Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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“Fascismo e antifascismo ieri e oggi”. Arcola, Circolo ARCI Guernica 20 aprile 2023 – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 6 Ottobre 2023 – 20:25

“Fascismo e antifascismo ieri e oggi”
Arcola, Giovedì 20 aprile 2023 al Circolo ARCI Guernica
Intervento di Giorgio Pagano

Testimonianze, racconti, discorsi, episodi che per spiegare che cosa furono fascismo e antifascismo nel 1919-22, nel 1943-45, e oggi. Con un particolare riferimento alla realtà spezzina.

Il fascismo nel 1919-22: l’alleanza tra borghesia e gerarchie militari
La storia di Spezia è emblematica: una larvata dittatura militare fu anticipata proprio nella nostra città, piazzaforte militare, già durante la Grande Guerra. Il Consiglio Comunale fu sciolto per tre anni, il comandante in capo della Marina, ammiraglio Umberto Cagni, ebbe tutti i poteri. Ogni parvenza di vita democratica fu accantonata. La classe operaia vide moltiplicate le misure repressive: chi osava protestare veniva inviato al fronte o al confino. L’operazione fu realizzata dalle stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo.
Dalle ricerche emerge con nettezza, a Spezia, il legame della borghesia del tempo – o comunque di sue parti considerevoli – con i grandi complessi delle costruzioni navali e della produzione bellica. L’elemento di fondo per comprendere anche le vicende successive è l’alleanza borghesia-gerarchie militari. L’unione dei reazionari si realizzò attorno al giornale Il Tirreno, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919. Documenti ritrovati da Fidia Sassano, militante socialista e archivista del Muggiano, resi noti durante l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, portarono alla luce la verità: Giachino aveva preso l’iniziativa di portare Il Tirreno a Spezia, ottenendo il finanziamento dei proprietari delle industrie Ansaldo e Cerpelli. Il commento del giornale alla scoperta fu un’ammissione: cosa c’è di scandaloso nel fatto che la borghesia paghi di tasca propria per difendersi? Ancora: il corrispondente spezzino del Secolo XIX riscuoteva dall’Ansaldo un supplemento vitto di 100 lire mensili. Nello stesso periodo i proprietari dell’Ansaldo finanziavano Il popolo d’Italia, il giornale fondato da Mussolini.
Sempre più si cercava di dar vita a quella che Il Tirreno definì “guardia bianca o meglio la guardia tricolore”. Il giornale invocò apertamente la dittatura militare. Giachino continuava a tessere la tela dell’unione delle forze borghesi. Il 13 maggio 1920 si era ricostituito il Fascio. I massimi dirigenti erano esponenti della borghesia, della Marina, dell’Esercito, all’insegna del connubio che ho evidenziato. Il 2 giugno ci furono i primi scontri tra fascisti e antifascisti in città. Gli industriali maneggioni delle commesse militari appoggiavano la violenza squadrista o ne erano i caporioni. Nel novembre 1920 il “blocco nazionale”, appoggiato dai fascisti, vinse le elezioni amministrative a Spezia
Gli anni 1921-1922, con l’inserimento pieno in funzione dirigente dei fascisti nello schieramento borghese spezzino e di esponenti militari nel fascismo spezzino, furono gli anni della piena offensiva fascista. In una città “statale” un ruolo chiave non potevano che averlo anche i prefetti e i funzionari pubblici. Tutto si stava saldando: borghesia, militari, autorità statali, fascismo.
Emblematico fu il 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, a Spezia: la città fu presidiata insieme da fascisti e marinai, il corteo fascista per le vie della città fu aperto dalla banda della Marina sulle note di Giovinezza.
Come se avvenisse, tra Stato liberale e regime fascista, un regolare “passaggio di consegne”, all’insegna della continuità.
L’unico caso di scontro tra fascisti e militari era avvenuto qualche giorno prima, nella notte tra il 17 e il 18 ottobre a San Terenzo. L’episodio, e il modo in cui si concluse il 18 ottobre, fu raccontato nel dettaglio da un alto ufficiale di Marina, l’ammiraglio Vittorio Tur, nel 1939. Tur scriveva da Venezia a un alto gerarca spezzino per chiedere un aiuto per avere il riconoscimento dei suoi meriti fascisti, e allegava un memoriale firmato dal titolo “Benemerenze fasciste”. Nel testo, depositato presso l’Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Tur narrava di sé in terza persona:
“Nonostante la sua viva raccomandazione ai fascisti di evitare qualsiasi atto ostile verso le Forze Armate e le caserme, alcuni fascisti entrarono nello stabilimento Colombo a San Terenzo, ov’erano alloggiati soldati del genio, e, sorpresili nel sonno, poterono portar via circa 50 fucili. Vi furono colluttazioni senza gravi conseguenze. Il mattino successivo di buonora fu avvertito dal Comandante Dildò che il Comando in capo avrebbe rotto alle ore 8 tutte le relazioni con i fascisti, con evidenti disastrosi risultati. Gli raccomandava di tentare di evitare tanta iattura.
Il Comandante Tur si precipitò al Comando in capo. L’Ammiraglio, che era circondato dal Capo di Stato Maggiore, dal Generale Comandante la Brigata, dal Prefetto e dal Questore, confermò che, dopo quanto era accaduto, avendo i fascisti mancato alla parola, i ponti dovevano essere rotti e che dalle ore 8 le Forze Armate avrebbero agito a qualunque costo. Le Autorità che attorniavano l’Ammiraglio non dissentivano da lui. Con calma il Comandante Tur fece notare all’Ammiraglio che fino allora nella prima Piazza Marittima italiana nulla era accaduto che potesse avere la benché minima ripercussione sfavorevole, soprattutto all’estero, e che sarebbe stato assai grave attuare le decisioni di S.E. Si permetteva far considerare che coloro i quali avevano compiuto l’atto deplorevole a San Terenzo potevano essere comunisti travestiti da fascisti e che la loro azione doveva avere lo scopo non tanto di rifornirsi di armi, quanto di far nascere quello che sarebbe accaduto qualora le disposizioni di S. E. fossero state attuate. Questa frase rasserenò l’ambiente. Fu nominata una commissione mista militare e fascista per compiere un’inchiesta a San Terenzo. Il Comandante Tur ne fu il presidente, con vicepresidente l’ing. Miozzi [segretario provinciale del PNF]. La commissione tornò verso le ore tredici col risultato che, volutamente per impedire conflitti, confermava la prima supposizione del Comandante Tur e per di più assicurava che entro 24 ore i fascisti avrebbero restituito i fucili”.
L’episodio di depistaggio è davvero significativo perché è emblematico della fitta rete di rapporti e dell’alleanza tra fascisti e vertici militari, caratteristica del fascismo spezzino fin dalle origini. Il 28 ottobre 1922 il comando fascista di Spezia fu assunto, non a caso, dal generale di brigata Giusto Fedele, generale della riserva.
Nel memoriale Tur si legge ancora:
“Legato a tutti i fascisti della Spezia li rifornì di coltelli, di rivoltelle e di munizioni. Ciò attestano i documenti. Nella lista degli Ufficiali, sottufficiali, marinai che presero parte attiva alla vigilia del movimento fascista alla Marcia su Roma ’19 ’20- ’21-’22 (lista in consegna al Fascio di La Spezia) ed a lui inviata in omaggio dal Comandante delle squadre d’azione segrete e del Direttorio del Fascio di Spezia, risulta: ‘Comandante Vittorio Tur, fascista fervente, propagandista tra i marinai, si è trovato con noi squadristi a varie azioni fasciste in Spezia. Largheggiava in permessi per i suoi marinai perché prendessero parte e dessero man forte agli squadristi fascisti contro i sovversivi. Alla testa dei suoi marinai per le vie della città cantava inni fascisti, così nelle passeggiate militari ed istruzioni. È stato presente in azioni pericolose ed ha preso parte con noi al movimento della Marcia su Roma. Ha rifornito di armi e munizioni e mezzi le nostre squadre’.
Nella dedica: ‘A Vittorio Tur che con audacia seppe con noi squadristi di Spezia, con fede fascista sino dalla vigilia, guidare, spingere, convincere Ufficiali Sottufficiali e marinai alla Rivoluzione fascista… Squadrista fervente e prezioso consigliere’”.
Tur così continuava, tratteggiando un esempio perfetto di ciò che accadde esattamente secondo i desideri di Mussolini: una insurrezione sostanzialmente legalitaria, una vittoria politica – e financo parlamentare –sostanzialmente eversiva:
“Quando il movimento fascista entrò nella fase definitiva la situazione si fece grave. I fascisti avevano occupato Poste e Telegrafi ed altri Uffici pubblici. Alla ingiunzione del Comandante in Capo ed alle esortazioni del generale Coralli, nella riunione tenuta alla Croce di Malta, perché lasciassero le zone occupate, essi risposero decisamente ‘no’ e che i soldati avrebbero dovuto passare sul loro cadavere per prenderle. La situazione era realmente seria, tanto più seria in quanto essi volevano costituire pattuglie di ronda diurne e notturne con piena possibilità di agire contro chi essi ritenessero propagandista rosso. Dato l’ascendente del Comandante Tur sui fascisti e la stima che aveva per lui il Comandante in Capo, egli poté risolvere la questione ottenendo una combinazione di servizio misto di marinai e fascisti negli Uffici pubblici e altrettanto nelle pattuglie”.
Tur concludeva:
“Il giorno dopo il Comandante Tur riusciva a far organizzare una imponente dimostrazione che si recava all’Arsenale ad inneggiare alla Marina. La musica della Marina, in precedenza preparata in Arsenale, ne usciva suonando Marcia Reale e Giovinezza, mentre dai dimostranti partivano potenti grida di Viva il Re! Viva Mussolini! Viva la Marina! […]
Non molto dopo la Marcia su Roma era brillantemente conclusa”.

L’antifascismo nel 1919-22: la classe operaia
Dalle ricerche emerge con nettezza che l’antifascismo spezzino era marcatamente operaio, proletario, di classe. L’antifascismo era essenzialmente il socialismo: non riformista come a Genova, ma massimalista. Un forte ruolo lo ebbero anche gli anarchici, attivi nell’USI (Unione Sindacale Italiana) – il loro giornale, Il Libertario diretto da Pasquale Binazzi, aveva un rilievo nazionale – e, dal 1921, i comunisti, che nel febbraio di quell’anno conquistarono la maggioranza nella Camera del Lavoro confederale, diretta fino ad allora dai socialisti.
Raccontiamo l’antifascismo operaio attraverso la memoria, scritta nel 1974-1975, di Amedeo Carignani, un giovane operaio residente a Canarbino.
Nel 1916, a dodici anni non ancora compiuti, Amedeo lavorava allo Jutificio di Fossamastra. Un lavoro inumano, dodici ore al giorno. Con Marcello Gregori diede vita a un circolo ricreativo – una stalla a Bonazzola di Solaro – costituito da giovanissimi. Leggevano Il Libertario e i testi dell’anarchismo: Errico Malatesta, Pietro Gori…
“Queste letture ci infiammavano – scrive Amedeo – vi era anche un inno di Gori sull’aria del Nabucco di Verdi dal titolo Ode a Maggio dedicato alla festa dei Lavoratori in onore ai martiri di Chicago, che diceva presso a poco così: Vieni o maggio t’aspettan le genti/ti salutano i liberi cuori/Dolce Pasqua dei Lavoratori/vieni e splendi alla luce del sol”.
Ma si formarono “le prime squadracce fasciste”, “cominciarono le bastonature di operai davanti agli stabilimenti e anche nei paesi si cominciò a vedere figli di gente ‘bene’? indossare la camicia nera protetti dai carabinieri e pestare a sangue gente inerme […]. A La Spezia fu bruciata la Camera del Lavoro, la lotta era ormai aperta, innumerevoli le vittime. I fascisti partivano a bordo di camion forniti dall’esercito, armati con armi prese negli arsenali dell’esercito e protetti da nugoli di carabinieri e guardie regie. […] La Giustizia non esisteva e i fascisti si sentivano sempre più imbaldanziti. Fu ingaggiata gente di galera che, stipendiata dalla borghesia, commetteva ogni sorte di delitti”.
Amedeo racconta di quando il padre di Gregori venne bastonato a sangue sul lungomare di San Terenzo e di quando lui fu aggredito dal fascista Carro di Pugliola.
“Per far fronte alle prepotenze fasciste e difenderci dalle loro aggressioni formammo a Pitelli un gruppo di Arditi del popolo. Avevamo parecchie armi, le munizioni le procurai io svaligiando una riservetta del Forte Canarbino ove potevo entrare essendo mio padre guardia batteria e vi era un corpo di guardia di due soldati e un caporale di Schio che si diceva socialista. Uscii dal Forte con una carriola carica di caricatori coperta con sterpi senza destare sospetti. Eravamo nel 1921. A Livorno si era formato il nuovo Partito Comunista d’Italia e noi anarcoidi senza nessuna cultura politica vi aderimmo. […] Cominciò a circolare la voce che i fascisti preparavano un’azione di forza contro Sarzana e che la cittadina si preparava a difendersi anche con la forza contro qualsiasi violenza. Partimmo in dieci Arditi del popolo con le nostre armi attraverso Canarbino-Cerri-Romito attraversando il fiume Magra ed entrammo in città”
Dopo mille angherie, Amedeo e Marcello Gregori fuggirono in Francia:
“E così una mattina della fine di agosto 1922 partii da casa con 300 lire, senza bagagli, col solo vestito che avevo indosso”.
Era emersa una classe operaia con una diffusa coscienza di sé e del proprio ruolo. Gli operai non si sentivano più solo salariati ma anche classe dirigente produttiva. Leggiamo la testimonianza di Fidia Sassano sull’occupazione del Muggiano:
“Mancavano quasi tutti i dirigenti, quasi tutti i tecnici, tutti gli impiegati amministrativi, ma la grande maggioranza degli operai era al proprio posto e, sulla base dei disegni già in possesso dei capi officina e dei capi tecnici, in tutti i reparti e nelle navi in costruzione e in allestimento si lavorava quasi regolarmente. […] Alle porte e sulle navi i guardiani vigilavano affinché nulla fosse asportato dallo stabilimento e non vi furono abusi di sorta”.
Su un altro versante, quello dell’educazione e della cultura, leggiamo la testimonianza di Tommaso Lupi, lericino, operaio e “guardia rossa” del Muggiano:
“Durante la settimana andavo a prendere lezione di musica e di violino dal prof. Dall’Oglio, una sera posai l’orologio sul tavolo e il professore curioso guardò la medaglia che vi era attaccata dicendo: è Garibaldi? No, gli dissi, è Lenin. Rimase meravigliato di avere un allievo – come disse poi – rivoluzionario”.
Il sindacato e i partiti, palesemente inadeguati, non rispecchiavano questa maturazione. La spontaneità operaia e la spinta dal basso non incontrarono l’organizzazione sindacale e politica.

Il fascismo nel 1943-45: la violenza come identità
La marcia su Roma fu il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto Giulia Albanese “un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni”. Oggi possiamo sostenere che il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il suo carattere di governo di coalizione. La sanzione statale e la connivenza dei liberali non salvò né lo Stato né i liberali ma segnò l’avvento di una nuova era contrassegnata dallo squadrismo. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma: Mussolini lo portò nella milizia e nei sindacati, smantellò lo Stato liberale e lo invase con le squadre. Lo squadrismo continuò a vivere nelle spedizioni coloniali in Africa, nella partecipazione fascista alla guerra di Spagna, nelle brigate nere contro i partigiani.
La violenza squadrista fu il segno identitario del fascismo.
Esaminiamo le stragi nazifasciste nel settore occidentale della Linea Gotica, a noi confinante.
Alla base degli orrori nazifascisti vi furono sia gli ordini di Hitler del novembre e dicembre 1942 e poi l’ordine di Kesselring del 1° luglio 1944, in cui il principio della rappresaglia soppiantò quello della lotta militare contro i partigiani, sia il decreto di Mussolini del 18 aprile 1944, che inserì tra i soggetti da condannare a morte non solo i partigiani e i renitenti alla leva repubblichina, ma anche tutti coloro che li sostenevano. Si fece anche di peggio, sterminando centinaia di innocenti, che nulla avevano a che fare con la lotta partigiana. A Bardine di San Terenzo Monti, a Vinca, a Tenerano furono giorni di estrema violenza, di caccia bestiale all’uomo. Alle donne da violentare e poi uccidere e profanare ancora, ai bambini da sterminare. Chi scampò ai massacri ricordava il dialetto carrarino, o massese, o garfagnino degli assassini più tremendi. I fascisti di Salò furono più feroci dei nazisti.
Raccontò Angelo Pinelli, di Vinca:
“Avanti venivano i tedeschi e dietro seguivano i briganti neri. Mentre questi ultimi passavano vicino a me, sentii una voce dire in carrarino: ‘O Gatton, quali sono gli ordini?’ e l’interpellato con tale nome rispondere: ‘Quanti ne vedete tanti ne ammazzate’, anche questa espressione fu pronunciata in dialetto carrarino”.
Negli atti del processo di Perugia agli assassini di Vinca (1948) si legge:
“L’arrestato Moracchini Giorgio, che fu presente all’esecuzione della rappresaglia, ha dichiarato di aver veduto con i propri occhi Bragazzi Giovanni, Cabrini Carlo e Fabiani Corinno freddare a colpi di mitra un bimbo di due anni, che era stato rincorso, mentre piangendo tentava fuggire sulla pubblica strada, preso e lanciato in aria, a mo’ di sasso, dall’altro arrestato Diamanti Giuseppe detto Gatton”.
Raccontò Michelina Cecchini, di Tenerano:
“Io mi ricordo cosa è successo qui, alla piccola Mirella Antoniotti, l’hanno gettata in aria e poi gli hanno sparato come ad un bersaglio!!!”

L’antifascismo nel 1943-45: la classe operaia classe nazionale
Dopo il ventennio, rinacque la classe operaia. Nell’Italia occupata dai nazisti, sviluppò una coscienza della sua funzione nazionale e unitaria. Grazie anche alla nascita e alla legittimazione del partito operaio, il PCI.
Ecco due brani della testimonianza “Dalla caduta del regime fascista 25 luglio 1943 allo sciopero insurrezionale 1° marzo 1944”, rilasciata per un convegno del 1974 da un gruppo di lavoratori dell’OTO Melara:
“[La classe operaia] avvertiva con precisa distinzione il ruolo che doveva assumersi in ogni momento per essa storico. Nello stabilimento meccanico OTO Melara quella classe operaia, maturata in lunghi anni di lotta antifascista clandestina, aveva pagato con duri sacrifici, con persecuzioni, arresti, condanne, carcere e confino. Ricordiamo Migliorini, Ragozzini, Lupi, Pelacchi, Locori, Greci, Ghidoni, fra gli altri.
Malgrado ciò, quella classe operaia acquistava man mano sempre più coraggio e determinazione, pronta ad occupare il posto che le competeva nella battaglia decisiva, ed imminente, per le sorti di tutto il paese.
Nonostante i colpi ricevuti nel passato per la decapitazione della organizzazione clandestina antifascista con l’arresto dei dirigenti più qualificati, il movimento antifascista era saldamente in piedi e ben collegato ai lavoratori in particolare attraverso il PCI, che in tutti i reparti della fabbrica aveva il suo comitato politico in permanente contatto con gli operai. Oltre ai militanti comunisti, davano il loro prezioso contributo al movimento e alla lotta, socialisti, anarchici, cattolici, uomini senza partito, disposti a combattere per abbattere il fascismo e far finire la sua guerra criminale.
[…] Il movimento politico organizzato dal PCI – e questo per obiettiva analisi e valutazione storica e non per patriottismo di partito – era di nuovo ben strutturato e presente in tutti i reparti attraverso le sue cellule per cui era pronto a sviluppare il ruolo di lotta aperta contro il fascismo e contro la guerra.
[… Il primo marzo] non ponemmo alcuna rivendicazione economica, a differenza della fermata dei cinque giorni di gennaio. Lo sciopero era uno sciopero politico, di insurrezione nazionale, un atto chiaramente rivoluzionario popolare, e tale doveva restare, così come lo avevamo voluto e impostato”.

Il fascismo oggi
La Russa, Lollobrigida… sono i tanti esempi del fascismo e del razzismo di governo.
Mi soffermo su due fatti locali meno conosciuti.
Un fatto accadde a Ceparana il 22 febbraio del 2021: alcuni giovani neonazisti pedinarono e picchiarono un diciottenne “colpevole” di portare un autoadesivo sul cellulare con la scritta “Azione antifascista”. I carabinieri, grazie alla sua denuncia e alla successiva indagine, risalirono agli aggressori. Venne in questo modo alla luce un fatto precedente, avvenuto l’8 novembre 2020 a Sarzana. Un adolescente fu accerchiato, minacciato e schiaffeggiato perché indossava una maglietta del Festival della Resistenza di Fosdinovo. Le due aggressioni hanno svelato l’esistenza di una rete di giovani neonazisti operante nella nostra provincia, come si legge nella relazione dei carabinieri del reparto operativo:
“L’esistenza di un gruppo operante in provincia della Spezia, collegato con analoghi a Genova e Milano, ideologicamente di estrema destra, in particolare di ispirazione nazionalsocialista (naziskin o skinn 88), riconducibile a Lealtà Azione e avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi”.
L’indagine ha ricostruito i pensieri e le immagini di questa galassia nera, scoprendo quel che non era stato ancora eliminato dalle loro chat, di cui il magistrato ha disposto lo screening. Odio razziale e violenza la fanno da padroni.
Un ragazzo riferisce a un altro di aver fatto un nuovo acquisto e invia la foto di un portacenere con impressa la svastica del nazionalsocialismo sul fondo. L’altro commenta scrivendo: “L’unico vero partito”. E poi, riferendosi alla cenere che l’oggetto è destinato a raccogliere, afferma: “è quasi un peccato riempirlo di ebrei”.
Un altro ancora, alludendo al contatto con gli ultras di estrema destra: “Il calcio è un divertente passatempo, non una ragione di vita, quella deve esserlo la difesa della razza bianca ariana”.
Altri esempi: “Scontri nelle strade con spranghe nelle mani i rivoluzionari non sono morti invano”; “Posso morire per la rivoluzione”; “Né comunismo né capitalismo: Azione Nazionalsocialista”, e così via.
Spesso i commenti ai messaggi sono “88”, numero che rappresenta l’ottava lettera dell’alfabeto, la “H” che, ripetuta due volte è utilizzata nella terminologia dell’estrema destra radicale a significare “Heil Hitler”; e “A.C.A.B.”, acronimo di “all corps are bastards” – tutti i poliziotti sono bastardi”. Dopo la seconda aggressione un solo commento corale: “Onore”.
Una ragazza pubblica nella chat un breve filmato girato dal suo telefonino, nel quale si vede un bambino di colore con un giocattolo in mano mentre sembra raccogliere dei fiori. Il commento pubblicato è “cazzo, una scimmia nel mio giardino”.
Una sera i giovani neonazisti progettano una spedizione a Sarzana contro “zingari e marocchini”. Un’altra volta raccontano il pestaggio di un presunto “pedofilo”.
Un ragazzo mostra, tatuata nella schiena, la scritta a caratteri cubitali “Dux”.
Sta per arrivare il 25 aprile 2020, e poi il 28 aprile, anniversario della morte di Mussolini:
“La settimana nera. I nostri nemici festeggiano tracotanti, noi commemoriamo. È la settimana che ci fa fremere dalla voglia di urlare PRESENTE! … Decorrono 75 anni dal martirio dell’ultimo dei Cesari. Ma non doveva finire così! Quando penso alla grandezza del Duce e al suo martirio mi assale il magone… Si narrava che la base trapezoidale della fiamma tricolore fosse l’urna che racchiudeva le spoglie del Duce e l’acronimo del partito ‘Mussolini Sei Immortale’”.
Purtroppo non si tratta di fantasmi, come ha dichiarato a “La Nazione” l’on. Maria Grazia Frija.

L’antifascismo oggi
Certamente occorre ribadire che la Resistenza ha avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura e ci ha dato la Costituzione, che ha consentito alla nostra democrazia di vivere per settant’anni e di reagire anche a crisi profondissime.
Ognuno ha il diritto di condividere la propria memoria. Ma le istituzioni democratiche possono stare da una parte sola, contro l’altra parte. Dalla parte dell’umanità, della libertà, della giustizia. I “ragazzi di Salò” non esprimevano alcun valore, se non quello della violenza e della morte.
Il 25 aprile va festeggiato perché la Resistenza, quell’esperienza nata quasi ottant’anni fa, difficile, fragile, romantica, coraggiosa, nonostante tutto è lì, e riemerge come un appiglio. Come ha scritto la storica Chiara Colombini, è la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.
Ma l’antifascismo è sempre stato anche un fatto sociale, è sempre stato legato anche alla giustizia sociale. Deve rinascere qualcosa nel mondo del lavoro, come classe-movimento, e come partito. E’ rimasto il sindacato, ma non basta. L’antifascismo vive se parla anche dell’oggi.
Serve un 25 aprile non ecumenicamente “afascista”, di “violantenesimo” di ritorno, ma un 25 aprile antifascista.

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