Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Commemorazione del rastrellamento del 3-4 agosto 1944, 30 luglio 2023 – Intervento di Giorgio Pagano

a cura di in data 27 Dicembre 2023 – 09:30

“Commemorazione del rastrellamento del 3-4 agosto 1944”
30 luglio 2023, Monte Gottero
Intervento di Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato Unitario della Resistenza

Care cittadine, cari cittadini, cari Sindaci, autorità,
ricordiamo anche quest’anno il rastrellamento del 3-4 agosto 1944, che diede un duro colpo alla Resistenza delle nostre valli e provocò molte vittime, tra i partigiani e tra la popolazione civile.
Tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 si erano formate le prime bande dei ribelli.
L’anno tematico 2023 del Comitato Unitario della Resistenza è dedicato al tema “La caduta del fascismo, l’8 settembre e l’inizio della lotta partigiana”, a ottant’anni dal 1943.
La guerra fu decisiva nel crollo del fascismo. Le sconfitte di Germania e Italia ad opera dei sovietici e degli angloamericani tra fine 1942 e inizio 1943 comportarono un cambio netto nell’opinione pubblica, che sempre più desiderava la pace e si allontanava dal fascismo. La crisi militare accelerò la crisi politica, fino al colpo di stato del 25 luglio 1943. Le forze antifasciste erano ancora deboli, anche se c’era stato, in alcune città, lo sciopero operaio del marzo. L’iniziativa per destituire Benito Mussolini fu presa dal re, dall’esercito e dalla maggioranza dei gerarchi fascisti. Il popolo gioì scendendo in strada e scalpellando i simboli del fascismo. Il nuovo governo, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, fu una dittatura militare. Durò 45 giorni, e si schierò ancora al fianco dei tedeschi, fino al baratro dell’8 settembre: l’armistizio tardivo, preceduto dalla vigliaccheria e dall’incapacità di accettare la mano tesa degli alleati che l’armistizio lo proponevano da tempo; la fuga del re e dei militari nel Sud già liberato dagli alleati e i soldati e i cittadini abbandonati da ogni autorità; l’occupazione tedesca del Nord del paese, non contrastata dall’esercito; la liberazione di Mussolini e la costituzione della Repubblica di Salò, uno strumento al servizio dei tedeschi, nel quale rivisse lo squadrismo delle origini. La nostra classe dirigente si rifiutò di incamminare il Paese sulla strada della democrazia, con esiti tragici.
Il Paese si risollevò con la Resistenza, che all’inizio fu un moto morale, esistenziale, solo in seguito un moto politico in senso stretto. Già subito dopo l’8 settembre ci furono soldati che resistevano nonostante l’abbandono dei vertici, vecchi antifascisti che ritornavano dal carcere o dall’esilio e riunivano i partiti, popolani che raccoglievano armi abbandonate, ancora senza un obiettivo preciso.
Alla Spezia il 9 settembre si riunirono i partiti antifascisti, che in ottobre diedero vita al CLN. Nell’autunno 1943 iniziarono, alla Spezia e a Sarzana, i sabotaggi e le azioni dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e si formarono, ai monti, le prime bande dei ribelli.
Le prime bande, come le più numerose brigate del periodo successivo, si attestarono soprattutto nella zona montuosa e priva di strade tra il fiume Vara e il fiume Magra, dalla quale si potevano dominare le principali vie di comunicazione (le statali Aurelia e della Cisa) e resistere ad attacchi di forze numericamente superiori. Il lato negativo di questa posizione fu che, durante i rastrellamenti, i partigiani rischiarono più volte di essere circondati dalle truppe nemiche che contemporaneamente salivano dal fondovalle della Val di Vara e da quello della Val di Magra. Anche le colline ad est di Sarzana e di Santo Stefano Magra furono fin dall’inizio rifugio di “ribelli”, ma, essendo troppo basse e accessibili, diverranno sede di grosse formazioni partigiane solo più tardi, a partire dall’estate del 1944.
Le prime bande erano costituite da ex militari sbandati, da giovani renitenti alla leva della Repubblica di Salò, e da antifascisti più anziani, anche non legati ai partiti. Furono il frutto di spinte dal basso e dall’alto. Fin dall’inizio si svilupparono grazie a una forte collaborazione della popolazione contadina locale. Un ruolo importante, anche se non esclusivo, lo ebbero i partiti, in particolare il Partito Comunista e il Partito d’Azione.
In questa zona montana tra Vara e Magra si formò, nel giugno-luglio 1944, un’area libera da presenze fasciste che comprendeva decine di piccoli paesi. Questa zona aveva il suo centro nei monti Gottero e Picchiara e, sebbene con confini variabili, finì per inglobare buona parte della Val di Vara, Zeri e parte degli altri comuni montani della riva destra del Magra. L’area liberata si rivelò molto importante per l’approvvigionamento delle bande e per il reclutamento dei giovani della zona.
Ci fu anche una vittima illustre, il podestà di Sesta Godano Tullio Bertoni, responsabile del partito fascista repubblichino in Val di Vara, uno dei responsabili della morte, a Chiusola, dell’eroe Piero Borrotzu “Tenente Piero”. Bertoni fu catturato e fucilato.
Il 28 luglio si costituì la I Divisione Liguria, che univa le bande sotto il comando del colonnello Mario Fontana “Turchi”.
I repubblichini, preoccupati, chiesero insistentemente ai tedeschi di rastrellare la zona. Il rastrellamento ebbe inizio nelle prime ore del 3 agosto con l’avanzata concentrica verso il monte Gottero e il monte Picchiara di migliaia di tedeschi – l’azione fu diretta dalla 135° Brigata da Fortezza comandata dal colonnello Almers – aiutati dagli alpini della Monterosa e dai repubblichini della X Mas. Erano in tutto quasi 6 mila uomini.
Fu subito vinta la resistenza, a Noce di Zeri, di un piccolo distaccamento della banda garibaldina “Vanni” di cui era comandante Primo Battistini “Tullio”; ma tutta la “Vanni” si disperse quasi subito. Anche la banda di “Giustizia e Libertà”, comandata dall’azionista Vero Del Carpio “Il Boia”, dovette abbandonare in tutta fretta l’accampamento del monte Picchiara, e tutti i materiali lanciati sul campo dagli aviolanci degli alleati. Solo la banda giellista guidata da Daniele Bucchioni “Dany” a Calice e soprattutto la banda “Cento Croci”, una banda “mista”, garibaldina e autonoma, sul monte Scassella, poco più a nord del monte Gottero, si fecero onore resistendo e contrattaccando, e permettendo così ai resti delle altre brigate di ripiegare. L’area rastrellata, in particolare il territorio di Zeri, fu teatro di violenze anche verso la popolazione civile: 19 civili furono uccisi nei paesi o mentre si davano alla fuga. Ricordiamoli tutti:
Borrotti Luigi, 32 anni, ucciso il 3 agosto; Borrotti Natale, 44 anni, ucciso il 3 agosto; Lazzarinetti Antonio, 65 anni, ucciso il 3 agosto; Nadotti Domenico, 23 anni, ucciso il 3 agosto; Olivastri Angelo, 69 anni, ucciso il 3 agosto; Reggi Livio, 26 anni, ucciso il 3 agosto; Bernardelli Pietro, 16 anni, ucciso il 4 agosto; Bornia Eugenio, 68 anni, ucciso il 4 agosto; Borrini Igino, 39 anni, ucciso il 4 agosto; Borrini Luigi, 49 anni, ucciso il 4 agosto; Borrotti Alfredo, 34 anni, ucciso il 4 agosto; Faggiani Domenico, 47 anni, ucciso il 4 agosto; Filippelli Quinto, 35 anni, ucciso il 4 agosto; Fonsetti Giuseppe, 19 anni, ucciso il 4 agosto; Gavellotti Giovanni, 76 anni, ucciso il 4 agosto; Grigoletti don Eugenio, 70 anni, parroco di Adelano, ucciso il 4 agosto; Monali Silvio, 42 anni, ucciso il 4 agosto, Quiligotti don Angelo, 63 anni, professore di lettere presso il seminario di Pontremoli, ucciso il 4 agosto; Reboli Alfonso, 34 anni, ucciso il 4 agosto.
Tutte le frazioni del Comune di Zeri furono totalmente o parzialmente incendiate e lo scarso bestiame requisito. Il rastrellamento fu inesorabile nella zona di Rossano, Chiesa e Bosco di Rossano, Valle e Paretola. I reparti nemici catturarono un gruppo di feriti del “Battaglione Internazionale” di Gordon Lett nascosti nei prati intorno al palazzo Schiavi a Chiesa e li uccisero, poi minarono il palazzo facendolo saltare.
Le perdite partigiane furono gravi: 50 secondo i partigiani, 630 secondo i tedeschi, che senz’altro esagerarono. Certamente la ritirata dei partigiani fu molto disordinata: una sconfitta pesante, un vero e proprio disastro. Al termine dell’operazione, fu il feldmaresciallo Kesselring in persona ad inviare al colonnello Almers un telegramma di congratulazioni.
Ho citato, nelle manifestazioni degli scorsi anni, alcune testimonianze di partigiani, Giovanbattista Acerbi, “Tino”, partigiano che seguì sempre il comandante Franco Coni “Franco”, e Giovanni Uras, “Mosca”, partigiano della “Vanni”. E la testimonianza di una contadina sostenitrice dei partigiani, Piera Malachina. Testimonianze che ci danno il senso dello sbandamento e della scarsa capacità di reazione dei partigiani.
Oggi citerò alcune testimonianze dei capi partigiani, riprendendo una ricerca che ho presentato alla Biennale della Resistenza di Santo Stefano Magra dell’ottobre 2022.
La ricerca conferma il giudizio dello storico Maurizio Fiorillo:
“La I Divisione Liguria era numericamente uno dei più temibili gruppi partigiani della Liguria, ma le brigate che la formavano erano cresciute troppo in fretta e avevano gravi problemi d’organizzazione e di disciplina, inoltre il coordinamento tra i vari comandi lasciava molto a desiderare. Tutti i nodi vennero al pettine il 3 agosto 1944, quando i tedeschi e i fascisti iniziarono un imponente rastrellamento nella zona controllata dalla I Divisione. Le formazioni partigiane non collaborarono tra loro e il comando di divisione non fu in grado di organizzare una difesa adeguata: si diffuse il panico e solo la strenua ed efficace resistenza della brigata Cento Croci permise ai resti delle altre brigate di ripiegare, seppure con gravi perdite”.
La relazione del comandante Mario Fontana scritta a ridosso dei fatti è molto chiara. Emerge che Fontana non sospettava assolutamente nulla e che fu informato del rastrellamento alle 6,15 del mattino del 3 agosto:
“Verso la fine del mese di luglio […] si ebbe al Comando la notizia, risultata poi falsa, che circa seimila alpini avrebbero desiderato passare alle Bande dei Patrioti. In attesa del colloquio richiesto dal Comandante di questi e fissato dal sottoscritto a Varese Ligure, si dovettero sospendere le ispezioni delle Brigate, già preventivamente disposte. […] Il mattino del giorno 3 agosto alle ore 6,15 circa lo scrivente venne informato dall’avv. Fortelli che i tedeschi avevano attaccato Noce. Recatosi al Comando, questa notizia, oltre che al rumore della fucileria, dei colpi di mitragliatrice e di mortai, veniva confermata dalle fumate che si innalzavano dal paese di Noce e, verso le ore sette, dall’arrivo dei primi sbandati i quali ripiegavano su Adelano, senza vincoli organici. Lo scrivente dichiara a questo proposito che durante l’intera giornata non ricevette da alcun comando comunicazioni di sorta”.
Fontana era caduto nel tranello ordito dal comandante della Divisione alpina Monterosa.
Anche le testimonianze di Marcello Jacopini, rappresentante del PCI nel comitato militare del CLN, di Gordon Lett e di Vero del Carpio. tutti nello Zerasco con funzioni di primissimo piano, confermano il disastro e le responsabilità generali dei comandi: la sera del 2 agosto c’era chi beveva vino, c’era chi litigava su questioni politiche… Nessuno aveva avuto sentore di nulla. La manovra tesa ad addebitare tutte le responsabilità a Primo Battistini “Tullio” – una vulgata che circolò per tutto il periodo resistenziale e dopo – è dunque priva di fondamento.
E tuttavia il rastrellamento, che fu certamente una drammatica battuta d’arresto per la Resistenza spezzina e lunigianese, non indicò una inversione di tendenza.
Le autorità fasciste, in fondo, lo avevano compreso: in un rapporto sull’agosto 1944 scrissero che “i ribelli sono stati di fatto sbandati, ma non è da escludersi e per molti indizi è probabile, che essi possano nuovamente ricostituirsi”.
Fu così: la moralità dei partigiani e dei contadini e gli ideali della Resistenza spinsero a riprendere la lotta. Gradualmente le formazioni si riorganizzarono e già il 3 settembre fu ricostituito il Comando di Divisione, sempre con Fontana come comandante. Pur non tentando una completa “militarizzazione” delle formazioni partigiane, Fontana cercò di uniformarne progressivamente l’organizzazione e la disciplina, dividendo anche con maggiore precisione le rispettive zone di operazioni; si cercava così di rendere più facili i rapporti tra le varie brigate e di promuovere più efficaci azioni coordinate. Alla “militarizzazione” si accompagnò la “politicizzazione”, con un ruolo crescente dei partiti, in primo luogo il Partito comunista e il Partito d’azione.
Nacque una sorta di esercito, anche se le bande, in fondo, ne costituirono ancora l’ossatura. Molto si guadagnò rispetto alla fase precedente, anche se forse qualcosa si perse: dal punto di vista della Resistenza come movimento dal basso, della banda come luogo di vita collettiva e di partecipazione. Forse si poteva operare una sintesi più alta. Pensiamo solamente al fatto che, nei nostri monti, un certo disegno di “militarizzazione” e di “politicizzazione” di segno giacobino portò all’uccisione da parte di partigiani del partigiano più eroico e più amato dalle popolazioni: Dante Castellucci “Facio”. Morì, innocente, a 24 anni.
Tra l’agosto 1944 e l’aprile 1945 ci furono altre, inaudite, sofferenze. Pensiamo, sul monte Gottero, al rastrellamento più grande e terribile: quello del 20 gennaio 1945. Ma i partigiani non si arresero mai. Venne il 25 aprile. I partigiani scesero dalle valli e liberarono Spezia, prima degli alleati.
Come poté accadere? Accadde perché la Resistenza, e la nostra in particolare, fu un grande moto popolare, con una forte connotazione morale. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche ai contadini delle valli. E decisive furono le donne.
Quell’apertura incondizionata verso l’altro che allora si manifestò è la cultura di cui abbiamo ancora bisogno. A cento anni dalla nascita ricordiamo don Lorenzo Milani, che in “Lettera a una professoressa” scrisse: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’immedesimarsi nell’altro per cercare tutti insieme di liberare, di autogovernare, di rendere degne le nostre vite: ecco la lezione perenne dei partigiani.
Dobbiamo reagire all’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta a oggi, animata dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza, che ha raccolto ben più di un successo. Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”. Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia della Resistenza e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Oggi, ricordando il rastrellamento del 3-4 agosto 1944, gli errori, gli umanissimi errori – perché gli uomini sono uomini, e anche i partigiani lo erano – ma anche gli atti di eroismo e gli slanci ideali dei partigiani e dei contadini, il loro sacrificio, la sofferenza e la morte di tanti, abbiamo raccontato la storia, contro la memoria “drogata e deformata”.
A ottant’anni dall’inizio della lotta partigiana dobbiamo essere consapevoli della portata del revisionismo, ma anche dei risultati nonostante tutto raggiunti grazie alla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura fascista, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
La Liberazione è la scossa che spalanca la possibilità di un’alternativa, l’atto che inaugura un nuovo rapporto con se stessi e prelude alla libertà.
Ognuno ha il diritto di condividere la propria memoria. Ma le istituzioni democratiche possono stare da una parte sola, contro l’altra parte. Dalla parte dell’umanità, della libertà, della giustizia. I fascisti non esprimevano alcun valore, se non quello della violenza e della morte.
La Resistenza fu difficile, fragile, romantica, coraggiosa, tormentata. Ma nonostante tutto è lì, e riemerge come un appiglio. E’ la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.
Viva la Resistenza antifascista!

Giorgio Pagano

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