Dal Sessantotto ai giorni nostri
Intervista di Fabio Lugarini a Giorgio Pagano sul secondo volume di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
Città della Spezia, 3-4-5 aprile 2021
Partendo dalla lettura del secondo volume di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata”, è assai possibile allargare il pensiero ai giorni nostri, partendo naturalmente dall’esperienza degli anni Sessanta, massimo comun denominatore della pubblicazione, superandola per arrivare all’oggi. Ha ancora senso parlarne e se ha senso come va declinata? Nasce così una discussione con l’autore Giorgio Pagano che divideremo in tre parti da leggere in queste festività pasquali.
“OGGI DOBBIAMO, PIU’ CHE RICOSTRUIRE, RIPENSARE IL SISTEMA ECONOMICO”
Prima parte
Abbiamo passato da poco un anniversario che non volevamo ricordare, o che speravamo di ricordare al passato: il lockdown per la pandemia. Come è stata e come è vissuta questa esperienza? E che cosa ci sta insegnando?
A una prima impressione, che ho avuto anch’io, è parso che alla solidarietà iniziale sia subentrata la rabbia accusatoria. Ma forse le fasi non sono così distinte. C’è un alternarsi tra compassione per gli altri e paura egoistica. Prendersi cura degli altri è una conquista morale, ed è difficile da sostenere… Che cosa ci insegna la pandemia? L’estrema fragilità del nostro sistema globale. L’umanità non ha il senso del limite. Il degrado della biosfera è arrivato a un punto di rottura. L’insorgenza della pandemia, favorita da questo processo, lo ha mostrato a tutti. La sfida al Covid-19 è parte integrante della questione ambientale, che è questione “rivoluzionaria” perché richiede il cambiamento profondo del sistema economico e dei suoi presupposti: le risorse naturali non sono illimitate -già oggi avremmo bisogno di 1,6 Terre per mantenere gli attuali standard di vita- e il mercato non può essere l’unica guida del sistema. Ma di questo non c’è grande consapevolezza: siamo troppo impegnati in un’eterna competizione, che vive e si nutre solo di presente e di assoluta fiducia nella capacità di controllare la natura.
Torniamo alla solidarietà. Il virus ci ha colpito come specie, come umanità. Questo non dovrebbe spingerci alla solidarietà?
L’ammonimento è stato: apparteniamo a una stessa umanità. “Siamo tutti chiamati a remare insieme” ha detto il Papa quella sera di un anno fa, sul sagrato deserto e spettrale di San Pietro. Dovremmo tutti, cristiani e non, riconoscerci nel valore della solidarietà. Nel libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia e in provincia” emerge come centrale, in quegli anni, il valore della fratellanza, che nasce da un’esperienza personale di responsabilità e ci conduce alla comunità. Un valore già emerso nelle ricerche sulla Resistenza spezzina. Un desiderio, una pulsione vitale da riportare oggi sulla scena. Ma non è semplice. Basti pensare alla corsa nel mondo a chi si accaparra più vaccini… Abbiamo un destino comune. Si è fermato il treno, dove andiamo tutti assieme?
Dobbiamo pensare al futuro comune…
E’ così. Il mio amico antropologo Marco Aime ha scritto che le popolazioni che chiamiamo “primitive” pensavano al futuro molto di più di quanto facciamo ora noi. E ha raccontato che in Africa possiamo vedere i boschetti sacri, le aree di foresta che venivano preservate dal taglio del legname, per non impoverire troppo la natura. E’ vero. Oggi invece, per il profitto, si deforesta senza limiti. E poi dobbiamo pensare agli altri, alla sofferenza degli altri. Di fronte alla malattia sociale del nostro tempo, quella delle diseguaglianze, c’è una sola certezza di guarigione: “nessuno si salva da solo”. Ancora la fratellanza.
La pandemia lascerà sul campo molte rovine. Molti dicono che dovremmo tornare allo spirito di ricostruzione postbellica…
In realtà le differenze sono molte. Allora si trattava di ricostruire dalle macerie. Oggi dobbiamo, più che ricostruire, ripensare il sistema economico, reinventarlo. Allora si pensava a permettere a tutti l’accesso al benessere materiale. Oggi abbiamo il problema ambientale, che ci obbliga a cambiare modi di produrre e di consumare. Pensiamo a Spezia: allora furono tutti d’accordo a volere l’ENEL, oggi il tema è, anche da noi, la transizione ecologica. Un’altra differenza è che allora la classe dirigente era del tutto nuova: era giovane, veniva dalla Resistenza, aveva e trasmetteva fiducia. Oggi questo cambio, che pure sarebbe necessario, non è all’ordine del giorno. Ma non cambiamo il Paese se non cambiamo anche le persone, o almeno se anche le persone non cambiano.
“UNA CLASSE DIRIGENTE SI COSTRUISCE SOLO ATTORNO ALLA RICERCA DI UNA META. E SE C’E’ UNA SPINTA DAL BASSO”
Seconda parte
Il cambio della classe dirigente è una questione che riguarda anche Spezia?
Spezia è stata governata dalla classe dirigente della Resistenza fino ai primi anni Novanta. Poi la deindustrializzazione ci colpì come poche città italiane, cambiò la composizione sociale… Risale a quegli anni il ripensamento dell’idea di città, del suo modello di sviluppo. Su quella base cominciò a formarsi una nuova classe dirigente. Poi tutto si è bloccato. Ma, come sempre, una classe dirigente si costruisce solo attorno alla ricerca di una meta. E se c’è una spinta dal basso. Non può nascere dal pragmatismo senza meta e dalle oligarchie dei giri.
Inoltre l’Italia e la Spezia del dopoguerra, e anche quelle degli anni Sessanta, erano molto giovani, mentre ora…
Nel libro sugli anni Sessanta emerge tutta la forza e la creatività della “comunità giovanile”, con la sua cultura, la sua volontà di essere diversa dal mondo degli “adulti”. C’era un’energia psichica e biologica che spingeva a cambiare tutto. Oggi l’Italia e Spezia sono vecchie. Quali sono, allora, le forze del cambiamento? Per trovarle non si può che guardare alle diseguaglianze che ci feriscono: sociali, di genere, di istruzione… La “speranza in un mondo nuovo” oggi non può che venire da quella parte ampia di italiani -e di spezzini- che pagano il costo più alto del declino: i giovani, le donne, le classi subalterne, la classe media impoverita, i “poveri assoluti”, che sono il 10% della popolazione. Sono masse immense da scovare, formare, organizzare… Qualche giorno fa, anche a Spezia, sono scesi in piazza i rider: una svolta. E stiamo attenti allo smart working: in buona parte resterà in vigore anche dopo il Covid-19, e metterà sempre più in luce le diseguaglianze tra chi ha accesso e chi no.
E la distinzione tra destra e sinistra ci sarà ancora?
I partiti sono organismi umani, nascono e muoiono. Ma la distinzione tra destra e sinistra è nella realtà, non è superata perché resta l’eterna divisione tra chi “sta sopra” e chi “sta sotto”. Le formazioni politiche che dall’Ottocento si erano fatte carico della questione sociale, sempre più subalterne al neoliberismo dalla sconfitta degli anni Settanta del Novecento in poi, si sono alla fine dissolte e hanno lasciato le persone che lavorano senza punti di riferimento. La sinistra deve reinventarsi il compito che ha svolto nella storia e che ha dimenticato: portare le persone che vivono in modo differente il disagio di questa società a riconoscersi reciprocamente e a far pesare assieme la propria presenza e cultura, elevandosi a protagonisti consapevoli del proprio riscatto. Non è detto che ci riesca: non sarà facile mettersi in sintonia con la rabbia sociale per la complicità che ha avuto nella sua genesi. Inoltre la sinistra deve essere sia “laburista” che “ambientalista”, ma è spaesata rispetto a questo problema: oscilla tra il “produttivismo” attento solo ai posti di lavoro e un certo “romanticismo verde”, e non pone la vera questione, quella del cambiamento del sistema economico.
Che ne è della speranza, che negli anni Sessanta covava veramente?
La speranza immagina qualcosa che non c’è, è fatta di progetto. Negli anni Sessanta il progetto, magari vago e incompiuto, di una nuova società, di un nuovo senso della vita, c’era, eccome: tra gli studenti, tra gli operai, tra le donne. Oggi non c’è più. Ma senza l’idea di un mondo nuovo non si va da nessuna parte. Nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare. Io dico: teniamoci strette le nostre piccole speranze personali, di associazioni, di frammenti sociali, anche correndo il rischio che diventino illusioni. Non disperiamo, non rinunciamo a batterci se non ci sentono. La città non è irredimibile, la politica non è irredimibile. La crisi ambientale, la crisi sociale, la pandemia decretano la fine di questa città e di questa politica. Redimere la città e la politica tocca a ognuno di noi, con spirito eretico e capacità di reimmaginare.
A tal fine può esserci utile la consapevolezza delle potenzialità di una parte del passato. E’ il mestiere suggerito da Walter Benjamin, che mi ha molto ispirato nella stesura del libro: “riattizzare nel passato la scintilla della speranza”.
“SU DISEGUAGLIANZE E AMBIENTE IL PAPA DICE COSE CHE LA SINISTRA NON HA MAI DETTO O NON DICE PIU’
Terza parte
Quali sono le pulsioni vitali che provengono dagli anni Sessanta?
Sono le tracce che ci parlano ancora. Ho già detto dell’aspirazione alla fratellanza. Ancora: nei Sessanta al centro del pensiero c’era l’esistenza. Poi l’esistenza fu bandita dal pensiero. Ma quella traccia di pensiero umanistico rimane. Si lottava per cambiare il mondo e la propria vita, per autogovernare la propria vita. La lotta degli operai era una lotta morale per la dignità e la libertà del lavoro, non solo per il salario. Dopo la pandemia il tema non può essere soltanto “quanti soldi abbiamo”, i bisogni non sono solo il vestirsi, il bere, il mangiare, il possedere lo smartphone. Bisogna riprendersi la vita, la dignità, la libertà. Infine un’altra traccia: l’importanza della scuola, della cultura, di un nuovo sapere. I temi posti allora dagli studenti. Nelle fasi vitali della storia tutti, dalle donne ai giovani di bottega, avevano un libro in tasca, andavano a teatro, si interrogavano sul sapere. Nel libro racconto la storia di queste esperienze e poi della loro sconfitta negli anni Settanta. Ma intanto, grazie a quelle esperienze, in Europa era stato raggiunto il miglior livello di giustizia sociale nella storia dell’uomo.
Ma oggi lo smartphone e il computer stanno sostituendo il libro…
E’ il maggior pericolo per la cultura. Sia chiaro, non demonizzo internet, anzi: sto facendo un’intervista online! L’uomo è stato cattivo già da prima: Auschwitz, Hiroshima e la distruzione della biosfera sono orrori pre-digitali insuperabili. Con internet non siamo peggiorati, ma forse nemmeno migliorati. Certo, oggi si può sapere da moltissimi e in molto minor tempo di una volta. Ma la conoscenza è diventata un insieme di frammenti. E quel che si ritrova cliccando lo si dimentica quasi subito. Da qui la necessità di un pensiero critico: meglio i libri che le app e i loro algoritmi. E poi meglio la socialità: il “faccia a faccia” rispetto allo “schermo a schermo”.
Il tuo mestiere di scrittore, soprattutto di storico, è in estinzione?
Vado spesso nelle biblioteche, sono sempre piene di giovani… Dei libri non faremo mai a meno… Temo più per la storia. Adriano Prosperi ha scritto un libro intitolato “Un tempo senza storia”. E’ il nostro tempo. I giovani non hanno un disegno di futuro, è qui la radice della crisi della storia. La domanda che il giovane più di tutti rivolge alla storia nasce dalla speranza: per capire il suo futuro si volta indietro per capire da dove viene. Se la speranza muore, al posto della storia c’è il presente permanente. Tra memoria del passato e speranza di futuro c’è un nesso fondamentale. Si combatte il disinteresse per la storia combattendo la malattia della speranza. E’ per questo che mi definisco un narratore sia di storie che di speranze.
A proposito di storia, cosa pensi del PCI, cento anni dopo?
Nel libro mi soffermo sulla sconfitta del PCI negli anni Settanta. Tutto viene dagli anni Settanta. Il destino dell’Italia di oggi fu deciso allora. Quel decennio fu anche un terreno di grandi battaglie vinte, come ho ricordato. Ma la risposta della sinistra e del PCI fu sostanzialmente conservativa e subalterna. La sinistra cominciò allora a smarrire i contatti con la società. Nel giro di pochi anni si tornò indietro: venne a mancare la giustizia sociale, e ciò fece degenerare la libertà in liberismo e corrompere la politica come fede laica. La questione è: la vicenda del PCI non può essere proiettata oltre la vicenda del comunismo internazionale, o il PCI poteva trasformarsi ben prima del crollo dell’URSS nel 1989? Forse poteva andare diversamente, questa è la mia tesi. E la traccia che ci parla ancora è il pensiero di Antonio Gramsci: non la politica-potenza di Lenin ma la politica della lunga “guerra di posizione” nella società civile, la politica dell’”egemonia” nella democrazia, che deve sboccare nell’etica e orientare il progetto della “riforma intellettuale e morale”. Un progetto che nasce innanzitutto dal basso, nella società civile.
Negli articoli di “Luci della città” citi spesso il Papa…
Quello religioso è un mondo che guardo dall’esterno. Però mi è rimasto il senso del sacro, oggi perduto. Quanto al Papa, è un fenomeno di portata storica: sull’ambiente e le diseguaglianze dice quello che la sinistra non ha mai detto o non dice più. Oggi l’unico messaggio sulla speranza che sopravvive è il suo. Si pensi al viaggio in Iraq: Francesco ci ha voluto dire che la vita può ricominciare anche nel Paese più martoriato. La luce è più forte delle tenebre, anche della pandemia. Un messaggio di scandaloso ottimismo.
Quindi anche tu sei più ottimista che pessimista?
Rispondo con Gramsci: “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”. Il libro comincia con la canzone “Dio è morto” di Francesco Guccini, del 1967: la speranza in un mondo nuovo. Poi è costellato di tante canzoni-simbolo. L’ultima è “L’anno che verrà” di Lucio Dalla, che concludeva idealmente gli anni Settanta, raccontando la violenza, la fine dei sogni collettivi, l’ansia dei vinti. Ma anche il grande bisogno di poter “continuare a sperare”. Perché, come scrive un protagonista del libro, il poeta Paolo Bertolani, “tanto dura a morire è la speranza”. La speranza è sperare per tutti, mai solo per se stessi. La speranza implica una lotta contro la disperazione e parte dal cambiamento personale per nutrirsi dell’essere insieme e diventare impegno di ciascuno e di tutti nelle opere.
I tuoi progetti per il futuro?
Continuare a raccontare storie e speranze. Della mia Spezia e della mia Italia, ma non solo. Il Papa ha detto: “Chi ci racconterà l’attesa di guarigione nei villaggi più poveri in Asia, America Latina e Africa?”. Nel 2020 ho scritto il libro “Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico”, con decine di amici africani o cooperanti in Africa: potenza del web! Appena possibile tornerò in Africa, tra le “vite di scarto”. Per dare una mano e per raccontare le loro storie e le loro speranze. Racconti di essere umani, che inseguono l’odore vivo degli esseri umani.
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