Gli scioperi di Gennaio e Marzo 1944 e l’assalto al treno di Valmozzola del 13 Marzo 1944 nelle testimonianze inedite dei protagonisti – Relazione di Giorgio Pagano
Gli scioperi nelle fabbriche e la primavera partigiana
La Spezia 7 marzo 2024
Gli scioperi di Gennaio e Marzo 1944 e l’assalto al treno di Valmozzola del 13 Marzo 1944 nelle testimonianze inedite dei protagonisti
Relazione di Giorgio Pagano
Gli operai spezzini diventarono, nel corso della Resistenza, classe dirigente. Nel dopoguerra assunsero pienamente questo ruolo.
Ma com’erano gli operai spezzini nel 1943-1944?
Con lo sviluppo dell’industria bellica si era venuto aggregando – nel Paese, non solo alla Spezia – un consistente gruppo operaio con caratteristiche proprie, formato da giovani, talora giovanissimi, apprendisti in via di professionalizzazione, orgogliosi del lavoro di fabbrica, portatori di una identità operaia forte.
Sono i “maestri” di Dino Grassi, raccontati nella sua memoria Io sono un operaio.
Erano sui trenta-quarant’anni. Molti venivano dalle campagne e avevano l’orto. Erano operai-contadini.
Gli operai dell’industria bellica avevano qualche vantaggio rispetto agli altri: non venivano richiamati alle armi. Ma erano più controllati: questo era lo svantaggio.
Tra fine 1942 e inizio 1943 crebbe l’insofferenza. Tra gli operai ma anche in altri ceti. Le catastrofi militari, i bombardamenti e la fame diedero il senso di una crisi senza ritorno. Una crisi organica del regime: militare, sociale, politica, d’autorità. Dalla contrarietà alla guerra si passò alla crescente ostilità verso il regime.
Una saldatura tra fascismo e operai non c’era stata. Restavano le diffidenze da parte fascista e la memoria operaia di una ferita violentissima, quella subita negli anni 1921-1922. La memoria aiutò almeno una parte degli operai a compensare l’oppressione e a mantenere una disposizione alla libertà. Ma erano cresciute le generazioni che non avevano conosciuto quella tragedia e fasce di consenso operaio al fascismo non erano mancate.
La condizione di disagio sociale va tuttavia fatta risalire a scelte del governo fascista che si snodano nel lungo periodo e che l’emergenza bellica acutizza, non crea. I salari durante il regime erano quasi sempre scesi.
Poi tutto si aggravò: il salario reale nel 1943 corrispondeva a non più del 60% di quello precedente lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Inoltre scoppiò il problema alimentare: i prezzi alti, il mercato nero, la fame.
Nel marzo 1943, però, la classe operaia spezzina non scioperò. Perché?
Non basta, per rispondere, fare riferimento alla – relativa – fragilità del Partito comunista, che pure c’era. Può essere utile ripartire da una considerazione di Tim Mason, secondo il quale: “nella storia del movimento operaio non esiste un nesso meccanico tra il grado di sofferenza di volta in volta misurabile, da un lato, e la disponibilità alla lotta dei gruppi di lavoro coinvolti, dall’altro”[1]. Fame e sfruttamento possono portare alla demoralizzazione come alla rabbia. L’ipotesi di una naturale propensione operaia alla lotta non è sostenibile, tanto più se si considera la cesura del ventennio. Va detto che i lavoratori volevano sottrarsi all’invio per lavoro in Germania: il trasferimento coatto era stato particolarmente intenso già nel 1941-42, e lo sarà ancora nel 1944. Non è mai stata scritta una storia della paura durante una dittatura, e non possiamo sapere.
Tutto cambiò dopo il 25 luglio. Già il 26 luglio si tennero assemblee e iniziative nei principali stabilimenti spezzini, tra spontaneità e ruolo dei partiti, in primo luogo il PCI. Le fabbriche più insofferenti e attive erano il Cantiere Navale Muggiano e l’OTO Melara, allora appartenenti a un unico gruppo, l’OTO, e le Officine Motosi[2].
La sera del 27 luglio si tenne una grande, gioiosa, manifestazione operaia a Pitelli.
Il Muggiano fu l’unica fabbrica in cui i soldati trovarono, in due copie in una parete dei gabinetti, il manifesto del comitato regionale dei partiti antifascisti[3].
L’OTO Melara fu la prima fabbrica a scioperare, il 28 luglio, per quindici minuti: per chiedere “ai dirigenti di allontanare dal lavoro gli operai squadristi, mentre gruppi di operai si recavano agli uffici e infrangevano fotografie e contrassegni del partito fascista”[4].
Questa sospensione di 15 minuti all’OTO fu il loro primo sciopero dopo molti anni[5].
Un fatto rilevante avvenne anche alla Termomeccanica. Il 28 luglio ci furono scontri tra fascisti e antifascisti, il 29 gli operai scioperarono per chiedere la liberazione di cinque compagni arrestati, che furono liberati due settimane dopo. Fu operata una sorta di “epurazione dal basso”[6].
Lo stesso giorno scioperarono gli operai di molte fabbriche spezzine, per partecipare a una grande manifestazione in città. Chiedevano, oltre alla cacciata dei fascisti, l’aumento del salario e della razione viveri. Due operai furono uccisi: il diciottenne Rino Cerretti, della Società Industrie Meccaniche, e la quindicenne Nicolina Fratoni, delle Officine Motosi.
Nei quarantacinque giorni del governo Badoglio si sparava agli operai. Mentre la guerra continuava.
Il processo di defascistizzazione era molto lento.
Più che un colpo di stato il 25 luglio segnò l’esaurimento dall’interno di un’esperienza.
Ci fu la sostituzione al potere di uomini in linea di continuità con gli assetti preesistenti. Una sorta di successione al potere.
Tuttavia il processo di defascistizzazione avanzò un poco nelle fabbriche. Il 2 settembre si concluse la trattativa tra sindacati e Confederazione degli industriali, con un accordo nazionale sulla costituzione delle Commissioni Interne, elette dai lavoratori. La democrazia fece il suo primo passo, significativamente, in fabbrica. Poi il precipitare degli eventi impedì di portare a compimento ciò che l’accordo aveva reso possibile: alla Spezia, per esempio, solo i lavoratori del Cantiere Navale Muggiano elessero i loro rappresentanti nella Commissione Interna, due comunisti e un repubblicano[7]. Ma uno spiraglio positivo si era aperto.
L’agosto 1943 fu un mese di intense agitazioni operaie. Si può dire che avvennero ancora al di fuori delle decisioni delle opposizioni antifasciste e che progressivamente i partiti, i comunisti in primo luogo, cercarono di dirigerle.
Le lotte iniziarono fin dai primi giorni di agosto, un po’ dappertutto e con motivazioni diverse: allontanamento dei fascisti, funzionamento delle mense, aumenti salariali.
Alla Spezia scioperarono, il 23 agosto, i lavoratori dell’OTO Melara, per i cottimi. Finora, nella storiografia, la data era rimasta vaga; ora le ricerche la documentano con certezza[8]. Due lavoratori furono arrestati, processati e prosciolti.
Dopo l’8 settembre 1943 gli operai spezzini non scioperarono né a novembre né a dicembre, come fecero i loro compagni in molte fabbriche italiane. Tuttavia la situazione degli operai spezzini peggiorava sempre più. Forse anche per questo non scioperarono ancora.
Pesò sempre la debolezza del locale Partito comunista, ma non solo. Incise anche, e forse soprattutto, il fatto che la preoccupazione più grande degli operai spezzini era per il posto di lavoro: moltissimi non l’avevano più, gli altri temevano di perderlo. Nell’Arsenale distrutto gli arsenalotti non c’erano quasi più. Ma anche il gruppo OTO non se la passava per niente bene. Il primo volantino di un Comitato di officina segnalato dalle forze dell’ordine alle autorità fasciste risale all’ottobre 1943 ed è significativamente intitolato Prossimi licenziamenti negli stabilimenti OTO: la lotta era indirizzata contro “l’oppressore tedesco” e contro “le manovre di affamamento dei plutocrati italiani”[9]. Non a caso il Prefetto spezzino Franz Turchi, dopo lo sciopero del gennaio 1944, fece preparare una serie di volantini dattilografati, “nei quali si faceva balenare che l’incitamento allo sciopero fosse una manovra capitalistica allo scopo di giungere alla chiusura degli stabilimenti desiderata dagli industriali”[10].Un volantino firmato “Un gruppo di anarchici” sostenne con forte vigore polemico la tesi di non scioperare per impedire di “chiudere gli stabilimenti” e per non “fare il gioco delle autorità e dei capitalisti”. Il nemico era “l’oro inglese che paga abbondantemente qualcuno di noi infiltratosi nelle nostre file”[11]. Il termine “oro inglese” era assai frequente nei testi scritti da Turchi. La contromossa fallì miseramente, come dimostrò il successo dello sciopero di marzo.
Nel corso del 1943 era comunque cresciuto uno spirito di lotta nuovo.
Il 18 dicembre 1943 i carabinieri ritrovarono, nella sala degli orologi marcatempo dell’OTO Melara, un manifesto “dove si lamenta che l’aumento del 30% non basta e che occorre togliere il mercato nero e concludeva ‘Vogliamo più pane – Vogliamo più grassi’”[12].
Il 23 dicembre, nello stesso luogo, i carabinieri ritrovarono un altro manifesto, “contenente argomenti antifascisti, antitedeschi e comunisti incitanti le maestranze a sabotare l’opera governativa e a danneggiare l’alleato”. Il manifesto, firmato Comitato di agitazione di fabbrica, denunciava il pericolo della deportazione dei lavoratori in Germania per lavorare nelle fabbriche tedesche, non faceva cenno al comunismo e concludeva: “è necessaria una illimitata unità”[13].
Si stavano creando le condizioni per il grande sciopero del gennaio 1944.
La protesta aveva all’origine una situazione sociale insopportabile: a dominare era la fame. I negozi e i mercati erano vuoti, il mercato nero regnava incontrastato. I prezzi erano saliti vertiginosamente, le paghe non riuscivano a reggere il passo. A tutto questo si aggiungevano la disoccupazione – anche se una certa ripresa produttiva dopo il tracollo dell’8 settembre ci fu –, la minaccia di essere deportati in Germania e la mancanza di case, distrutte dai bombardamenti: 20 mila, secondo Turchi.
In un Promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria a Turchi del 24 novembre 1943 è scritto che gli occupati alla Spezia erano 4 mila, i disoccupati 6 mila: ma molti lavoratori – scrivevano gli stessi fascisti – non si erano “iscritti alle liste per tema di essere precettati ed avviati in Germania o di essere richiamati alle armi”[14]. I disoccupati erano quindi molti di più. Secondo il Consiglio provinciale dell’economia, nello stesso mese di novembre, erano 8 mila[15].
Il 3 dicembre fu firmato un accordo tra industriali e sindacati fascisti per un aumento salariale del 30%. Ma agli operai non bastava per sopravvivere. Il 20 dicembre il generale tedesco Paul Zimmermann, delle SS, insediato da novembre a Torino quale “incaricato della repressione degli scioperi”, ordinò , per evitare altri scioperi, di “estendere i miglioramenti, sia nella paga che nel campo alimentare, già stabiliti per gli operai di Milano e di Torino” agli operai di Genova. Nel manifesto il generale accennava anche alle “zone industriali liguri”[16]. I fascisti spezzini erano preoccupatissimi. Franz Turchi scrisse il 24 dicembre al Ministro dell’Interno e personalmente al Duce per essere certo di introdurre i miglioramenti anche nella nostra provincia. Ma gli animi non si placarono. Già in un Promemoria a Turchi del 20 novembre la Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria era stata costretta ad ammettere: “gli operai […] non sono orientati verso il Partito Fascista Repubblicano per mancanza di fiducia”[17].
La lotta iniziò all’OTO Melara il 5 gennaio, si allargò il 7 al Cantiere Muggiano e ad altri stabilimenti: Termomeccanica, Jutificio Montecatini, Pertusola e piccole fabbriche. Il 10 il Prefetto si recò all’OTO Melara e al Muggiano, alternando lusinghe e minacce. Alla fine, il pomeriggio dell’11, cedette su buona parte delle richieste, e lo sciopero cessò.
Negli scioperi del novembre e dicembre 1943 nelle altre città il ruolo politico e organizzativo del PCI fu più accentuato rispetto agli scioperi del marzo e dell’agosto di quell’anno, ma le agitazioni ebbero quasi sempre un avvio spontaneo. Fu così anche nello sciopero del gennaio 1944 alla Spezia.
Sullo sciopero del 5 all’OTO Melara ecco il ricordo-riflessione di Anelito Barontini, allora il più importante dirigente del PCI spezzino:
“[…] fu una iniziativa che venne fuori improvvisamente e che determinò anche la prima polemica ed una vivace discussione in seno al nostro Comitato di Liberazione Nazionale. Si poneva la domanda: chi aveva preso tale decisione? Chi aveva o non aveva deciso? Mah! La risposta era, se volete, semplice: dal momento che era in corso lo sciopero, l’avevano presa certamente gli operai e il Comitato sindacale di fabbrica”[18].
Barontini così proseguiva:
“La OTO […] non poteva e non doveva rimanere isolata e sottoposta alla reazione dei nazifascisti. Così, dopo una rapida riunione con i responsabili dei partiti e del CLN che ebbe […] momenti un po’ vivaci, fu deciso […] di sottoporre ai Comitati sindacali delle altre fabbriche l’esigenza di una estensione dello sciopero”[19].
Un volantino del Comitato di agitazione provinciale, senza data ma del 7 gennaio, metteva l’accento sulla gravità della situazione alimentare – “Siamo a gennaio e non ci hanno dato né olio né burro” – e concludeva così:
“Gli operai di La Spezia da due giorni in sciopero lottano per tutto ciò che è necessario alla vita. La loro lotta è pure la nostra, solidarizziamo con loro”[20].
Anche la giornata del 7, tuttavia, fu all’insegna della spontaneità operaia.
Lo rivela il documento Materiali sullo sciopero di Spezia – Gennaio 1944, steso nello stesso mese dalla Federazione spezzina del PCI, in cui la Relazione di un membro del Com. Federale descriveva ogni fase dello sciopero al Muggiano e spiegava:
“[La] rivendicazione dei generi alimentari […] fu proprio una leva che rimosse quell’incrostazione che da vent’anni aveva assorbito la classe operaia. […] si è giunti a una maturazione politica che bastò posticipare di tre giorni la paga per far esplodere in un sol colpo lo sciopero che noi compagni ci eravamo promessi di raggiungerlo [sic] solo una decina di giorni dopo. Questo precipitare degli avvenimenti in fabbrica ci ha sorpresi tutti e non nascondiamo che noi stessi ne siamo stati così sorpresi di tale fulmineo colpo, che alcuni operai comunisti uscirono dal cantiere a chiedere istruzioni di come dovevano contenersi e quali rivendicazioni loro si proponevano di chiedere in merito allo sciopero»[21]”.
Il partito fu “spiazzato”. Ma al contempo si lamentò sulla conclusione dello sciopero. In quella fase era ispettore regionale del PCI in Liguria Raffaele Pieragostini, esponente di quello che Giaime Pintor aveva definito il “partito di Ventotene”, cioè il gruppo di dirigenti e quadri comunisti che stava scontando il confino nell’isola e si preparava, dopo essere liberato, ad assumere la guida del partito in Italia. Il suo nome in clandestinità era “Lorenzo”. Ecco cosa scrisse “Lorenzo” subito dopo lo sciopero di gennaio:
“Non si era formato un Comitato Sindacale Segr. Vi fu, e forse vi è ancora una certa corrente favorevole alle Comm. Interne. Resta il fatto che durante lo sciopero i compagni, malgrado le istruzioni contrarie che a suo tempo erano state impartite, hanno dato il loro consenso alla formazione delle Commissioni che andarono a parlamentare e a trattare con il prefetto”.
Si può dire che gli operai avessero sbagliato? Ma che altro avrebbero potuto fare in quel contesto? Emergeva, piuttosto, una loro capacità di adoperare tutti gli strumenti organizzativi che le condizioni di lotta potevano offrire. Tant’è che nel febbraio successivo quegli stessi operai fecero fallire le elezioni delle Commissioni Interne, organizzate dai fascisti. L’indicazione data dalle forze antifasciste fu quella del sabotaggio attraverso l’astensionismo o la dispersione del voto.
Il risultato fu eclatante ovunque. Questo, per esempio, il dato del Muggiano:
“Totale votanti per i candidati 91. In bianco 429. Reclamo tre mesi 166. Generi alimentari 337. Stalin 16. Per la pace 14. Totale complessivo 753 votanti, circa 1347 astenuti”[22].
Il 16 febbraio i sindacati fascisti scrissero al Prefetto una lettera desolata: le elezioni “non hanno sortito esito favorevole”[23].
Dopo lo sciopero di gennaio la situazione alimentare ed economica degli operai spezzini continuava ad essere grave, nonostante le conquiste strappate.
Il CLN, composto inizialmente – a ottobre – da comunisti, socialisti e liberali, a gennaio si rafforzò con l’ingresso dei rappresentanti del Partito d’Azione e della Democrazia Cristiana. In una riunione successiva allo sciopero di gennaio stabilì di “lanciare un manifesto alla cittadinanza e alla classe operaia per incitarla allo sciopero”[24].
Va detto che i partiti erano molto gracili. Il 25 luglio si spiega anche così. Il PCI aveva in tutta Italia qualche migliaio di militanti: sino al 25 luglio tra i 4 e i 6 mila. L’unica opposizione organizzata. La sola per la quale De Gasperi faceva esplicitamente ricorso al termine partito.
I partiti di massa del dopoguerra si formarono nel corso del 1944.
L’intenzione dei comunisti era di organizzare il nuovo sciopero “per i primi giorni di febbraio”. “Lorenzo” scrisse dei “timori” e dei “dubbi” dei suoi compagni spezzini – il Prefetto aveva minacciato, in caso di nuovi scioperi, la chiusura degli stabilimenti e la riammissione al lavoro dopo domanda, il che significava il licenziamento degli organizzatori degli scioperi – che furono poi superati[25].
Lo sciopero era parte integrante di un’iniziativa ben più ampia. Il teatro di guerra era cambiato, in senso sempre più favorevole agli alleati. Si parlava sempre più spesso di loro sbarchi sulle coste dell’Italia occupata, Liguria compresa. La liberazione di Roma sembrava vicina. Occorreva dunque sostenere lo sforzo degli alleati sviluppando tutto il potenziale espresso dalle lotte operaie.
Lo sciopero del primo marzo fu organizzato dal Comitato segreto di agitazione per Piemonte, Liguria e Lombardia (creatura del Partito comunista) e fu sostenuto dal CLN, quindi da tutti i partiti antifascisti. In una prima fase si era pensato a uno sciopero insurrezionale, ma la prospettiva di liberazione in tempi brevi di Roma e dell’Italia cadde. Gli obiettivi furono modificati. Nell’ultima versione erano obiettivi economici e alimentari, ma puntavano anche alla salvezza degli impianti e della manodopera dal saccheggio tedesco – il Muggiano, per esempio, era stato minato[26] e forte, anche alla Spezia, era la spinta a deportare gli operai – e alla cessazione della produzione bellica per il Reich: “pane e libertà”, com’era scritto nel volantino del Comitato segreto di agitazione della Spezia del primo marzo[27].
Alla Spezia l’adesione fu compatta: OTO Melara, Muggiano, Termomeccanica, Jutificio, Pertusola, le piccole fabbriche, perfino l’officina congegnatori dell’Arsenale Militare, allora sotto il comando tedesco. “Man mano arrivavano gli operai degli altri reparti – raccontarono gli operai dell’OTO – andavano a mettersi in tuta di lavoro, raggiungevano il loro posto e lì rimanevano con le braccia incrociate. Una cosa entusiasmante e solenne nel medesimo tempo”[28]. Gli scioperanti, secondo i fascisti, furono 5 mila. In realtà furono forse il doppio: una vera e propria sfida al sistema, che scatenò una terribile macchina repressiva.
Il primo marzo il federale Augusto Bertozzi fece affiggere un manifesto a sua firma in cui era scritto: lo sciopero “sarà decisamente stroncato”[29]. Bertozzi andò all’OTO, ordinando a tutti di recarsi nel piazzale.
Leggiamo un brano della prima testimonianza inedita.
E’ di Ioriche Natali, operaio all’OTO. La testimonianza risale ai primi anni Sessanta, ed è depositata nell’archivio dell’Istituto ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea:
“Dopo l’8 settembre si costituì nell’ambito della fabbrica di armi OTO il Comitato di Agitazione con il compito di organizzare un fronte di resistenza operaia contro i nazifascisti. Detto Comitato era composto da un numero ristretto di operai ed impiegati, al quale facevano capo dei responsabili di reparto. […]
Nel corso della sua attività il Comitato organizzò due scioperi, uno nel gennaio 1944 e uno il primo marzo dello stesso anno, ai quali partecipò la quasi totalità dei lavoratori. […]
Lo sciopero di marzo aveva un carattere squisitamente politico e anche le maestranze ne conoscevano il fine, che era lotta ad oltranza per l’abbattimento del regime nazifascista.
Sin dalle prime ore del mattino, su parola d’ordine lanciata dal Comitato di Agitazione, i lavoratori smisero di lavorare pur rimanendo nei reparti e negli uffici.
Sempre nella mattinata i lavoratori furono invitati a riunirsi nel piazzale al fine di ascoltare una concione dell’allora federale fascista Bertozzi.
Ad un certo momento, quando il Bertozzi nella sua foga oratoria nominò a torto l’Unione Sovietica, su invito di una voce rimasta anonima tutti i lavoratori abbandonarono il piazzale lasciandolo solo con uno sparuto gruppo di seguaci.
Nel pomeriggio lo stabilimento fu invaso da una schiera di brigate nere con alla testa il famigerato Bergamini, che con rivoltella in pugno cercarono inutilmente di fare riprendere il lavoro”[30].
Natali non partecipò alle altre due giornate di sciopero, il 2 e 3 marzo, perché fu arrestato nella sua abitazione la notte del primo marzo.
Il suo testo si conclude così:
“Per quanto mi ricordo i componenti il Comitato erano i seguenti lavoratori: Giovanneli Otello operaio comunista; Natali Ioriche operaio comunista; Tozzetti Loris capo operaio comunista; Marchiani Pietro capo officina comunista; Neri operaio socialista.
Gli arrestati furono:
Castagnaro Michele, dirigente della scuola allievi operai della fabbrica, deceduto nel campo di concentramento, comunista; Milone Pietro, manovale indipendente deceduto; Sanvenero Giuseppe, operaio comunista deceduto; Natali Ioriche, operaio comunista unico superstite”[31].
Ai fascisti non andò meglio al Muggiano. Ecco un brano di una testimonianza inedita – scritta alla fine degli anni Novanta – dell’operaio Bruno Scattina, socialista, depositato nell’archivio di Vasco Sensoni:
“Era venuto un rappresentante del sindacato fascista a fare un’assemblea nel piazzale più importante del Muggiano. C’eravamo perché la convocazione era obbligatoria. C’eravamo tutti i dipendenti del Muggiano, allora eravamo oltre 3 mila persone. Mi ricordo che tutti questi ragazzi che eravamo tra gli elettricisti, quando questo signore aveva posto una domanda che mi pare fosse se siamo contenti dell’attuale trattamento che ci viene riservato come dipendenti di una grossa fabbrica, tutti quanti in coro abbiamo gridato: ‘no!’. Tutti i ragazzi – gli uomini dovevano tenersi più coperti perché poi c’era pericolo di rastrellamenti – però noi ragazzi abbiamo detto spontaneamente ‘no!’”[32].
I fascisti conoscevano gli organizzatori ed erano pronti a colpire senza pietà. Nella notte del primo marzo il Prefetto fece stampare un manifesto, affisso all’alba del 2: se lo sciopero non fosse cessato il Prefetto avrebbe chiuso gli stabilimenti, licenziato gli operai e sorteggiato chi inviare in “campi italiani di concentramento, come elementi sediziosi e nemici della Patria”[33]. In realtà il campo fu Mauthausen. Nella stessa notte iniziò una catena di arresti presso le abitazioni. I primi ad essere incarcerati furono tre operai e un tecnico dell’OTO Melara e nove operaie dello Jutificio.
Il primo marzo il Questore aveva emanato le disposizioni per il giorno successivo: decine di militi della Xª Mas furono inviati in tutte le fabbriche, il nucleo di marinai del Varignano all’OTO Melara, la GNR e tutte le altre forze dell’ordine a presidiare la città.
Ma il 2 marzo, nonostante tutto, lo sciopero continuò.
All’OTO Melara si rinunciò a formare una delegazione per andare a trattare la liberazione dei compagni incarcerati: l’arresto dei componenti sarebbe stato certo. Si scioperò anche il giorno dopo, fino alle 14,30. Alla direzione, che si disse pronta a discutere sui motivi dello sciopero, i lavoratori risposero che, in ogni caso, dovevano diventare operanti gli accordi stipulati dopo lo sciopero di gennaio.
Anche al Muggiano lo scioperò continuò il 2. Leggiamo la testimonianza inedita di un lavoratore del cantiere, scritta “in diretta”, proprio il 2, a penna su carta intestata di una ditta che presumibilmente lavorava per il Muggiano, e ovviamente non firmata. La testimonianza è nell’archivio del Partito comunista. Forse quell’operaio senza nome si salvò:
“Preparate le masse dalla diffusione dei nostri manifestini e verbalmente da tutti i compagni di cellula siamo arrivati alla vigilia del primo marzo in un’atmosfera decisamente spinta verso l’azione, gente fino ad oggi estranea ad ogni movimento parlava apertamente di sciopero generale, in gran parte la massa sperava in un buon risultato, come vantaggi in campo economico e alimentare, ma erano pochi coloro che non vedessero in questo sciopero un momento prettamente politico.
All’entrata il mattino del 1° marzo troviamo all’interno del cantiere due carabinieri messi lì con l’intenzione di raffreddare la spinta operaia, ma in realtà non destano che compassione, e se c’è qualcuno qui dentro di impaurito abbiamo l’impressione che questi siano proprio i degni rappresentanti dell’arma. Più tardi questi sono avvicinati da alcuni compagni che gli chiedono cosa stanno a fare, essi rispondono che in verità nemmeno loro lo sanno e che avrebbero un gran desiderio di andarsene.
Al suono della campana che dà l’avviso dell’inizio del lavoro chi si muove sono i pochi ‘repubblichini’ che abbiamo dentro e qualcuno dei soliti crumiri, ma insultati dai vicini e anche minacciati, hanno ben presto desistito dai loro propositi, ai ‘repubblichini’ non resta che domandare il permesso di uscire dallo stabilimento, gli altri si decidono ad andarsene.
Gli altri fascisti cercano di distribuire un manifestino firmato dal commissario federale, che dice di non dar retta a pochi sobillatori al soldo del nemico e invita gli operai a riprendere il lavoro, garantendo tutto l’appoggio delle autorità. E’ da notare che questo manifestino era datato 29 febbraio.
La distribuzione non ha esito perché chi li accetta sono soltanto pochi ragazzi, e dei compagni che si offrono di distribuirli e poi avutili si fanno il dovere di distruggerli. Qualche compagno avuto il manifestino lo straccia in faccia ai fascisti senza che questi abbiano il coraggio di reagire. Uno dei distributori è riconosciuto da un operaio che lo riveste con ogni sorta di ingiurie, il fascista, spalleggiato da altri tre o quattro complici, estrae la rivoltella. Fermano un operaio e cercano di trascinarlo fuori, ma tutti gli operai che nelle vicinanze hanno assistito alla scena si stringono sotto al gruppo con contegno tanto minaccioso, tanto che i baldi repubblichini pensano bene di lasciare l’arrestato. Verso le due e trenta una nostra delegazione composta da cinque persone, precedentemente preparata, informata che in direzione non c’è né autorità fasciste né tedeschi, sale dal direttore per presentare le seguenti rivendicazioni:
1) Effettivo aumento degli stipendi e dei salari adeguati al costo della vita
2) Effettivo aumento dei generi alimentari per tutta la popolazione
3) Tre mesi di anticipo
4) La chiusura delle buche praticate dai tedeschi per distruggere il cantiere.
Il direttore risponde invitando gli operai a riprendere il lavoro, e che poi dopo si potrà trattare, in quanto alle buche egli dice vi autorizzo subito a chiuderle. La delegazione risponde che fino a tanto che le richieste avanzate non saranno accordate gli operai non riprenderanno il lavoro, e con questo si ritira. Subito dopo il direttore accompagnato dal capo cantiere si reca in prefettura e dal comando tedesco, con quale risultato non sappiamo; la massa subito informata dell’esito del colloquio si dichiara disposta a resistere fino a concessioni ottenute. E così la giornata passa senza altro fatto degno di nota.
Due marzo: troviamo nelle adiacenze della porta del cantiere nuclei di uomini della X Flottiglia armati di mitra, con il caricatore innestato, nell’interno altro forte schieramento di armati; notiamo negli operai un contegno calmo e la ferma decisione di continuare la lotta. I marinai comandati da un ufficiale che vomita veleno dalla bocca e inquadrati da diversi sottufficiali girano per il cantiere con l’arma in pugno e impongono agli operai di levarsi da torno e di prendere il lavoro ma questi si portano nelle varie officine o a bordo delle varie unità senza lavorare. Lo scrivente riesce a fare un giro per vedere lo stato d’animo delle masse e dare le necessarie istruzioni ai compagni; è qui che vengo a sapere che è stato arrestato e condotto alla X un compagno, segnalato da un fascista ben noto al Muggiano, altri due o tre compagni sono stati segnalati dal solito individuo.
Gli armati spronati dai superiori impediscono quasi del tutto la circolazione, di modo che siamo costretti a rientrare nelle officine, cerchiamo di calmare qualche timoroso, adesso i marinai entrano nelle officine gridando di prendere lavoro, ma dai rapporti che giungono si sa che tutti resistono, già in un’officina hanno fermato una trentina di operai
Col capo officina li hanno portarti vicino all’ingresso. Anche nella nostra officina entrano gli uomini gridando e minacciando. Riesco aiutato da un compagno di [parola non comprensibile] a parlamentare con questi; e a far loro comprendere come veramente stanno le cose, quali sono le nostre condizioni; essi si scusano dicendo che sono comandati e che temono i loro ufficiali e ne sono quasi vergognati; questi fatti rincuorano tutti gli operai dell’officina.
Ma non siamo ancora alla fine, non passano dieci minuti che si precipita nell’officina un giovane sottufficiale intimando di riprendere il lavoro, mettendo un po’ di paura a qualcuno che accenna a riprendere di lavorare; io, rimasto solo perché il compagno era uscito per avere informazioni, cerco di affrontare decisamente la situazione e rimango fermo con le braccia incrociate, il sottufficiale si rivolge a me e grida, e voi non lavorate! Ed io: non lavoro, o meglio non lavoriamo perché abbiamo fame, allora se avete fame, replica lui, venite con me, mi appoggia un mitra al petto, sono costretto a muovermi e quello dietro con un fucile alla mia schiena.
I colleghi di officina non hanno il coraggio di muoversi, e io tiro avanti fino a che non mi trovo solo con il mio guardiano, qui riesco a intavolare discorso con lui e riesco ad ammansirlo, tanto che dice di non farmi vedere dall’ufficiale e letteralmente fugge via. Ritorno in officina tra la sorpresa e la gioia dei compagni operai, e posso notare che il mio contegno rincuora tutti.
Poi la situazione precipita, giunge notizia dell’arresto di un … [parola cancellata], che è stato trasportato fuori a calci e pugni. Sono le 11 circa, mi si avvisa che mi stanno cercando e con me altri compagni tra i quali … [parola cancellata]; li faccio avvisare di quanto succede, poi riesco uscendo dalla porta a uscire dallo stabilimento, fuori sono seguito da due altri compagni come me ricercati che sono riusciti a salire il muro di cinta. Prima di uscire ho potuto osservare che gli operai nonostante gli arresti e le minacce continuano in gran parte a non lavorare, neppure una macchina [parola non comprensibile] si sente battere in tutto il cantiere.
Mi trattengo nelle alture sopra il cantiere fin verso le tre e di qui riesco a vedere che il lavoro non è ancora ripreso in pieno, che un compagno uscito è riuscito a sapere che sono stati fermati tre [parola cancellata], quattro sono ricercati [ [parola cancellata], e anche qui due del [parola cancellata], notizie di come sia la giornata non ho potuto avere, mi riprometto di farlo appena sarò possesso di altri elementi.
E’ mia impressione che la massa, rincuorata e ben preparata dai compagni, possa dare grandi soddisfazioni, perché non solo ha risposto come un sol uomo allo sciopero, ma ha resistito alle minacce di fucilazione e non si è fatta impressionare dagli arresti”[34].
Questi erano gli uomini che organizzarono lo sciopero del 1944. Abbiamo sentito come non fossero isolati. I carabinieri, i giovani marinai alla fine capivano qual era la parte giusta.
Due documenti della Prefettura senza data – ma dei giorni immediatamente successivi – senza intestazione e senza firma custoditi nell’Archivio di Stato della Spezia spiegano quanto accadde: i lavoratori fermati e tradotti in carcere furono 23, quelli arrestati e “messi a disposizione del comando germanico” furono 15[35]. Tre furono rilasciati, 12 deportati a Mauthausen. Solo in tre riuscirono a tornare: Dora Fidolfi dello Jutificio, Ioriche Natali dell’OTO Melara, Mario Pistelli del Muggiano.
Questi i nomi dei caduti: Oreste Buzzolino (Bargiacchi), Michele Castagnaro (OTO Melara), Armando Cialdini (Muggiano), Umberto Colotto (Muggiano), Filippo Dondoglio (Muggiano), Elvira Fidolfi (Jutificio), Pietro Milone (OTO Melara), Giuseppe Sanvenero (OTO Melara), Giuseppe Tonelli (Muggiano).
Ora Natali riprende la parola. Quelli che leggerò sono brani del testo intitolato I quindici mesi a Mauthausen-Gusen di dieci compagni di La Spezia, che i familiari hanno messo a disposizione di una mia ricerca. Fu scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno alla Spezia.
Il racconto descrive il lungo calvario: il carcere a Villa Andreini, poi a Marassi, a Fossoli, a Bergamo. Poi a Mauthausen:
“Alle quattro del mattino del giorno 8 aprile arrivammo a destinazione.
Nel buio della notte spiccarono dei bagliori di viva luce sulla collina e ai nostri occhi, nel loro stile gotico, apparvero le alte mura del famigerato campo. Spogliati di tutto, dopo avere assistito al primo caso di inumana barbarie: un uomo per futili motivi di incomprensione di lingua venne percosso a sangue e fatto dilaniare da un feroce cane lupo, fummo portati al bagno dove feroci aguzzini in veste di barbieri fecero scempio delle nostre carni, nel depilarci in ogni parte del corpo.
Con sola camicia e mutande, con zoccoli a piedi nudi, dovemmo vivere per ben tre giorni soffrendo per il freddo ancora intenso.
Trasporto di pietre, di carbone, scavare fosse, sempre con la minaccia del bastone sulle nostre teste, per la prima prova di quel calvario durato quindici mesi.
Ventun giorni passammo a Mauthausen, tra sevizie di tutte le specie: dal dormire in cinque persone su un pagliericcio largo settanta centimetri, a dover ingoiare la magra zuppa di rape, bevendola per mancanza di cucchiaio, a doverci pulire l’ano con le mani, asciugarci la faccia al mattino con la camicia, a subire ogni giorno la mortificante verifica dei pidocchi, ed essere percossi per un non nulla.
In questo periodo di Mauthausen avemmo le prime vittime, un uomo morì tra spasimi atroci, altri morirono per infezioni, altri ancora vennero ricoverati nell’infermeria, dove con mezzi inumani venivano eliminati”[36].
Il testo prosegue con il racconto, di grande intensità narrativa, dell’arrivo al sottocampo di Gusen, dove Ioriche sopravvisse per quattordici mesi, nel corso dei quali assistette impotente alla morte spaventosa di quasi tutti i suoi compagni.
In un altro testo inedito, anch’esso di grande intensità narrativa – una sorta di “diario” a posteriori del periodo che va dal primo marzo all’8 aprile 1944 – un altro sopravvissuto, Mario Pistelli, racconta lo sciopero al Muggiano, “clandestinamente preparato da un Comitato di agitazione […] di cui era responsabile l’indimenticabile compagno Giuseppe Tonelli”[37], e in ogni dettaglio l’arresto e il trattamento ricevuto nella caserma Fiastri sede della Xª Mas. Anche questo testo, scritto alla fine degli anni Quaranta, è stato messo a disposizione dai familiari per una mia ricerca:
“Per cinque giornate e altrettante notti io e Tonelli fummo sottoposti a estenuanti interrogatori fatti con pugni e calci e non ottenendo alcun risultato passarono alle torture, con spille ficcate nelle unghie delle mani e dei piedi; il cerchio che stringe la testa finché sembra che scoppi e anche con il fuoco sotto i piedi”[38].
Tonelli e Pistelli furono condannati a morte tramite fucilazione, ma poi portati insieme agli altri nel carcere della Spezia, quindi in quello di Genova, poi nel campo di Fossoli e infine a Bergamo per il viaggio in treno verso la Germania. Tonelli riuscì a prendere contatti con il CLN di Bergamo per un attacco partigiano al treno, ma purtroppo l’azione non andò a buon fine. Il diario di Pistelli si conclude così:
“Nella mattina dell’8 aprile, vigilia di Pasqua, arrivammo al famigerato campo di Mauthausen e a toglierci ogni illusione, appena varcata la soglia del campo, vedemmo per anteprima un deportato russo vestito a zebre, impiccato alla porta del Lager e la brezza mattutina lo dondolava dolcemente”[39].
Così Natali, nel testo citato, ricordava Giuseppe Tonelli:
“In questo triste periodo di permanenza a Gusen la figura di Tonelli Giuseppe di Carrara fu grande per la sua viva fede, per un largo contributo dato all’organizzazione clandestina del PCI, per la sua instancabile propaganda di unione proletaria della massa Italiana del campo. Fu anche il promotore di un’associazione a carattere mutualista comprendente tutti gli italiani, contribuendo con la sua tenacia di organizzatore, con il suo amore per il prossimo, ad alleviare molti dolori sia fisici che morali. Il Tonelli, che tutti i compagni stimavano ed amavano, decedeva il primo maggio 1945 all’infermeria di Gusen, per sfinimento fisico che provocò la inesorabile dissenteria, terrore di tutti i prigionieri[40].
La fine dello sciopero fu decisa la mattina del 3 marzo. “Lo sciopero generale è stato un’affermazione e una vittoria dei lavoratori italiani”, recitava il comunicato rivolto alla cittadinanza dal Comitato segreto di agitazione in quella stessa mattina[41].
Il colpo che i nazisti e fascisti avevano subito era davvero pesante. La repressione antioperaia era stata drammatica: ma quella classe che resisteva aveva ormai assunto, nella società e nella politica italiane, una funzione “nazionale”.
La protesta operaia presenta sulla scena gli attori di una nuova generazione operaia – di lì a poco i protagonisti della Resistenza – e delinea i valori della centralità del lavoro e la funzione positiva del conflitto sociale.
Il lavoro umano si propone come fondamento della realizzazione di sé.
Il conflitto sociale si propone come lo strumento principale per difendere il lavoro umano e affermarne la centralità.
Se leggiamo i documenti del CLN e dei partiti antifascisti nati o rinati nella Resistenza cogliamo la centralità di questi valori, che sono poi i valori della Costituzione.
Lo sciopero fu una grande vittoria politica ma anche una sconfitta. Gli operai erano rimasti senza difesa. Ora bisognava passare alla lotta armata. Che era iniziata, ma doveva trovare pieno sviluppo, nelle città e soprattutto in montagna. Occorreva continuare a scioperare, ma – come indicò il Partito comunista – “ lo sciopero pacifico, l’ammonimento, per quanto solenne e possente, è sempre meno inteso; non basta più incrociare le braccia; bisogna passare a forme superiori di lotta”[42].
Nelle montagne attorno alla Spezia la lotta armata fece un salto di qualità a partire dal marzo 1944. Anche grazie agli operai che salirono ai monti. I “miti fondativi” sono due: l’assalto al treno di Valmozzola – con il successivo eccidio dei ragazzi del Monte Barca – e la battaglia del Lago Santo.
A me spetta raccontare l’assalto al treno di Valmozzola con testimonianze inedite. L’assalto fu compiuto dalla banda “Betti”.
La banda era nata nella Val di Taro spontaneamente, senza un legame con i partiti e con il CLN parmense, che pure furono subito attivi nella zona dopo l’8 settembre 1943 grazie all’impegno dei comunisti e dei cattolici. Giovani antifascisti si erano riuniti attorno alla figura di Mario Devoti “Betti”, caporalmaggiore piacentino, disertore. E’ merito di Attilio Ubaldi avere indagato e scoperto, in un libro uscito nel 2004, chi fosse veramente “Betti”: carattere difficile, disavventure giudiziarie in gioventù, un decennio di vita di espedienti, un antifascismo sincero… Che forse fu un’occasione di riscatto personale.
Anche la Resistenza all’inizio fu un fenomeno spontaneo, esistenziale, su cui si innestò la Resistenza politica.
Alla fine del febbraio 1944 la banda entrò in contatto – grazie ad Aldo Galazzo, tecnico dell’Arsenale spezzino legato ai comunisti, la cui famiglia era sfollata in Val di Taro – con il CLN della Spezia, che incominciò a inviare armi e uomini, esponenti in primo luogo del Partito comunista. Tra questi il sarzanese Paolino Ranieri “Andrea”, che fu nominato commissario politico. A capo della banda rimase “Betti”, che fu affiancato come vicecomandante da un altro spezzino, il santostefanese Primo Battistini “Tullio”. Tra gli spezzini c’erano, tra gli altri, Mario Portonato “Claudio”, migliarinese, Ezio Bassano “Romualdo”, arcolano, Enrico Valerio, santostefanese, Giuseppe Podestà, sarzanese.
Il gruppo diventò di una sessantina di partigiani: spezzini, ma anche studenti e contadini della zona.
Farò riferimento alla testimonianza inedita di “Tullio”, scritta negli anni Settanta. Anche questa testimonianza – che riguarda tutta la vicenda resistenziale – mi è stata messa a disposizione dalla famiglia per una mia ricerca.
Leggiamone alcuni brani. Appena arrivato, “Betti” gli propose il comando dei Gruppi d’Assalto, che “Tullio” inizialmente non voleva accettare. Poi “Betti” lo mise subito alla prova facendogli dirigere un’azione:
“Mi comunicò quindi che avrei dovuto dare l’assalto e svuotare l’ammasso delle Guardie Forestali di Mormorola (paesino nel quale era la sede comunale di Vaalmozzola). […] Fummo guidati da una persona di Valmozzola, non conoscendo io le strade.
L’azione si svolse fulminea e senza grandi difficoltà.
Tutta la roba catturata fu fatta trainare sulle slitte dei contadini in ogni villaggio, ove, giorno per giorno, la farina fu fatta panificare, assicurando così al movimento partigiano ogni giorno il pane. Una parte restò, come compenso, ai contadini che l’avevano trasportata, custodita o panificata: la popolazione tutta era in sostanza al nostro servizio; solo una piccolissima minoranza ci era ostile, ma doveva far buon viso a cattiva sorte, trovandosi in zona controllata da noi.
[…] si fecero le elezioni per nominare il Comandante dei Gruppi d’Assalto. Su 92 votanti ottenni 90 voti (due si astennero).
Da allora comandai i Gruppi d’Assalto. Betti mi indicava le azioni da compiere.
Un giorno mi trovavo di pattuglia a Branzone, sulla destra del fiume Taro, di fronte a Roccamurata. ‘Patata’ [un alpino bergamasco della banda, NdA ] venne ad avvertirmi che il mattino dopo, con il treno delle ore 10, sarebbero stati trasferiti a Parma, per essere fucilati, tre giovani catturati dai fascisti a Roccamurata.
Credetti di non dover attendere ordini da Betti. Decisi di dare subito l’assalto al presidio di Roccamurata, dove i tre giovani erano tenuti prigionieri. Con l’acqua alla cintola, a fuoco aperto, attraversammo il Taro e assalimmo il presidio. Un milite rimase ucciso, mentre gli altri riuscivano a fuggire dal di dietro dello stabile. Penetrati nel presidio, c’impadronimmo di tutto il materiale, consistente in armi, munizioni e viveri; ma i tre prigionieri erano già stati trasferiti a Borgotaro, da dove il mattino dopo (12 marzo 1944) sarebbero stati tradotti a Parma.
Nessuno dei miei uomini era rimasto ferito. Il mio colbacco era stato sfiorato da una pallottola.
Tornato a Mariano, incontrai Paolino Ranieri ‘Andrea’ e Podestà Giuseppe ‘Giandò’, che si congratularono con me per le mie continue azioni [Podestà era arrivato con Ranieri, NdA].
Andai a riferire a Betti sull’esito dell’azione. Gli spiegai che mi ero preso la responsabilità di decidere l’attacco per liberare i tre uomini. Aggiunsi che, al punto in cui stavano le cose, non restava che l’assalto al treno. Mi rispose che era impossibile, poiché della novantina di uomini in forza al nostro gruppo, solo una trentina erano in possesso di armi automatiche; gli altri erano pressoché disarmati. Gli risposi che trenta uomini erano più che sufficienti, al resto avrebbe contribuito il fattore sorpresa. Betti rimase in un primo momento pensieroso ed incerto, poi convenne sul da farsi. Decise di dare il comando dell’azione a me; lui sarebbe stato presente esclusivamente come osservatore (voleva rendersi conto personalmente e direttamente circa le mie capacità di Comandante). Nella notte ebbi modo di constatare la sua incertezza e titubanza circa l’esito dell’azione: non faceva che portarsi dalla sua stanza alla mia (dove io dormivo appoggiato a una sedia) per chiedere sempre chiarimenti o consigli. Durante una delle sue uscite gli esposi il mio piano. Per non allarmare gli uomini avrei annunciato che si sarebbe andati a vuotare l’ammasso della stazione ferroviaria di Valmozzola, ma che la vicinanza dei tedeschi imponeva di farlo armati di tutto punto. Quindi avrei chiesto chi volesse partecipare all’azione. Ai due emissari del CLN spezzino (‘Andrea’ e ‘Giandò’) non doveva essere assolutamente detto nulla per evitare ogni qualsiasi opposizione da parte loro.
Un’ora prima di alzarci Betti venne nuovamente da me e mi confermò la sua volontà di partecipare all’azione (al momento di partire si maschererà con un passamontagna ed un paio di baffi finti).
[…] Ci mettemmo in cammino e ci fermammo soltanto quando giungemmo a dieci minuti dalla stazione ferroviaria di Valmozzola. Lì svelai il vero obiettivo e spiegai il piano d’assalto. Ad ognuno fu affidato un compito. ‘Ballaben’ e Squassoni di Bardi sarebbero venuti con me sul treno, una squadra avrebbe immobilizzato il personale, una squadra avrebbe tagliato le comunicazioni, un’altra avrebbe accerchiato il treno ed un’altra provveduto al bottino.
Quando giungemmo alla stazione il treno era già in sosta, con i vetri appannati. Non si capiva, a prima vista, in quale vettura si trovassero i tre prigionieri.
[…] Non c’era tempo da perdere.
Come urlai ‘Forze armate a terra!’, due ufficiali della X Mas risposero con un fuoco infernale e prolungato, lanciando anche bombe anticarro.
Io mi trovavo vicino al magazzino, al fianco di Betti, e gridai ai miei uomini di diradare il fuoco in attesa che i fascisti consumassero le munizioni. Vidi Betti che stava sporgendosi in avanti, ma non avevo ancora finito di dirgli di tirarsi indietro, che una bomba lo colse in pieno, uccidendolo sul colpo.
Il fuoco accanito dei fascisti continuò ancora per poco poi cessò; avevano esaurito le munizioni.
Saltammo sul treno, le cui porte erano ormai distrutte, alla ricerca dei prigionieri.
Un sergente della milizia ferroviaria riprese a sparare. Mi abbassai per non essere colpito e per rispondere al fuoco. In un primo momento il mitra mi si inceppò, poi con una raffica gli tagliai di netto una mano. Gli fui sopra ma stranamente non aveva più la pistola; eventualmente l’aveva gettata da un finestrino. Mi fu poi riferito che tale sergente approfittava delle donne che salivano o scendevano dal treno per requisire loro grano, farina, olio e uova. Finalmente trovai la vettura e i carabinieri con i tre detenuti. Uno dei carabinieri, considerato elemento molto pericoloso e sadico anche per dichiarazione dei detenuti, fu subito giustiziato; l’altro, che li aveva trattati invece con molta umanità, fu condotto via con noi e quindi lasciato libero di decidere se rimanere o tornarsene a casa.
Un sergente della X Mas cercò di indossare abiti borghesi per sfuggire alla cattura; sorpreso in tale frangente fu subito ucciso. Intanto i due tenenti della X Mas tentavano di fuggire, ma rimasero feriti. Un appuntato dei carabinieri che, sdraiato a terra, tra il magazzino ed i gabinetti della stazione, stava tentando di togliere la linguetta ad una bomba a mano per lanciarla contro di noi, venne ucciso da me, che stavo scendendo dal treno, con una raffica di mitra.
Restarono sul terreno, alla fine, otto morti avversari. Quaranta furono i prigionieri, tra carabinieri, militi ferroviari, elementi della X Mas, tedeschi e militari di ogni specialità.
Due dei tedeschi chiederanno, ed otterranno, di rimanere con me.
Uno dei nostri, residente a Luni, che aveva la fidanzata a Valmozzola, rimase ferito alla gola [Efisio Piria, sardo sbandato dopo l’8 settembre, NdA].
Nello stesso treno, in un vagone, incontrai il mio compaesano Montani, che qualche mese dopo si arruolerà col nome di “Garibà” nella formazione da me comandata a Ponzano Superiore; gli raccomandai di recarsi a casa dei miei a salutarli.
Feci ripartire il treno.
Non potemmo purtroppo recuperare il corpo di Mario Betti perché si temeva che da un momento all’altro arrivasse qualche treno.
Compiuta l’azione e tornati alla base, con i 40 prigionieri, trovammo Paolino Ranieri molto inquieto e incerto sul da farsi”[43].
Poi “Tullio” spiega la decisione del trasferimento del gruppo. Quindi si sofferma sui prigionieri:
“Dei quaranta prigionieri ne avevamo trattenuti a Mariano soltanto nove, i più pericolosi. Gli altri li avevamo liberati. Mi dovetti recare a Mormorola. Quando rientrai a Mariano trovai che ai nove rimasti erano state tolte le scarpe: dei nove, giudicati molto pericolosi e colpevoli di vari atti contro antifascisti e condannati alla pena capitale, facevano parte due sergenti della milizia, massesi, il sergente da me ferito alla mano ed altri, quasi tutti massesi o carrarini.
Parlai agli uomini rimasti con me, dicendo loro che occorreva giustiziarli senza informarli preventivamente, per rendere meno dure le ultime ore. Quindi restituissero ai prigionieri le scarpe. Dopo averli giustiziati,avremmo tolto loro ogni cosa che ci tornasse utile. Mi recai quindi dai nove prigionieri, feci loro restituire le scarpe e, secondo quanto convenuto con i miei uomini, annunciai loro che da quel momento, per amore e per forza, dovevano considerarsi arruolati nelle forze della Resistenza ma che, però non potevano restare in quel luogo. Li avremmo quindi condotti in un altro luogo, dove avrebbero fatto parte di un distaccamento.
Dopo aver mangiato, ordinai di partire. L’intesa nostra era di avviarli nella Val Tiedoli, anche per far credere ai nazifascisti che noi ci trovassimo lungo il fiume Taro. Ad un certo punto, arrivati vicino al Taro, mi rivolsi ai nove, dicendo loro che da quel momento dovevano proseguire la strada da soli. Li invitai a salutarci col pugno chiuso e gridando ‘Viva il Comunismo e i partigiani!’. Mentre ci salutavano in tal modo, senza che avessero modo di accorgersene, furono uccisi.
A causa dell’assalto al treno e del successivo rastrellamento non dormivo da quattro o cinque giorni.
Nevicava.
Tutti eravamo sfiniti per il sonno e le fatiche”[44].
Qui c’è tutto “Tullio”: radicale, coraggioso, passionale, violento. Non sappiamo se c’è tutta la verità. C’è sicuramente la data giusta, il 12 marzo. Nel monumento a Valmozzola la data è il 13, come in alcuni libri. Nel nostro invito c’è il 13: in un invito ufficiale si rispettano i monumenti. Ma la Gazzetta di Parma del 14 marzo e del 18 marzo 1944[45] e il Notiziario della GNR del 14 marzo 1944[46] scrivono di domenica 12. Come “Tullio”.
Se non c’è tutta la verità c’è quasi tutta, perché c’è concordanza sostanziale con le testimonianze locali raccolte da Giacomo Vietti e Attilio Ubaldi nei loro libri e con la testimonianza scritta di don Bruno Terzoni, parroco di Mariano. Sullo svolgimento dei fatti, sostanzialmente, e sulla data.
C’è concordanza sostanziale anche con un altro testo inedito: la relazione del 14 marzo 1944 di Paolino Ranieri al PCI, che conferma anche la data del 12. Ranieri nell’intervista al Museo della Resistenza di Fosdinovo, molto successiva, disse che la banda non sapeva che sul treno ci fossero i prigionieri. Ma le testimonianze del tempo, invece, su questo punto concordano. Il 14 marzo 1944 Ranieri conferma di non essere stato presente all’azione, che non gli fu preannunciata da “Betti”. Si differenzia da “Tullio” sul punto dei prigionieri uccisi: ci fu una sorta di processo, una decisione unanime, attuata nella notte:
“Decidemmo di tenerli con noi […] Per gli altri sei all’unanimità decidemmo la condanna a morte: fu eseguita la notte stessa con giustizia e lealtà”[47].
Leggiamo alcune frasi del passo finale della relazione, dedicato a “Betti”:
“Betti non era l’uomo adatto per affidargli degli uomini. Betti era uno di quegli uomini che la decisione e l’audacia nessuno poteva contestargliela. Ma Betti non aveva le altre qualità che occorrono a un nostro comandante, e che non possono assolutamente disgiungersi dal coraggio. Esso non conosceva, o non si interessava di conoscere, le più elementari regole di tattica e di strategia. […] Non si interessava di sapere fino a qual punto possono arrivare le capacità fisiche di un giovane. […] Nei suoi modi era prettamente borghese. Schiaffeggiava e minacciava continuamente con al pistola i compagni. Alle azioni dava carattere di banditismo, faceva dipingere di nero le facce ai giovani, faceva metter loro barbe e baffi finti, nel bottino feceva comprendere anche biancheria e posate. Quello che più mi meravigliò fu il fatto che al ritorno da un’azione diede ad ogni partecipante 50 lire ciascuno come se si trattasse di mercenari. […] Mi raccomando il Comitato di essere più accorto”[48].
In questa storia c’è tutto il tumultuoso percorso della Resistenza, che all’inizio ha esperienze eccentriche, carismatiche, libertarie… che sempre più mal si concilieranno con le esigenze di disciplina di un esercito, anche se spesso sono esperienze molto morali, molto basate sull’indignazione contro l’ordine sociale. Viene in mente la grande letteratura sulla Resistenza: Fenoglio, Calvino, Revelli, Meneghello… Non servono storie canoniche, serve andare in cerca di partigiani in carne ed ossa, serve cogliere grandezza e miserie, per far capire meglio la grandezza. Certamente l’azione di Valmozzola fu un’azione che aprì una nuova fase, che scosse i dormienti, che fece epoca. Alla fine prevale certamente la grandezza.
Giorgio Pagano
[1] T. Mason, Resistenza non organizzata delle masse. Scioperi nell’Italia fascista e nella Germania nazionalsocialista, «Archivio Trentino di Storia Contemporanea», 1991, 3, pp. 52-53. La parola in corsivo è nel testo originario.
[2] Per il Cantiere Navale Muggiano si veda la Memoria di M. Pistelli 25 luglio 1943 alla Spezia, Istituto storico della Resistenza, La Spezia 1973; per l’OTO Melara si veda la Memoria di D. Bertone, R. Garbati, F. Giannetti, O. Giovannelli, I. Natali, A. Spinosa, C. Storietti Dalla caduta del regime fascista allo sciopero insurrezionale del 1° marzo 1944. Stabilimento meccanico OTO Melara, Istituto storico della Resistenza, La Spezia 1974; per le Officine Motosi si vedano le Testimonianze (Luglio 1943) di F. Colombo, Istituto storico della Resistenza, La Spezia 1969.
[3] Legione territoriale Carabinieri reali di Genova, Tenenza de La Spezia, Segnalazione, primo agosto 1943, ASSP, Prefettura, Gabinetto, b. 100, fasc. 7.
[4] Regia Questura de La Spezia, Mattinale del giorno ventinove luglio 1943, 29 luglio 1943, ASSP, b. 100, fasc. 7.
[5] Nella Memoria citata i lavoratori dell’OTO Melara scrissero: “Il giorno 26, rientrati in fabbrica, gli operai presero immediatamente l’iniziativa, dirigendo l’azione di rivolta contro tutto ciò che rappresentava il fascismo, e tanta fu la spinta liberatrice che non solo venne distrutto tutto quanto poteva ricordare il peggiore fascismo, ma sentirono anche la necessità di indicare nuovi dirigenti di fabbrica». Franco Colombo, nel testo citato, scrisse: «26-7-1943, ore 10: Primo tentativo di sospensione del lavoro. Riuscito al 100% nelle Officine Motosi. Notizie contrastanti dalle altre fabbriche; palese confusione per la diversità dell’azione che si voleva portare a termine, da azienda a azienda. Decisione di rinviare tutto al 27, anche per avere una comune piattaforma rivendicativa, e una parola d’ordine comune”. In realtà, a causa dell’arrivo, nella notte tra il 26 e il 27 luglio, di un forte contingente di soldati, il rinvio fu al 29 luglio. Sugli avvenimenti del 26 luglio esistono testimonianze ma non documenti. Il primo sciopero documentato è quello del 28 luglio all’OTO Melara, cui seguì la manifestazione del 29: ad essa parteciparono molti lavoratori di quasi tutte le fabbriche, che non si presentarono al lavoro.
[6] Si vedano: Legione territoriale Carabinieri reali di Genova, Tenenza de La Spezia, Segnalazione, 28 luglio 1943, ASSP, Prefettura, Gabinetto, b. 100, fasc. 7; Regia Questura de La Spezia, Mattinale del giorno ventinove luglio 1943, 29 luglio 1943, ASSP, Prefettura, Gabinetto, b. 100, fasc. 7; la Memoria di D. Rotelli Lo sciopero del marzo 1944 alla Termomeccanica Italiana, Istituto storico della Resistenza, La Spezia 1974. Rotelli, erroneamente, anticipa entrambi gli episodi di un giorno.
[7] Si veda la Memoria di A. Cozzani, A. Isoppo, S. Montarese, M. Pistelli, G. Scaravella Sciopero del 1° marzo 1944 al Cantiere del Muggiano, Istituto storico della Resistenza, La Spezia 1974.
[8] Tt. del questore e del prefetto di La Spezia del 23 agosto, rispettivamente alle ore 13.10 e 17.10, ACS, AG. 1920-45, A5G, fasc. 214, s. fasc. 78 «La Spezia», b. 104.
[9] Comitato di officina, Prossimi licenziamenti negli stabilimenti OTO, s.d. ma dell’ottobre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, b. 165, ASSP.
[10] Relazione del Capo della Provincia n. 458, 15 gennaio 1943, ivi.
[11] Volantino firmato “Un gruppo di anarchici”, s. d. ma del gennaio 1944, ivi.
[12] Fonogramma della Legione territoriale dei Carabinieri di Genova, Tenenza di La Spezia, alla Prefettura di La Spezia, alla Questura di La Spezia, al Comando Gruppo Carabinieri e al Comando Compagnia Carabinieri di La Spezia, 18 dicembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Ordine pubblico, b. 84, ASSP
[13] Volantino del Comitato di agitazione di officina dell’OTO Melara, 23 dicembre 1943, ivi.
[14] Promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria al Capo della Provincia, 24 novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, b. 165, ASSP.
[15] Consiglio provinciale dell’economia, Novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Ordine pubblico, cit.
[16] Un manifesto del Gen. Zimmermann ai lavoratori di Genova, ivi.
[17] Promemoria della Corporazione fascista dei lavoratori dell’industria al Capo della Provincia, 20 novembre 1943, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[18] Anelito Barontini, Relazione politica generale per il Convegno sugli scioperi del marzo 1944 alla Spezia, in Mario Farina (a cura di), La Spezia Marzo 1944. Classe operaia e resistenza. Atti della conferenza “Scioperi del marzo 1944” tenuta nella sala del Consiglio Provinciale della Spezia il 1° marzo 1974, Istituto Storico della Resistenza, La Spezia, 1976, p. 40.
[19] Ivi, pp. 40-41.
[20] Volantino del Comitato di agitazione provinciale, s. d. ma del 7 gennaio 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[21] Materiali sullo sciopero di Spezia – gennaio 1944, Relazione di un membro del Com. Federale, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, Direzione Nord, La Spezia, 16 gennaio 1944-13 dicembre 1944, b. 25.
[22] Elezioni del 10-2-44 alla Oto Muggiano, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[23] Il Commissario dell’Unione Francesco Mannucci al Capo della Provincia, 16 febbraio 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[24] Relazione del rappresentante del PCI nel CLN della Spezia, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[25] Materiali sullo sciopero di Spezia – gennaio 1944, Relazione di un membro del Com. Federale, cit.
[26] Il 16 febbraio 1944 “Lorenzo” scriveva: “Al cantiere di Muggiano gli operai sono in agitazione per la posa di mine ad opera dei tedeschi. Una commissione è andata o andrà alla direzione dello stabilimento perché questa intervenga per impedire la minaccia che pesa sul cantiere”, in Testo dattiloscritto di sei pagine datato 16 febbraio 1944 firmato Lorenzo, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[27] Volantino del Comitato segreto di agitazione, primo marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[28] Memoria di Dario Bertone, Remo Garbati, Francesco Giannetti, Otello Giovannelli, Ioriche Natali, Artemio Spinosa, Cesare Storietti, Dalla caduta del regime fascista allo sciopero insurrezionale del 1° marzo 1944. Stabilimento meccanico OTO Melara, in Mario Farina (a cura di), La Spezia Marzo 1944. Classe operaia e resistenza. Atti della conferenza “Scioperi del marzo 1944” tenuta nella sala del Consiglio Provinciale della Spezia il 1° marzo 1974, cit., p. 68.
[29] P. F. R. Federazione Lunense La Spezia, Operai!, primo marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[30] I. Natali, Testimonianza, AILSREC, FG1 B. 1 F. 3.
[31] Ivi.
[32] Testimonianza inedita di Bruno Scattina, in archivio Vasco Sensoni.
[33] Prefettura di La Spezia, Franz Turchi ai lavoratori, 2 marzo 1944, ivi.
[34] Testo senza titolo e senza firma manoscritto su carta intestata Alfredo Rossi Roma, primo marzo 1944, Fondazione Gramsci, Archivi del Partito comunista italiano, cit.
[35] Prefettura di La Spezia, Elenchi dei fermati e degli arrestati in occasione dello sciopero del primo marzo 1944, s. d. ma del marzo 1944, ivi.
[36] Testo inedito di Ioriche Natali, I quindici mesi a Mauthausen-Gusen di dieci compagni di La Spezia, archivio famiglia Natali, pp. 2-3. Il testo – anch’esso messo a disposizione di una mia ricerca dai familiari – fu scritto negli anni immediatamente successivi al ritorno alla Spezia.
[37] Testo inedito senza titolo di Mario Pistelli, archivio famiglia Pistelli, p. 1. Il diario – che i familiari hanno messo a disposizione di una mia ricerca – fu scritto alla fine degli anni Quaranta.
[38] Ivi, pp. 2-3.
[39] Ivi, p. 4.
[40] Testo inedito di Ioriche Natali, I quindici mesi a Mauthausen-Gusen di dieci compagni di La Spezia, cit.
[41] Volantino del Comitato segreto di agitazione di La Spezia, 3 marzo 1944, Prefettura di La Spezia, Gabinetto, Occupazione germanica: industrie, cit.
[42] Dichiarazione del Partito comunista italiano, «La Nostra Lotta», marzo 1944, n. 5-6.
[43] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, manoscritto inedito, pp. 22-26.
[44] Ivi, pp. 26-27.
[45] Feroce attacco di banditi ad un convoglio ferroviario – 10 viaggiatori sono stati assassinati e quattro feriti – Misure in atto contro gli assalitori, «La Gazzetta di Parma», 14 marzo 1944; Fulminea azione della ‘X’ contro i partigiani in Val di Taro. Diciannove responsabili dell’aggressione al treno pagano con la vita il loro misfatto, «La Gazzetta di Parma», 18 marzo 1944.
[46] Notiziario della GNR, Parma, 14 marzo 1944. I notiziari sono conservati alla Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia e consultabili on-line all’indirizzo www.musil.bs.it/web/patrimonio/Documentazione/Archivio/Notiziari/.
[47]Rapporto di Andrea a “cari compagni”, 14 marzo 1944, Fondazione Gramsci, Brigate Garibaldi, Emilia Romagna, G.IV. 2.2.
[48] Ivi.
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