali e i quadri di quelle che si chiamavano “organizzazioni di massa” provenivano in gran parte dall’esperienza partigiana. Pur nella divisione profonda della “guerra fredda” rimase sempre un filo rosso unitario, a volte molto tenue, tra coloro che avevano partecipato alla Resistenza. Anche Spezia visse la sua “rivoluzione democratica”: per la prima volta il popolo, i poveri, quelli che stanno sotto, gli esclusi, entravano sulla scena e si includevano nello Stato. Fu un fenomeno profondo, alla base della ricostruzione postbellica. E tuttavia la storia del dopoguerra è anche una storia di divisioni nell’antifascismo: l’anticomunismo divise il fronte antifascista, e la risposta dell’antifascismo fu tale per cui esso tese a riproporsi non tanto e non solo come insieme di valori più o meno condivisi dall’insieme delle forze che agiscono nello spazio repubblicano, ma come linea politica tendente a rimettere in discussione le divisioni interne fissatesi con il regime della “guerra fredda”. Poi ci fu l’identificazione tra compromesso storico e antifascismo, con la sconfitta del primo che portò all’emarginazione del secondo… Ora che questa storia -quella dei partiti-è finita, da dove ripartire per ricostruire uno spazio repubblicano condiviso fondato sugli ideali dell’antifascismo? Dalle persone, dalle storie, dalla società. Vale sempre l’insegnamento della Resistenza. Quello che ci spiega Pietro Benedetti, in una delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”, scrivendo alla moglie: “Ma che fare? Vi sono nel mondo due modi di sentire la vita. Uno come attori, l’altro come spettatori”. Non è “dall’alto” dei poteri costituiti che possiamo pensare di ricevere la salvezza. Sono i germogli che nascono nella società, spesso tra i più umili, dove si trova talora la consapevolezza che manca altrove.
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