Fascismo ed antifascismo nel ventennio alla Spezia – Relazione di Giorgio Pagano
Fascismo ed antifascismo nel ventennio alla Spezia
Università di Pisa, Dipartimento Civiltà e Forme del Sapere 4 dicembre 2023
Relazione di Giorgio Pagano
Il colpo di Stato del 28 ottobre 1922 non fu un fulmine a ciel sereno, ma un “golpe” strisciante, dispiegato per molti mesi in una lunga e continua azione violenta e sopraffattrice, via via accettata da una cultura autoritaria sempre più condivisa. Le premesse furono già poste nell’immediato dopoguerra, quando negli ambienti nazionalisti e militari si iniziò a ipotizzare progetti di colpo di Stato per rovesciare il sistema parlamentare e impedire l’avanzata del movimento operaio.
La storia della Spezia è davvero emblematica: una larvata dittatura militare fu anticipata proprio in questa città, piazzaforte militare, già durante la Grande Guerra, quando il Consiglio comunale fu sciolto per tre anni e il comandante in capo della Marina ebbe tutti i poteri. La regia fu di quelle stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo: un’alleanza tra l’industria legata alle produzioni belliche e le gerarchie militari che costituisce l’elemento di fondo per capire le vicende successive.
L’unione dei reazionari si realizzò attorno al quotidiano “Il Tirreno”, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919. Il giornale, in un editoriale del 13 aprile 1920, invocò apertamente la dittatura militare: “Ed ecco lanciata la grande parola. Un generale! È la dittatura militare. […] A mali estremi, rimedi estremi. Oggi ogni dottrina, ogni ragione di parte cessa davanti alla necessità della salvezza comune”. Il 13 maggio 1920 si ricostituì il Fascio, i cui massimi dirigenti erano esponenti della borghesia, della Marina, dell’Esercito. Il connubio era sempre più evidente.
Da allora fu un crescendo continuo della violenza squadrista: uccisioni, aggressioni, assalti e distruzioni di sedi politiche, sindacali, istituzionali. Ha ragione Agostino Giovagnoli: “Si stenta a credere che tutto ciò non abbia provocato normali interventi di ordine pubblico o reazioni straordinarie da parte dello Stato e che abbia potuto contare sulla passività o sulla complicità di grandissima parte della classe dirigente. In nessun altro periodo della storia italiana è avvenuto qualcosa di simile”. La scelta di Mussolini di organizzare la marcia fu figlia anche della constatazione che più la furia squadrista avanzava più lo Stato –prefetti, questori, magistrati – arretrava.
La capitolazione ebbe il suo epilogo con la marcia su Roma. Il governo Facta scrisse inutili circolari a prefetti e questori perché difendessero la libertà. Ma fu una sorta di disarmo unilaterale. Il ministro della Giustizia Giulio Alessio, un liberale antifascista integerrimo, quando predispose un decreto legge per contrastare lo squadrismo e consentire l’arresto per i capi di bande militari private, si trovò isolato nel governo, che bocciò il provvedimento. Nella classe dirigente liberale prevalse la tesi di Giovanni Giolitti: “Non si può dimenticare che il fascismo esiste”. Ma in questo modo la lotta politica non era più su un piano di parità, perché si legittimava il fascismo che esisteva come partito armato violento, a differenza di ogni altro: le regole base dello Stato liberale venivano palesemente negate.
Il memoriale dell’ammiraglio Vittorio Tur, alto ufficiale di Marina alla Spezia, tratteggia un esempio perfetto di ciò che accadde esattamente secondo i desideri di Mussolini: una insurrezione sostanzialmente legalitaria, una vittoria politica – e financo parlamentare – sostanzialmente eversiva: “Quando il movimento fascista entrò nella fase definitiva la situazione si fece grave. I fascisti avevano occupato Poste e Telegrafi e altri Uffici pubblici. Alla ingiunzione del Comandante in Capo ed alle esortazioni del generale Coralli, nella riunione tenuta alla Croce di Malta, perché lasciassero le zone occupate, essi risposero decisamente ‘no’ e che i soldati avrebbero dovuto passare sul loro cadavere per prenderle. La situazione era realmente seria, tanto più seria in quanto essi volevano costituire pattuglie di ronda diurne e notturne con piena possibilità di agire contro chi essi ritenessero propagandista rosso. Dato l’ascendente del Comandante Tur sui fascisti e la stima che aveva per lui il Comandante in Capo, egli poté risolvere la questione ottenendo una combinazione di servizio misto di marinai e fascisti negli Uffici pubblici e altrettanto nelle pattuglie […]. Una sera l’ing. Civelli e l’ing. Miozzi dissero al Comandante Tur di andare subito con loro in macchina a Milano per informare esattamente Benito Mussolini sullo stato della Marina nei riguardi del fascismo e del movimento in atto. Ma il Comandante Tur, dato il momento, non poteva assolutamente lasciar La Spezia. Un nulla avrebbe potuto infatti far scoppiare la guerra civile. Egli consigliò però di riferire al Capo che se il Movimento era fatto salvaguardando la Monarchia, la Marina sarebbe stata certamente con Lui e fornì loro altre importanti notizie”.
Al sostegno delle gerarchie militari al fascismo si aggiunse, e spesso si intrecciò, quello della borghesia industriale e commerciale, che fu continuo, fin dall’inizio. Figure come Guido Bosero ed Elvidio Zancani, alla Spezia, ne furono il simbolo. Fu così dappertutto in provincia: a Sarzana il nucleo del PNF sorse dall’Associazione nazionale di rinnovamento, che radunava, sotto la guida dell’avvocato Paolo Bedini, la parte più reazionaria della borghesia. A Lerici il capo dei fascisti era il cittadino più facoltoso: l’ingegner Giovan Battista Bibolini, armatore, che fu deputato dal 1934 al 1943, quindi senatore, nonché presidente della provincia dal 1932 al 1935. A San Terenzo i capi erano Giulio Mantegazza, il “signore” del paese, e gli imprenditori Remigio Azzarini e Michele Piazza. Dal gennaio all’ottobre 1922 arrivarono al fascismo spezzino 47.300 lire, di cui oltre 30.000 provenienti da società.
Anche le istituzioni locali furono svuotate. Con gli assalti ai Municipi – il primo a Bologna il 21 novembre 1920 – e con la sostituzione dei vecchi amministratori locali, costretti alle dimissioni con la violenza, ma anche grazie al cedimento degli amministratori liberali.
Valga l’esempio del Sindaco della Spezia Ezio Pontremoli. I fascisti spezzini volevano sostituirlo, lui andò a Roma da Mussolini e lo omaggiò. Il sistema di potere locale lo appoggiò. Mussolini pure, tra le proteste dei fascisti spezzini. L’episodio segnò la tragica fine della classe dirigente liberale spezzina. La borghesia economica si schierò tutta con il fascismo, scontrandosi con lo squadrismo primigenio per la conquista del potere – e degli appalti legati all’industria militare. Non per caso, negli anni successivi, gli “industriali-squadristi” Bosero e Zancani furono espulsi dal PNF.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo alla marcia su Roma. Tra Stato liberale e regime fascista avvenne, il 28 ottobre 1922, un regolare “passaggio di consegne”. Il corteo aperto dalla banda della Marina suonò la “Marcia Reale” e “Giovinezza”.
La marcia su Roma fu dunque il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto Giulia Albanese “un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni”. Oggi possiamo sostenere che il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il suo carattere di governo di coalizione. La sanzione statale e la connivenza dei liberali non salvò né lo Stato né i liberali ma segnò l’avvento di una nuova era contrassegnata dallo squadrismo. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma: Mussolini lo portò nella milizia e nei sindacati, smantellò lo Stato liberale e lo invase con le squadre. Lo squadrismo continuò a vivere nelle spedizioni coloniali in Africa, nella partecipazione fascista alla guerra di Spagna, nelle brigate nere contro i partigiani.
Il 1923 fu un anno terribile: quello in cui si distrugge l’opposizione dove resiste di più. Oltre cento furono i morti nel 1923, tra cui 19 spezzini: una rappresaglia feroce, furiosa dopo l’assassinio, nella notte del 21 gennaio, del fascista Giovanni Lubrani da parte non di comunisti ma di fascisti. Il primo articolo dell’inchiesta dell’”Avanti!” del 1924 cominciava così: “Può darsi che altre città italiane siano state percosse da terrore pari a quello di Spezia, crediamo però che nessuna l’abbia superata. […] Occorreva […] piegare quella che era una delle città più rosse d’Italia: occorreva il terrore. E la reazione inferocì brutale, violenta”.
Seguì il grande flusso migratorio degli antifascisti: comunisti, socialisti, anarchici. Soprattutto operai. L’antifascismo alla Spezia era stato e sarà in seguito innanzitutto operaio, proletario, di classe. Nel “biennio rosso” (1919-1920) era emersa una classe operaia con una diffusa coscienza di sé e del proprio ruolo. Gli operai non si sentivano più solo salariati ma anche classe dirigente produttiva. Ma i partiti della sinistra, palesemente inadeguati, non rispecchiavano questa maturazione. La spontaneità operaia e la spinta dal basso non incontrarono l’organizzazione politica, per i limiti – diversi tra loro – di tutte le componenti: i socialisti riformisti, i socialisti massimalisti, gli anarchici, i comunisti, nati nel 1921. Nel 1919 erano nati i popolari, in una prima fase troppo accondiscendenti verso i fascisti.
Il 24 maggio 1923 arrivò alla Spezia Vittorio Emanuele III a sancire la “pacificazione”, all’insegna del connubio tra vecchie caste borghesi e militari e fascisti parvenus (ma l’equilibrio fu sempre precario: come accennato, gli squadristi dell’inizio furono eliminati).
La resistenza della classe operaia fu strenua: i risultati delle elezioni dell’aprile 1924, in una situazione ormai “fascistizzata”, lo dimostrano. I fascisti in Liguria ebbero il 52,4%.
Dopo l’assassinio del segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti, il 10 giugno 1924, parve per un momento che Mussolini entrasse in difficoltà. Il 27 giugno scioperarono anche gli operai spezzini dell’Ansaldo Muggiano e della Vickers Terni. Al Muggiano i giovani scaldachiodi e ribattitori protestavano anche contro le condizioni bestiali di lavoro. Fu l’ultimo sciopero della classe operaia spezzina durante gli anni Venti (ci fu, come vedremo, una piccola eccezione nel 1927). Erano masse ormai mutilate, private dei dirigenti politici e sindacali: oggi possiamo coglierne tutto l’eroismo. Gli scioperanti furono tutti licenziati e poi parzialmente riassunti con il criterio della discriminazione.
L’opposizione si mosse ancora una volta divisa, come già nel 1921-1923. Il discorso di Matteotti in Parlamento contro le elezioni-truffa era rivolto non solo contro Mussolini ma anche contro i collaborazionisti dentro il suo partito. Matteotti era infatti sostanzialmente solo anche all’interno del PSU, di cui non mancava di denunciare le viltà, l’incapacità, i tradimenti, la sotterranea volontà di accasarsi al governo con i fascisti. Egli viceversa, avendo ben conosciuto il fascismo fin dalle sue origini nelle campagne padane, non cessava di gridare contro il pericolo rappresentato dal regime che stava nascendo, incitando il suo partito all’opposizione.
L’estrema debolezza dell’opposizione dopo l’assassinio di Matteotti segnò la sua definitiva condanna a morte.
Si diede vita allo Stato totalitario: la soppressione di tutte le libertà. Un regime con a capo il Duce: era il dio, e la radio era il suo profeta. Cominciò il rapporto diretto capo-popolo. Il ventennio è anche la storia del rapporto tra Mussolini e la piazza.
Il regime autoritario di massa opprime e coinvolge. Fino alla cancellazione della coscienza individuale.
Ma c’è sempre chi resiste. I primi due confinati spezzini furono Osvaldo Prosperi e Carlo Tapparo, nel 1926. Due intellettuali. Li seguirono, negli anni successivi, tanti operai, ma anche artigiani e intellettuali.
Gli anni dal 1922 al 1929 furono caratterizzati dalla favorevole congiuntura economica europea e americana. Il fascismo ne fu agevolato, grazie all’aumento della produzione e dell’occupazione. Ma la politica sociale del fascismo fu sempre antioperaia, all’insegna dei bassi salari: si pensi alla svalutazione della lira (1925-1926) e al prezzo pagato proprio dagli operai. Ma ci fu un ritrovato benessere borghese. La piccola e media borghesia era al centro della politica fascista. Volgarità e corruzione regnavano padrone.
Lo zenit del consenso ci fu nel 1929. Poi iniziò la grande crisi economica mondiale. Anche in Italia si reagì con un più forte ruolo dello Stato: ma “privatizzato”, esposto cioè alle pressioni dei gruppi economici più forti e influenti e ad essi infeudato. Come alla Spezia.
La guerra in Etiopia nel 1935 – l’ultima impresa coloniale della storia contemporanea – comportò un ritorno di popolarità.
Poi l’entrata in guerra nel 1940 – e l’impopolarità tedesca nel nostro popolo – segnò l’inizio della fine.
L’opposizione era costituita da operai, da intellettuali e anche da forze che per tutta una fase avevano appoggiato il fascismo.
Perché il fascismo aveva vinto? Era questa la domanda chiave da cui doveva partire l’opposizione. Secondo l’intellettuale Benedetto Croce, la figura internazionalmente più nota dell’antifascismo, il fascismo era irrazionalità, follia: la sua “Storia d’Italia” si arrestava al 1915, la salvezza del Paese consisteva nel ritorno ai valori dello Stato liberale. Ma per i giovani come Piero Gobetti o Carlo Rosselli la classe dirigente liberale aveva propiziato la nascita del fascismo: l’Italia postfascista avrebbe dovuto essere radicalmente diversa da quella prefascista. Da queste idee nacque il movimento Giustizia e Libertà, la cui ideologia era il socialismo libertario. Nell’opposizione ebbero un ruolo crescente i comunisti, che si gettarono con grande forza e passione nella lotta antifascista, superando, grazie ad Antonio Gramsci e a Palmiro Togliatti, il settarismo iniziale. Furono gli unici, nell’illegalità, a mantenere in piedi una rete organizzativa.
Nel 1934 fu stipulata l’unità d’azione tra PCI e PSI, nel frattempo riunificato. La partecipazione dell’antifascismo italiano alla guerra civile spagnola fu straordinaria: 5 mila volontari internazionali combatterono per la libertà della Spagna. Tra essi molti spezzini. Fu la stagione più bella dell’antifascismo italiano, prima della Resistenza.
La vita del PCI era segnata dalla riorganizzazione e dagli arresti: un ciclo continuo. La Spezia, Sarzana, Arcola, Lerici erano i centri più importanti del comunismo in provincia. La vicenda dei militanti comunisti in quegli anni fu una grande testimonianza di fede.
Gli operai e i comunisti tennero sempre viva la scintilla. Nel 1927 ci fu uno sciopero alle Fornaci Saudino di Sarzana contro il “prestito del littorio”, lanciato dal regime.
Un rapporto del 1931 così descriveva i comunisti spezzini: “Il lavoro fondamentale consiste in questo: un’intenza e continua propaganda spicciola, distribuzione della stampa quando arriva (sempre a mano se si tratta di opuscoli) a mano o per posta o lancio (poco), se si tratta di manifestini. In complesso al stampa è ben distribuita e si parla di essa. Inoltre si raccolgono soldi per le vittime ogni tanto […] la nostra organizzazione della Spezia è una organizzazione elementare che si è creata da sola, gli elementi più attivi e coscienti della classe operaia vi fanno parte […] credo si possa contare su 2-300 compagni”.
Nello stesso anno, il 20 luglio, il commissario straordinario del PNF spezzino, on. Luigi Begnotti, relazionava al prefetto circa la situazione trovata a Sarzana: “la popolazione è assente […] dalla assoluta freddezza riscontrata, si potrebbe anche dedurre che è ostile al fascismo”.
La relazione compilata dai carabinieri nel settembre 1931 era assai chiara: “I cittadini, veramente amanti dell’ordine e della pace […] si sono sempre più disinteressati dalle competizioni politiche, appartandosi e cedendo i posti direttivi a persone che, per la loro impreparazione e per la loro dubbia moralità, erano forse le meno adatte alla bisogna, hanno assistito quindi al succedersi di lotte intestine per la sfrenata sete di predominio politico, che talora si sono chiuse in cruenti conflitti, hanno visto consumarsi violenze, non giustificate da ragioni politiche, ma consigliate da risentimenti, odi e vendette puramente personali, ove non sono state provocate da motivi di interesse”.
Il 25 marzo 1932 gli operai dell’OTO Melara protestarono contro le modifiche peggiorative ai cottimi e gettarono via le tessere del fascio. Qualche giorno dopo le operaie dello jutificio si rifiutarono di entrare in fabbrica. I fascisti furono costretti ad accogliere parte delle richieste. Il primo maggio 1932 la bandiera rossa sventolò sull’antica torre di Arcola. Alla fine del maggio 1933 ci furono scioperi all’OTO e alla Cerpelli.
Al dispiegamento di forze seguirono nuovi arresti. Poi il consenso iniziale per l’Etiopia, ma subito dopo la partecipazione alla guerra di Spagna: voleva dire che la partita era sempre aperta.
Seguirono altri arresti. Alla fine del 1941 tutti i dirigenti del PCI erano al carcere o al confino. Ma già nel 1943 un nucleo si era ricostituito.
Non furono solo i comunisti a battersi. La Resistenza spezzina fu non a caso assai plurale: fu anche azionista, di “Giustizia e Libertà”, e cattolico-moderata.
I rapporti del vescovo Costantini con i fascisti non erano buoni. Così quelli delle famiglie cattoliche più in vista. Si può dire che con il Concordato del 1929 la Chiesa dà indubbiamente sostegno a Mussolini ma nel contempo prepara il personale politico destinato a succedergli.
Il tema del consenso al fascismo non può tuttavia essere eluso: il fascismo costruisce la menzogna pubblica, il fascismo estremizza la delega. La guerra in Etiopia segnò il punto di svolta. Dal 1938 il problema politico italiano diventò la Germania di Hitler. E, di fronte ad essa, la netta caduta della capacità di Mussolini e di tutta la classe dirigente di capire l’Italia. Il problema è che la guerra era dentro il fascismo, fin dalle sue origini.
Non si può non riflettere sull’indifferenza in Italia verso le leggi razziali (1938). E tuttavia dobbiamo cogliere come sia sempre stata in atto una resistenza alla fascistizzazione. Grazie al ruolo dell’opposizione e, a suo modo, a quello della Chiesa. Un ruolo importante lo ebbe anche la famiglia, macchina di isolamento dalla società e al tempo stesso di difesa solidale.
Ma decisiva fu la guerra. Il fascismo era sempre più odiato, anche da coloro che ci avevano creduto. La crescente contrarietà alla guerra si trasformava – con l’inasprirsi dei bombardamenti e della fame – in ostilità al regime. È di notevole interesse la lettura della posta censurata il 26 luglio 1943. Il Presidente della Commissione provinciale di censura, nella relazione al Comando supremo SIM, che allegava i testi delle lettere, scrisse: “Eccetto in poche lettere nelle quali si può intuire tuttavia un certo attaccamento al Partito, in moltissime altre si manifesta chiaramente e vivamente la grande gioia della popolazione derivante dalla soddisfazione per il ritorno alle libertà statutarie e dalla congiunta diffusa speranza che la guerra abbia presto a cessare”.
Avviata sul binario tedesco, l’Italia andò alla catastrofe. L’armistizio dell’8 settembre 1943 arrivò troppo tardi.
Le ragioni del disagio e della ribellione spontanea degli operai e di gran parte del popolo si incontrarono con le ragioni dell’antifascismo organizzato e vicendevolmente si irrobustirono. Nacque la Resistenza.
Giorgio Pagano
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