Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Commemorazione del 77° Anniversario della Liberazione. Cantiere Navale Muggiano, 20 aprile 2022

a cura di in data 21 Maggio 2022 – 21:19

Commemorazione del 77° Anniversario della Liberazione
Cantiere Navale Muggiano
20 aprile 2022
Intervento di Giorgio Pagano
co-presidente del Comitato Unitario della Resistenza

Care lavoratrici, cari lavoratori,
ricordiamo oggi il 77° anniversario della Liberazione e il 78° anniversario dei grandi scioperi del marzo 1944, di cui furono protagonisti anche gli operai e i lavoratori del Cantiere del Muggiano.
Il Cantiere aveva allora oltre 3500 dipendenti, costruiva sommergibili e zattere da sbarco, e faceva riparazioni varie. Il movimento antifascista, nonostante tutte le difficoltà e i pericoli, era sempre stato presente in fabbrica durante tutto il ventennio fascista. Il movimento acquistò più forza e fiducia dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, ad opera di una congiura dei fascisti, dei capi militari e del Re. Il 29 luglio si tenne a Spezia una grande manifestazione di gioia e di speranza, per la pace e la libertà: erano in gran parte lavoratori in sciopero, tra loro c’era la maggioranza dei lavoratori del Cantiere. Due operai vennero uccisi: furono i primi caduti della Resistenza spezzina.

Nell’agosto del 1943 i lavoratori del Cantiere elessero i rappresentanti sindacali dei singoli reparti, che nominarono a loro volta una commissione di tre membri. Il Partito Comunista riuscì a creare un’organizzazione capillare costituendo i gruppi clandestini, con un responsabile in ogni reparto. In seguito fu costituito il Comitato di Liberazione Nazionale della fabbrica, presieduto dal comunista Giuseppe Tonelli, che operò in collaborazione con il socialista Mario Canale, il democristiano Armando Stretti, il repubblicano Ernesto Sommovigo e altri.
Dopo l’8 settembre 1943 -l’armistizio e la fuga del Re e dei capi militari al Sud, liberato dagli Alleati- il Nord fu invaso dalla Germania nazista, con l’appoggio di Mussolini e dei fascisti repubblichini. Tra l’autunno del 1943 e l’inverno del 1944 nacquero, ai monti, le prime bande dei “ribelli”, come venivano chiamati, all’inizio, i partigiani. I tedeschi premevano perché aumentasse la produzione di guerra e instauravano il controllo militare nelle fabbriche per impedire ogni agitazione. Le condizioni alimentari dei lavoratori spezzini erano estremamente dure. Sopravvivevano solo perché erano anche contadini e coltivavano verdura nei loro piccoli orti.
L’8 gennaio 1944 ci fu, al Muggiano, un grande sciopero, con rivendicazioni economiche. Ma leggiamo qualche riga su un altro episodio che dimostrò la maturità raggiunta dai lavoratori del Cantiere, avvenuto alla fine del gennaio 1944 e rievocato in un testo del 1974 scritto da alcuni operai, Aldo Cozzani, Armando Isoppo, Soresio Montarese, Mario Pistelli e Guglielmo Scaravella: “I tedeschi, sentendo avvicinarsi il momento della ritirata, per timore di un improvviso sbarco alleato, fecero scavare profonde buche nei punti nevralgici del cantiere, con l’intento di collocarvi delle mine e farle poi saltare prima della fuga allo scopo di distruggere tutti gli impianti. Gli operai, con la loro risoluta azione di protesta, rivolta ai dirigenti della fabbrica e ai tedeschi, riuscirono non solo a non far fare altre buche ma a far chiudere quelle già fatte”. Furono gli operai a salvare le fabbriche.
Ai primi di febbraio fallirono completamente le elezioni per il rinnovo delle commissioni interne, strumento del fascismo repubblichino: i votanti furono soltanto 785, con 668 schede bianche o annullate. Chi ebbe più voti non raggiunse quota 10.
Si giunse così allo sciopero del 1° marzo 1944. Fu uno sciopero deciso, all’inizio del 1944, dalla direzione del Partito Comunista, dopo aver consultato i rappresentanti dei comitati segreti di agitazione di Piemonte, Lombardia e Liguria. Le direttive non furono più semplicemente economiche ma anche e soprattutto politiche: contro la guerra, l’invasore tedesco e i fascisti, per fare cessare le deportazioni di uomini in Germania e bloccare la produzione. La decisione fu condivisa dal Comitato di Liberazione Nazionale, composto da tutti i partiti antifascisti. Nelle fabbriche delle tre regioni il lavoro si arrestò. Fu chiaro a tutti che si trattava di una battaglia gigantesca, di non minore importanza delle grandi battaglie militari della Resistenza. Fu il più grande sciopero che si sia mai avuto nell’Europa invasa.
Il 1° marzo gli operai del Muggiano entrarono in fabbrica e, alle 10, sospesero totalmente il lavoro, fino a sera, nonostante l’opera di persuasione e di intimidazione dei fascisti. Il 2 marzo gli operai trovarono la fabbrica presidiata da 50 uomini della famigerata X Mas. Ma anche quel giorno fu sciopero. Cominciò la caccia a coloro che erano ritenuti responsabili della lotta. In fabbrica furono fermati e portati in carcere Mario Pistelli, Giuseppe Tonelli e Filippo Dondoglio, poi, a casa, nella notte tra il 2 e il 3 marzo, Armando Cialdini e Ubaldo Colotto. Furono deportati in Austria, nel campo di sterminio di Mauthausen. Solo Pistelli tornò vivo dall’inferno. Il 2 sera il CLN decise di cessare lo sciopero, che aveva raggiunto il suo obbiettivo politico e rischiava ora di provocare molte vittime.
Dopo gli scioperi del marzo Hitler ordinò la deportazione nei campi di concentramento nazisti del 10% degli scioperanti, ma all’ultimo momento i rappresentanti tedeschi in Italia riuscirono, per la prima e unica volta, a far revocare un ordine del Fuhrer: lo fecero perché temevano la reazione degli operai italiani, e un’accelerazione insurrezionale nel Nord. Invece che 70.000, i deportati furono 1.200, con un’azione mirata verso i capi della rivolta operaia. Il male fu minore, per merito non dei tedeschi in Italia ma dei lavoratori italiani, che diedero un segnale di così grande forza da far prendere loro paura.
La forza degli operai derivava dal fatto che essi lottavano contro un nemico terribile come la fame, ma anche dall’acquisizione di una grande coscienza politica sul loro ruolo -come classe sociale- per sconfiggere il nemico nazista e fascista e per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale. La fame: facendo il 1914 uguale a 100, l’indice dei salari reali degli operai scese da 124 nel 1922 a 101 nel 1939 e a 27 nel 1944; tra il 1939 il 1942 il consumo annuo di grano dimezzò. E poi c’erano le bombe degli alleati, e il conseguente fenomeno dello sfollamento in campagna, con i rischi del pendolarismo quotidiano in fabbrica. Ma gli operai soffrivano non solo la fame. Soffrivano anche l’autoritarismo: in fabbrica vigeva infatti, come ho ricordato, un sistema autoritario di tipo militare.
Lo sciopero fu uno sciopero politico. Leggiamo la testimonianza del 1974 di Ioriche Natali, operaio dell’Oto Melara, anche lui deportato a Mauthausen, uno dei cinque sopravvissuti: “La direzione dello stabilimento era scompigliata e non trovò altro da fare che mandare in giro i propri capi per chiedere timidamente le ragioni dello sciopero. La risposta era pressoché unanime: ‘Questo sciopero serve per far tornare la pace al più presto’. Non ponemmo alcuna rivendicazione economica, a differenza della fermata di gennaio. Lo sciopero era uno sciopero politico, di insurrezione nazionale, un atto chiaramente rivoluzionario popolare”.
E fu uno straordinario successo politico: servì a legittimare la Resistenza e a delegittimare l’occupante tedesco e la Repubblica fascista, e a sostenere le bande armate partigiane, anche se era ancora troppo presto per l’insurrezione popolare. Fu, come ho detto, il più grande sciopero in Europa, a dimostrazione che nell’intreccio di scioperi e di guerriglia, di azioni militari e di rivendicazioni sociali, di Resistenza sociale e civile e di Resistenza armata risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana.
La Resistenza non fu solo armata, ma comprese tutta una varietà di comportamenti e di vissuti che il popolo italiano mise in atto: lo sciopero degli operai, il sostegno dei contadini e delle donne, l’impegno dei sacerdoti, il rifiuto della Repubblica di Salò da parte dei militari italiani internati nei campi nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre.
Così come la Resistenza non fu una sorta di guerra privata tra fascisti e comunisti. Con i comunisti c’erano gli azionisti, i socialisti, i cattolici, i liberali, i monarchici, i democratici senza partito, gli anarchici.
Per tutto l’antifascismo fu sempre molto chiaro l’obbiettivo politico. Lo spiegò molto bene Anelito Barontini, che nel 1944 era segretario provinciale del Pci, nel 1974: Hitler era stato sconfitto dai sovietici a Stalingrado, gli anglo-americani erano sbarcati nel Sud, “si poneva con urgenza la necessità politica di un intervento della classe operaia e dei lavoratori italiani anche per evitare al Paese il pericolo di un processo, da parte degli alleati, di semicolonizzazione. Pertanto era necessario e doveroso che il popolo italiano, nel suo stesso interesse, facesse sentire la sua volontà di lotta e il contributo della sua forza nella battaglia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale: condizione indispensabile per l’avvenire del Paese e per la stessa unità nazionale”. Fu proprio grazie a questa impostazione che alla Conferenza di Pace dell’agosto del 1946 a Parigi il Presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi, poté rivolgersi al mondo appena uscito dalla guerra tutelando la dignità degli italiani, nonostante l’alleanza dei fascisti con i nazisti: perché parlava a nome di tutti gli antifascisti che avevano ridato all’Italia l’onore perduto.
Gli operai che si formarono nelle lotte clandestine e nella Resistenza in fabbrica e militare divennero poi, dopo la Liberazione, i dirigenti sindacali e politici e gli amministratori pubblici della città e della provincia. Fu una generazione che espresse una classe dirigente di livello. Fu una classe operaia “di lotta e di governo”, che gestì le fabbriche dopo l’aprile 1945 con i CLN aziendali e i Consigli di Gestione: esperienze che per motivi diversi -soprattutto per le difficoltà frapposte dal mondo imprenditoriale e dalle autorità governative- conobbero un fatale declino, ma che restano come un esempio di protagonismo e assunzione di responsabilità di “governo” da parte dei lavoratori. Anche nei durissimi anni successivi -la guerra fredda, la rottura dell’unità antifascista, la chiusura delle fabbriche, i licenziamenti politici- quello spirito visse nell’esperienza della prosecuzione della produzione nelle fabbriche occupate. Con le mobilitazioni a difesa del Muggiano alla fine degli anni Sessanta si aprì una pagina nuova del movimento dei lavoratori a Spezia, e si affacciò sulla scena una nuova generazione di dirigenti politici e sindacali. Io feci in tempo a conoscere e ad apprezzare Barontini, Pistelli e Natali sopravvissuti a Mauthausen, e poi naturalmente la nuova generazione di dirigenti operai degli anni Sessanta e Settanta. Un nome solo per il Muggiano: Dino Grassi. Da loro ho imparato il rigore morale, il senso della “missione”, la capacità di ascolto e di dialogo con le energie popolari. Certo, molto è cambiato da allora. Dagli anni Ottanta il mondo del lavoro è stato frantumato e diviso, e oggi è molto solo, con scarsa coscienza di sé. I lavoratori dipendenti, precari, autonomi attendono non solo una proposta di rappresentanza dal punto di vista economico ma anche una visione del mondo, una prospettiva di cambiamento e di lotta alle diseguaglianze che riconosca loro un ruolo nella società. E’ questa la questione della politica: la politica ha un ruolo solo se rappresenta il lavoro e non è subalterna all’economia. Il suo problema è la capacità di rappresentare il lavoro e di battersi per la sua dignità. Dignità del lavoro e dignità della politica si accompagnano: non c’è l’una senza l’altra.
Ma a tal fine non siamo affatto senza bussola, anzi. Abbiamo, nonostante tanto sia cambiato, la bussola della Costituzione nata dalla Resistenza, che non è un retaggio del passato ma un progetto per il futuro.
In un’Italia in cui ci sono quattro morti sul lavoro al giorno (1.221 morti nel 2021), in un’Italia che è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti negli ultimi trent’anni, possiamo, dobbiamo, ancorarci a questo progetto. Un felice compromesso tra tutte le principali correnti ideologiche e forze politiche, un testo attualissimo, ma ignorato, disapplicato, quando non avversato.
Leggiamo, per esempio, l’articolo 36:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
O, ancora, l’articolo 41:
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Ecco qual è il problema della politica: tornare a questa lezione, a questo progetto per il futuro. Perché è solo sulla strada segnata dalla Costituzione che è possibile costruire un’altra Italia, migliore e più giusta.
La Costituzione nata dalla Resistenza ci indica la strada anche di fronte alla realtà sempre più drammatica della guerra. Ci eravamo illusi in Europa per questi anni di pace (ma solo in Europa, anzi solo in Europa occidentale! Ricordiamoci del Kossovo). Ma l’aggressione della Russia all’Ucraina sta massacrando un popolo e rischia di trasformarsi in guerra generale, e quindi nucleare: l’ultima guerra.
Il carattere micidiale assunto dalla guerra dopo la bomba atomica fu compreso dai nostri partigiani, che pure vinsero anche con le armi, quando divennero costituenti. Scrissero nella Costituzione l’articolo 11 usando il verbo più forte, “ripudiare”:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
“Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento.
E’ l’ora, più che mai, del cessate il fuoco, del negoziato, della costruzione della pace.
La Costituzione è, per tutti noi, un terreno di unità sui fondamenti.
Viva la Resistenza, viva la Costituzione, viva il 25 aprile!

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