Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Il futuro non è nelle mani di chi è senza storia

a cura di in data 10 Gennaio 2015 – 11:52

Intervista a Giorgio Pagano di Chiara Alfonzetti
Città della Spezia, 9 gennaio 2014

Qual è il ricordo più bello del suo mandato da Sindaco?
Sicuramente i tanti momenti di incontro con i miei concittadini: due volte all’anno organizzavo un giro di assemblee in tutti i quartieri, che durava un mese. Era un’esperienza “dura” ma entusiasmante e utilissima: perché si può governare bene solo con la partecipazione democratica dei cittadini alla costruzione delle scelte, grandi e piccole. Ricordo un’assemblea al cinema Palmaria del Canaletto nel novembre 2001, presenti i rappresentanti della portualità, i sindacati, la Circoscrizione, i cittadini del levante: lì siglammo, di fatto, l’intesa che portò subito dopo all’approvazione -quasi unanime- in Consiglio Comunale del Piano Regolatore del Porto (PRP), e al superamento della “guerra civile” sul porto, che aveva diviso la città per anni. Ma il momento forse più bello è precedente, risale al giugno 2000: iniziammo con una “tre giorni” molto partecipata il percorso di elaborazione del primo Piano Strategico, una visione a medio-lungo termine, condivisa da istituzioni, attori sociali e cittadini, che delineava il “cambiamento di pelle” di cui la città aveva bisogno. Al termine inaugurammo il Museo Archeologico al Castello San Giorgio e la nuova piazza del Bastione, con un indimenticabile concerto di Compay Segundo. Quella sera ebbi chiaro, e con me migliaia di spezzini, che si era davvero aperta una nuova fase della vita della città: quella della “rinascita” dopo la grande “deindustrializzazione” dei primi anni Novanta.

Quello meno piacevole? C’è stato nella sua carriera di amministratore un momento particolarmente negativo?
In certi momenti sembrava quasi impossibile venire a capo di incompiute che arrivavano da lontano, anche perché l’intervento spettava ai privati, non al pubblico: valeva per il porto Mirabello come per il recupero dell’area ex Ip. Solo grazie alla tenacia del Comune si riuscì, in entrambi i casi, a partire. Ma ci vollero anni, e fu faticosissimo. Ricordo poi la sofferenza della vicenda di Monte Montada: appena insediato chiusi tutte le discariche del levante, tranne quella di Valbosca, che fu chiusa qualche anno dopo, una volta esaurita. L’impresa che stava risanando la discarica di Monte Montada ci tradì, fu scoperta a portare materiali inquinanti. Si aprì un contenzioso giudiziario, purtroppo ancora oggi non risolto. Ma la mia vera sconfitta fu quella di Acam: tra 2001 e 2004 mi impegnai a fondo per dar vita a un’alleanza tra Acam e altre multiutiliies pubbliche, che era necessaria per ricapitalizzare l’azienda e assicurarle più efficienza dentro una “casa più grande”, mantenendo radici nel territorio. Rimasi completamente solo: l’azienda e gli altri Comuni azionisti scelsero un’altra strada, quella del localismo e dell’isolamento, che è in buona parte all’origine della crisi successiva. Con il senno del poi è chiaro che avrei dovuto scatenare un putiferio pubblico. Mi trattenne “il senso di responsabilità”. Avrei, con tutta probabilità, perso lo stesso, ma sbagliai.

Com’era la città?
All’inizio degli anni Novanta c’era stata, come ho già ricordato, la “deindustrializzazione”: aveva provocato disoccupazione e calo demografico, e aveva anche minato il senso di appartenenza degli spezzini. Mentre la discarica di Pitelli aveva svelato uno scenario di dissipazione del territorio come lascito dell’industrialismo. Ma nella seconda metà degli anni Novanta -io ero assessore del Sindaco Lucio Rosaia- un evento inatteso concorse “simbolicamente” al riscatto della città: la nascita del Museo Lia. Da lì si avviò la “rinascita”: la riqualificazione e la pedonalizzazione del centro storico, prima invaso dall’asfalto e dalle macchine; la realizzazione degli altri Musei e dell’Università; la rigenerazione ambientale, iniziata con un Piano del Traffico che migliorò di molto la qualità dell’aria. In campo economico la città, superato lo stordimento iniziale, cominciò a cercare con caparbietà la strada per un nuovo sviluppo: ancora l’industria, anche se non più con il peso del passato e sempre più “tecnologica”; il porto sì, ma sostenibile dal punto di vista ambientale e compatibile con le altre vocazioni produttive; e per la prima volta il terziario e il turismo, abbandonati con la nascita dell’Arsenale. Dal 2000 in poi tutto questo diventò più chiaro e condiviso, e soprattutto cominciò a dare risultati: tra il 1997 e il 2007 i nuovi posti di lavoro creati furono quasi 9.000, mentre la città passava dall’81° al terzo posto nella classifica nazionale di Legambiente.

Secondo lei il distacco dalle industrie di Stato andava cominciato prima? Si poteva fare qualcos’altro per trovare nuove occasioni di sviluppo industriale che non fossero legate allo Stato in un mondo che stava già cambiando ma che in Italia si è voluto tenere così?
La crisi della nostra monocultura industriale aveva già dato segni nella seconda metà degli anni Ottanta. Si aprì una grande discussione, innanzitutto nella sinistra che governava la città. Le giunte di sinistra Pci-Psi, che avevano dato grandi risultati negli anni Settanta e Ottanta (si pensi al nostro welfare, in gran parte costruito allora), tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta esaurirono la loro “spinta propulsiva”, innanzitutto per la crisi dei due partiti. In quella discussione io ero tra coloro che spingevano per un nuovo modello di sviluppo, non più “monocorde” e basato solo sull’industria, e più attento all’ambiente. Fu su questa base che divenni nel 1990 segretario provinciale del Pci e poi del Pds, quindi assessore per quattro anni con Rosaia, che volli fortissimamente come Sindaco, e infine suo “erede” per un decennio. Sì, potevamo, nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primissimi anni Novanta, non limitarci a ”difendere” l’esistente. Anche se eravamo tutti, “conservatori” e “innovatori”, consapevoli del fatto che oltre un secolo di statalismo aveva impedito il dinamismo dell’imprenditoria spezzina, per cui era difficile trovare delle “leve” locali con cui ripartire su basi nuove. Molti proponevano un’altra “monocultura”, quella portuale, al posto di quella industriale. Io, pur profondamente convinto dell’importanza della vocazione portuale, mi battei contro il megaporto, nel nome dell’ambiente e dello spazio da dare, sulla costa, alle altre vocazioni produttive. Quella industriale: decidemmo di favorire la riconversione dei vecchi cantieri navali in moderni cantieri della nautica, e fu una scelta felice. E poi la vocazione turistica: decidemmo di destinare Calata Paita a queste attività. Per lo sviluppo turistico ricordo altre due grandi scelte “simboliche” fatte dal Comune: acquisimmo l’area privata del Poggio, abbandonata dal dopoguerra, per metterla all’asta a condizione che il compratore realizzasse un albergo; e realizzammo un ostello della gioventù a Biassa, per farne una “porta” del Parco delle Cinque Terre. Sono state due scommesse vinte, nonostante l’incredulità iniziale dei più.

Com’è la città adesso?
Nel 2008 è arrivata la crisi economica internazionale. Quei posti di lavoro creati sono andati perduti, la disoccupazione è aumentata, così le vecchie e le nuove povertà. C’è meno coesione sociale: sono cresciuti lo sradicamento, la solitudine, le diseguaglianze. Fin da allora sostengo che non basta più attuare i “vecchi” progetti e che bisogna porsi nuove sfide: il sostegno alle piccole imprese, che devono aggregarsi perché non è vero che “piccolo è bello”; la conversione ecologica dell’economia e lo sviluppo della green economy; il turismo sostenibile; l’industria culturale e creativa; il rilancio dell’agricoltura; la riforma del welfare e della formazione per contrastare l’aumento delle diseguaglianze… Sono sfide necessarie e anche belle, l’occasione per tornare a coinvolgere la città e farla sentire protagonista di un’impresa collettiva. Sui “vecchi” progetti ce n’è uno che si è perso per strada, ma che è fondamentale per la nuova identità di Spezia: il waterfront a Calata Paita. Dopo la “riscoperta del centro storico” toccava alla “riscoperta del mare”, ma c’è stato un blocco: il PRP del 2001, approvato dalla Regione solo nel 2006, è ancora inattuato, a Calata Paita c’è sempre il porto, della spiaggia alla diga non si parla più… E anche il muro di Marola è sempre lì.

Com’è la politica oggi?
E’ una politica sempre più leaderistica e decisionista. I partiti sono sempre più in crisi (rispetto ai miei tempi direi che di fatto sono scomparsi), e il cittadino è sempre più uno spettatore. Il governo democratico consiste nel prendere il tempo necessario per ascoltare le diverse opinioni, mediare tra i diversi interessi, costruire una sintesi condivisa. A tutto ciò si oppone la mitologia del leaderismo e del decisionismo, l’idea che la democrazia sia un dispendioso processo “ritardante” e che ci si debba liberare del vecchio fardello “partecipativo”. Questa concezione, nata a destra, ha fatto tanti proseliti anche a sinistra: ma in questo modo la distinzione tra destra e sinistra perde qualsiasi significato. Stiamo assistendo a una mutazione genetica della politica, a cui bisogna reagire: con una proposta che non metta in alternativa tra loro decisione e rappresentanza/partecipazione. La decisione che ascolta la rappresentanza/partecipazione ha più consenso, è più efficace e anche più “creativa”. Deve tornare in campo una concezione della politica in cui non conti solo la concentrazione del comando, ma anche la rappresentanza/partecipazione. Altrimenti la società, priva di coesione, si dissolve. E la politica diventa solo il campo di competizione degli avventurieri del potere.

Che cosa sono oggi “destra” e “sinistra”?
Nel mio libro “Non come tutti” fondo la sinistra su tre principi: l’eguaglianza, in una società in cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri; la libertà della persona che lavora, in una società in cui il lavoro è sempre più una merce; la difesa della natura, che va intesa come un’entità avente diritti, e la ridefinizione del concetto di benessere, in una fase della storia dell’umanità in cui siamo vicini alla rottura dell’ecosistema globale. La destra neoliberista ha principi opposti: diseguaglianza, mercificazione del lavoro, ossessione del consumo e distruzione della natura.

Com’è cambiato il modo di amministrare il Comune? E il territorio?
Archiviati la pianificazione strategica partecipata e il “Progetto Quartieri”, abolite le Circoscrizioni, ci si trova in una situazione pericolosa: il Comune solo contro i tanti comitati, l’astensionismo che dilaga. Non c’è più una rete che connetta e tenga insieme la complessità sociale e culturale della città. La democrazia in una città è buona solo se c’è un forte rapporto tra decisione politica e discussione pubblica. Il progetto della nuova piazza Verdi e l’attuazione del PRP sono vicende diversissime tra loro, ma ci parlano entrambe del rischio di rimanere nel pantano degli ultimatum, e della necessità di aprire una nuova fase imperniata sul dialogo e la partecipazione. Bisogna avere più interesse per le energie popolari, più fiducia nell’intelligenza delle persone, più passione per la politica che si fa nella società e meno per quella che si fa nelle stanze del potere. Perché qui c’è un’altra “partecipazione”: il negoziato con interessi privilegiati e lobbies di pressione.

Il Sindaco Federici ha lavorato bene? Chi vede come suo successore?
Non è facile governare un Comune, e oggi lo è meno che mai. Credo però, come ho già in parte anticipato, che alcune questioni vadano poste. La prima: va ripreso il bandolo della partecipazione. Alcuni assessori, Basile e Pollio, hanno cominciato a farlo, ora serve una svolta generale: l’occasione da non sprecare è la discussione sull’aggiornamento del Piano Urbanistico Comunale (PUC). La seconda: bene con l’impegno a realizzare i “vecchi” progetti, ma sul waterfront siamo fermi da sette anni. Le attività che sono in Calata Paita vanno spostate sul Molo Garibaldi, che sarà ampliato per consentire l’accosto di due navi da crociera. Non ho nulla contro il turismo crocieristico, anzi: ne ho parlato per primo in città. Ma vedo il rischio che, con questa scelta, che è una variante al PRP, i tempi per consegnare Calata Paita alla città si allunghino ancora. Ma è tutto il disegno della “riscoperta del mare”, come ho già detto, che è al palo. La terza: servono nuovi progetti. Uno per tutti: la dismissione della centrale Enel. La centrale, invece, continuerà per altri 8 anni a funzionare a carbone: è inaccettabile, bisogna svoltare, ce lo impone la crisi ambientale e climatica. Il successore? Giovane, di sinistra, e soprattutto libero rispetto a tutti i poteri della città.

Renzi oppure “il passato”?
Né l’uno né l’altro, ma una sinistra nuova. Renzi ha rottamato i vecchi leader che avevano fallito, ma non le loro idee. Resta subalterno, come loro, al neoliberismo. Quindi oggi il vecchio sta soprattutto nel renzismo: il blairismo, la svalutazione del lavoro, l’idea della crescita illimitata sono i veri vecchi arnesi del Novecento, che hanno fallito e sono del tutto inservibili. La sinistra per cui mi batto deve essere nuova nei valori (si pensi alla concezione della natura come entità avente diritti: è una rottura radicale con il passato!), nei programmi, nel modo di essere: un progetto in costante divenire, non la cristallizzazione di vecchie certezze. Detto questo, va aggiunto che la lunga storia di emancipazione delle classi subalterne ha lasciato tracce profonde, e che resta un deposito di energie da cui attingere. Certamente non basta, ma il futuro non è nelle mani di chi è senza storia.

Parlando delle prossime regionali, Paita oppure Cofferati?
Voterò Sergio con convinzione, non solo perché è un simbolo della lotta per il lavoro, ma anche e soprattutto perché abbiamo le stesse idee sulla Liguria. Bisogna superare il modello di sviluppo di questi anni, che ha messo al centro il mattone. Va cambiata la specializzazione produttiva della regione: non solo con l’innovazione tecnologica nell’industria ma anche con l’innovazione sociale e ambientale, cioè nei settori in cui risiede la nostra identità. Nel contempo bisogna rompere il sistema di potere, quello in cui politica, economia e finanza si sono interconnesse, ingessando la Liguria. Il sistema della politica statalizzata, che sta attaccata come le cozze all’amministrazione pubblica, traendone risorse politiche e finanziarie, ed è lontana dai bisogni della vita delle persone. Sto con Cofferati perché è estraneo al sistema, e perché -ce lo spiega la sua storia- non ne creerà un altro simile: bisogna sostenerlo per ricollocare la politica nel vivo della società, far rivivere la partecipazione e organizzare la creatività sociale della Liguria, contro la cappa consociativa di questi anni, che ha visto di fatto sinistra e destra insieme, senza che nessuno facesse l’opposizione. Non a caso vedo che dall’altra parte ci sono Orsi, Saso e tanti altri vecchi politicanti della destra, che per me e per ogni persona di sinistra sono avversari, non certo alleati.

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