Cerimonia commemorativa del 79° Anniversario della prima liberazione di Carrara e dell’eccidio di Avenza. 10 Novembre 2023 – Intervento di Giorgio Pagano
Cerimonia commemorativa del 79° Anniversario della prima liberazione di Carrara e dell’eccidio di Avenza
10 novembre 2023, Avenza
Intervento di Giorgio Pagano
Copresidente del Comitato provinciale Unitario della Resistenza della Spezia
La commemorazione della prima liberazione di Carrara e dell’eccidio di Avenza è un omaggio alle vittime, è un doveroso ricordo di vicende che ci parlano ancora, ed è un momento di valorizzazione del ruolo della Resistenza apuana nella lotta di Liberazione.
Questo ruolo fu riconosciuto dal nemico più feroce, il maresciallo Kesselring, nel processo che subì nel dopoguerra:
“La guerriglia dei partigiani apuani era un continuo pericolo per i piani del comando germanico in quel territorio e perciò doveva essere affrontata con ogni mezzo”.
Ricordo, tra i protagonisti della Resistenza apuana, un solo nome per tutti: Gino Menconi, avenzino, che più di ogni altro si impegnò non solo per il suo partito – il Partito comunista – ma anche per l’unità della Resistenza apuana e poi per quella parmense, per la quale si immolò, a Bosco di Corniglio il 17 ottobre 1944.
Fu una Resistenza che all’inizio vide protagonisti soprattutto i militari e i vecchi antifascisti. Poi i giovani, soprattutto renitenti alla leva della Repubblica di Salò.
L’antifascismo apuano coinvolse tutti gli strati sociali ma fu soprattutto operaio: dei cavatori e dei lavoratori del marmo.
Un antifascismo operaio con una grande continuità di lotte, dal Risorgimento in poi: forze repubblicane, anarchiche, socialiste, poi anche comuniste; forze laiche ma anche cattoliche. Con il protagonismo delle donne, a cominciare da quelle dei carretti: le donne che portavano il sale nel Parmense per scambiarlo con beni alimentari, in viaggi lunghi, faticosi, pericolosi.
Oggi ricordiamo due eventi tra loro legati.
A inizio novembre 1944 a Carrara la RSI si stava dissolvendo. Con lo sfollamento di Massa e lo spostamento della sede della provincia a Pontremoli, la zona di Carrara restò di fatto sotto la responsabilità dei soli tedeschi. Molti fascisti furono uccisi dai partigiani. Il presidio della GNR di Carrara fu costretto a ritirarsi dalla città.
Leggiamo alcuni brani dell’intervento di Pietro Isoppi nel Consiglio Comunale di Carrara, nel 1975, sulla prima liberazione di Carrara.
Furono giorni di paura, tensione, esaltazione, gioia:
“A mio parere ciò che accadde in quelle giornate di novembre fu di grande importanza poiché per la prima volta il movimento partigiano (che fino allora aveva operato nelle montagne) si presentava nelle strade della città a viso aperto assumendo l’enorme responsabilità che gli veniva dall’azione stessa che intraprendeva. Tutto iniziò, infatti, quando fu deciso di bloccare l’azione di alcune spie (un uomo e una donna) che si erano infiltrati tra i partigiani al piano, alcuni dei quali già arrestati. [Furono 18 gli arrestati tra il 6 e il 7 novembre; i tedeschi stavano per fucilarli: alle 18 del 7 il partigiano Alessandro Brucellaria “Memo” fu avvisato a Fantiscritti da una telefonata dal piano].
Sapevamo però che questa azione avrebbe messo in pericolo indubbiamente la vita dei compagni arrestati e che avrebbero provocato certamente gravi rappresaglie per la città.
Ricordo perfettamente che mentre si stava per catturare i due elementi (che erano a mangiare in una trattoria assieme ad alcuni tedeschi) fummo fermati dalle preghiere dei genitori dei prigionieri. Il mattino successivo mentre gli stessi ‘figuri’ uscivano dall’albergo Carrara ed avendo avvertito il pericolo si recavano alla piazza per prendere un mezzo e fuggire, furono affrontati da alcuni partigiani. Mentre l’uomo riusciva a fuggire la donna tentava di estrarre una pistola dalla borsetta ma veniva colpita e uccisa. […] Furono coinvolti in questo anche alcuni militari tedeschi che vennero attaccati e uccisi. [L’azione fu diretta da Giovanni Mariga “il Padovan”].
A questo punto fu deciso di fare entrare le formazioni partigiane. Fu veramente un momento grave. Ognuno di noi sentiva il peso della decisione presa che offuscava la gioia e l’esaltazione dell’azione. Era una città intera, le nostre madri, le nostre famiglie, che mettevamo in prima linea accanto a noi. La rappresaglia tedesca sarebbe stata certamente violenta e inesorabile, ma ricordo chiaramente che mentre si scendeva lungo le strade cittadine […] si diceva che non si sapeva come sarebbe andata a finire, ma che avremmo dovuto farci ammazzare tutti prima di cedere la città alla rappresaglia tedesca.
Ma quando arrivammo alle soglie della città, vedemmo che erano tutti pronti.
[…] Cittadini di tutte le classi, alcuni con il cappello e il cappotto ma con la pistola in pugno. [c’era anche chi imbracciava un vecchio fucile che non avrebbe mai sparato un colpo].
Sentimmo allora veramente tutta la grandezza del momento […]. E tutto questo forse fu afferrato dallo stesso nemico che, impressionato da una situazione inaspettata e che gli avrebbe creato delle gravi conseguenze subito dietro le linee del fronte, chiese di parlamentare e di incontrarsi con i partigiani a un tavolo di trattativa. […] Si stabilì che sarebbero stati restituiti i prigionieri catturati in quei giorni, che non sarebbero stati effettuati atti di rappresaglia da parte tedesca o rastrellamenti di civili.
La città non subì alcuna rappresaglia e alla sera stessa i partigiani furono liberati fra la commozione e la gioia di tutta la popolazione”.
Il comandante “Memo” e il commissario politico “Rigo” scrissero una lettera ai partigiani: dobbiamo essere “giusti e onesti”, per essere considerati, dagli alleati, “meritevoli di essere liberi”.
Da questa vicenda emerge il coraggio ma anche la maturità, la consapevolezza della Resistenza apuana.
Gli alleati non sarebbero arrivati, a quel punto la trattativa era l’unica strada percorribile.
Non ci fu indifferenza verso Avenza. Si pensava che la tregua reggesse.
Ma la mattina del 10 – mentre a Carrara si trattava – i tedeschi arrestarono il partigiano sappista Loris Vanni. Forse per una delazione. I partigiani lo liberarono, fecero prigionieri tre tedeschi ma poi li lasciarono andare.
E invece ci fu il rastrellamento nelle vie e nelle case, e l’eccidio.
Undici i morti: Argante Orsini, Umberto Pisani, Gino Brizzi, Angelo Menconi, Bernardo Bruschi, Ferdinando Tenerani, Paolo Mannini, Vittorio Genovesi, Primo Marchi, Filippo Pisani, Guido Pucciarelli. A cui aggiungere Angelo Pellicano, ucciso nel confinante territorio del Comune di Massa.
I nazisti volevano creare un caso contrapposto a quello di Carrara. Reagirono così a quanto avvenuto a Carrara, perché ne erano fortemente preoccupati.
Fu una prima risposta, poi venne quella – molto più terribile ancora – del rastrellamento del 29 novembre 1944.
I partigiani agirono con il loro realismo. I tedeschi con il loro realismo. A Carrara erano molto preoccupati, e furono loro a proporre di trattare. Ad Avenza erano liberi di comportarsi come si erano comportati i tedeschi nelle orrende stragi dell’estate del 1944 In Toscana nord occidentale e poi a Marzabotto Monte Sole, e purtroppo lo fecero.
I partigiani possono anche, forse, aver commesso degli errori. Ma è troppo facile dirlo. C’era una guerra feroce, condotta da un oppressore contro un oppresso. Erano giovanissimi: “Memo”, il comandante, aveva trent’anni. La ragione è in ogni caso dalla loro parte, il torto dalla parte dei tedeschi. La ragione della libertà contro la dittatura, la ragione della moralità – pur in uno scontro violento – contro l’odio e la crudeltà dell’oppressore.
Ci fu la convivenza complessa con questa oppressione: la Resistenza armata, la Resistenza sociale e civile, senza la quale la prima non ce l’avrebbe mai fatta, ma anche l’indifferenza e la passività, e pure il collaborazionismo con l’invasore. Ma la grande massa voleva la pace, la libertà e la giustizia: per questo fu contro il fascismo. Se la Resistenza, pur avendo breve durata – venti mesi – ha avuto così grande influenza nella storia, ciò è dipeso dalla sua scelta morale e politica di fondo: aver contrapposto al nazifascismo la pace, la libertà, la giustizia.
Una minoranza prese le armi. Contro un’altra minoranza. Ma in mezzo non ci furono solo indifferenza e passività. Si sviluppò la Resistenza sociale e civile, che affiancò quella in armi. Ecco perché possiamo parlare di un grande moto popolare.
Gran parte del popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai ai contadini. E decisive furono le donne.
Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una guerra popolare perché il popolo – anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre – ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza, perché anche di questo si trattò, e per la vittoria. I partigiani apuani sopravvissero nei durissimi inverni 1943-44 e 1944-45 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne di queste montagne e di questi paesi, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Oggi ricordiamo dunque non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; non solo i comandanti militari, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti.
Tutti fecero la scelta morale: per il bene contro il male, per la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche collettivo, per la libertà contro la dittatura.
Le pagine più belle sulla scelta, dal punto di vista dell’analisi storica, le ha scritte Claudio Pavone in Una guerra civile, che non a caso ha come sottotitolo Saggio storico sulla moralità della Resistenza (cioè il titolo che Pavone avrebbe voluto dare al libro). Dopo i primi giorni la spontanea, umana solidarietà – quella manifestatasi subito dopo l’8 settembre con l’aiuto ai soldati di un esercito in rotta – non fu più sufficiente. Le truppe tedesche cominciarono a dare un minimo di formalizzazione alla loro violenza, i fascisti crearono la Repubblica Sociale:
“La scelta da compiere divenne più dura e drammatica… dovette infatti esercitarsi tra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizzazione nazifascista”. Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza:
“Una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”.
Continua lo storico: “Per la prima volta nella storia d’Italia gli italiani vissero in forme varie un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di enorme rilevanza educativa per la generazione che, nella scuola elementare, aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: ‘Quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza (in caratteri più grandi). E la terza? L’obbedienza (in caratteri enormi)”.
Un secondo elemento da prendere in considerazione, secondo Pavone, è che la scelta fu compiuta nella “responsabilità totale nella solitudine totale”, una solitudine profonda a cui non sfuggirono nemmeno i cattolici, che pure avevano alle spalle le uniche istituzioni che non erano crollate.
C’è nei resistenti una varietà di motivazioni individuali molto ampia, che si iscrivono tutte in un “clima morale”, che accomuna la scelta partigiana a quella compiuta nei campi di internamento in Germania dai militari che preferirono quell’inferno all’adesione alla Repubblica sociale: 650.000, su 800.000, dissero di no. La scelta morale fu rinnovata nei successivi, difficili mesi:
“La scelta va considerata piuttosto che come un’istantanea illuminazione come un processo che talvolta si apre la strada a fatica, perché affaticati sono gli uomini che lo vivono”.
Ciascuno si trovò solo di fronte alla propria scelta. Ogni partigiano ebbe un suo caso di coscienza, un suo personale ardimento. Ma da tutte queste storie individuali sorse una storia collettiva. Fu questa dimensione morale, che Piero Calamandrei indicava come una sorta di impulso diffuso, generato “da una voce sotterranea”, a indicare agli italiani la via della ribellione e del riscatto.
Questa dimensione morale è la radice della Resistenza e della Costituzione. Ed è la radice che si vuole estirpare.
Questo è il motivo che rende importanti il ricordo, la memoria, la conoscenza della storia.
L’offensiva revisionista in corso dagli anni Ottanta, spinta dalla volontà di mettere in discussione il significato storico, politico ed etico della Resistenza e dell’antifascismo, ha raccolto ben più di un successo. Sta avendo un’accelerazione in questi mesi.
Pensiamo all’incredibile vicenda del rifiuto di attribuire una via a Sandro Pertini, da parte della maggioranza del Consiglio comunale di Lucca. Non è stato solo un oltraggio al comandante partigiano, ma anche al Presidente della Repubblica. Il tutto tra urla, schiamazzi, grida “A noi!”. E’ una vicenda che colpisce i valori e i sentimenti di tutti i democratici ed è simbolica di una deriva sempre più preoccupante di una destra estrema che sempre più apertamente si richiama al fascismo e che vuole fare tabula rasa della cultura popolare e istituzionale antifascista di cinquant’anni di repubblica.
Il problema vero, ha scritto la storica Chiara Colombini, non è “tanto la perdita della memoria della Resistenza, ma piuttosto la presenza fin troppo concreta di una memoria drogata e deformata”.
Se così è, serve tornare testardamente a raccontare la storia e le storie delle donne e degli uomini che l’hanno vissuta, cercando di conoscere ciò che è stato e di rivendicarlo per come è stato. Conoscere, rivendicare ogni azione partigiana, come abbiamo fatto oggi.
Serve anche tornare testardamente a raccontare che cosa fu il fascismo: il fulcro di questo racconto è la violenza.
Se raccontiamo questa storia, queste storie, ci accorgiamo sì della portata del revisionismo, ma anche delle ragioni della Resistenza. E dei risultati nonostante tutto raggiunti, grazie a queste ragioni, dalla Resistenza: l’aver avviato alla democrazia un Paese uscito da vent’anni di dittatura, la “presa di parola” delle persone, la conquista della Repubblica e della Costituzione, che ha consentito a quella democrazia di reagire a crisi profondissime. La Resistenza ha creato anticorpi mai andati perduti, che ci parlano ancora e che sono una risorsa per il futuro. Delle ragioni di quel miracolo lontano ci resta la speranza della partecipazione, la voglia di prendere in mano la nostra vita.
L’antifascismo è dunque una cultura “fondante”, che serve nel mutare dei tempi.
Leggiamo le parole profetiche dello storico Sergio Luzzatto in La crisi dell’antifascismo (2004):
“In un giorno non lontano, fuori d’Italia e forse anche dentro il nemico avrà un altro nome e un altro volto. Probabilmente quel nuovo ‘ismo’ ancora da battezzare sarà una miscela di rigurgito patriottico e di anelito mistico, di religione del mercato e di ideologia dello scontro tra civiltà: sarà un ‘totalitarismo democratico’ che pretenderà di far coincidere la globalizzazione economica con l’occidentalizzazione politica e culturale del pianeta, una guerra dopo l’altra, sempre più restringendo e privatizzando le libertà civili. Entro un simile scenario, e mentre la fragilità della democrazia appare evidente persino tra le mura del tempio americano, come non riconoscere che quanto noi italiani intendiamo per antifascismo minaccia di riuscire un patrimonio di cose non solo desuete, ma anche periferiche, marginali?
Insomma, può ben darsi che l’antifascismo giaccia oggi sul suo letto di morte: malato terminale di ritualità, di credibilità, di senilità, e addirittura di eccentricità. Ma può essere che valga la pena di impegnarsi a mantenerlo in vita ancora un po’ -almeno finché non si sia trovato di meglio- senza meritare con questo una denuncia per accanimento terapeutico. E forse il tentativo è tanto più opportuno o addirittura necessario nel contesto della vita politica italiana, dove la morte dell’antifascismo rischia di significare non già una rinascita, ma l’agonia della democrazia”.
E’ così: non c’è democrazia senza antifascismo. Non è vero che l’antifascismo è giunto al tramonto. E’ più attuale che mai, contro quei nuovi “ismi” che prevedeva Luzzatto: sovranismo cioè nazionalismo aggressivo ed escludente. Presente in tutti i Paesi, declinato in tanti sotto “ismi” diversi.
Ancora la Patria. Ancora la Nazione, la Tradizione…
Oggi i leader di questi “ismi” dicono “Prima gli italiani”.
Ma quando gli stranieri erano gli occupanti tedeschi i loro vassalli fascisti li affiancavano – e molto volentieri – nelle stragi dei civili (italiani), nelle cacce all’uomo e nelle deportazioni degli oppositori politici (prevalentemente italiani) ed ebrei (prevalentemente italiani).
C’è un “fascismo eterno”.
Ha scritto Umberto Eco (1995): “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”.
Caratteristiche tipiche del “fascismo eterno”, secondo Eco, sono il culto della tradizione, il culto dell’azione per l’azione e il sospetto verso il mondo intellettuale, la paura della differenza e il razzismo, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto e la xenofobia, la concezione della vita come una guerra permanente, l’elitismo e il disprezzo per i deboli, il culto della morte, il machismo, il populismo e il disprezzo per il Parlamento (la riforma costituzionale che la maggioranza sta per varare, basata sulla filosofia dell’uomo solo al comando, che cos’è se non un attacco al Parlamento?).
E c’è un “antifascismo eterno”.
Ha scritto Giovanni De Luna (1995):
“Ci si può riferire all’antifascismo come a una forma particolare della concezione della politica totalmente svincolata dal canonico ambito cronologico del ventennio fascista e definita attraverso elementi che appartengono drammaticamente alla realtà del nostro tempo: la tolleranza, la libertà, i diritti degli uomini, l’uguaglianza, la giustizia, il rispetto delle regole e della convivenza civile”.
Dobbiamo aggiungere: la pace, una rinnovata coesistenza pacifica.
La pace era il vero valore, e il vero obiettivo, di chi combatté la guerra di Liberazione. La guerra di Liberazione voleva la fine della guerra, la fine di tutte le guerre, la condanna della guerra, come male non riparabile. E la ricerca della pace, come principio di civiltà contrapposto alla barbarie di ogni ideologia della morte. Di cui il fascismo era – e portava sulle proprie divise – l’emblema.
Non a caso l’art. 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. “Ripudiare” vuol dire non riconoscere più come proprio qualcosa che pure è nostro, o lo era fino a quel momento. Il carattere micidiale assunto dalla guerra fu cioè compreso dai resistenti, che pure avevano vinto anche con le armi, quando divennero costituenti.
Rafforziamo, allora, l’unità di tutte le forze di pace del nostro Paese e il dialogo tra tutte le forze antifasciste per ricercare, in Ucraina, in Israele e in Palestina e dovunque nel mondo c’è la guerra, la via del negoziato. Cessate il fuoco, negoziate! Basta uccidere!
Ma l’antifascismo è sempre stato anche un fatto sociale, è sempre stato legato anche alla giustizia sociale. L’antifascismo vive se parla anche dell’oggi. Se parla ai lavoratori, ai ceti più poveri.
In un’Italia in cui ci sono quattro morti sul lavoro al giorno, in un’Italia che è l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti negli ultimi trent’anni, in un’Italia in cui la pandemia ha aggravato e complicato la mappa delle diseguaglianze e della povertà, possiamo, dobbiamo, ancorarci al vero tratto distintivo della Resistenza italiana ed europea, e in particolare a quel progetto di futuro che è la nostra Costituzione.
Leggiamo l’articolo 36:
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
O, ancora, l’articolo 41:
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Ecco qual è il problema della politica: tornare a questa lezione, a questo progetto per il futuro. Perché è solo sulla strada segnata dalla Costituzione nata dalla Resistenza che è possibile costruire un’altra Italia, migliore e più giusta. La Costituzione è davvero la via maestra!
Ognuno ha il diritto di condividere la propria memoria. Ma le istituzioni democratiche possono stare da una parte sola, contro l’altra parte. Dalla parte dell’umanità, della libertà, della giustizia. I “ragazzi di Salò”, alleati dei nazisti, non esprimevano alcun valore, se non quello della violenza e della morte.
Ricordiamo, nell’Ottantesimo, ogni caduto. Dobbiamo farlo perché la Resistenza, quell’esperienza nata quasi ottant’anni fa, difficile, fragile, romantica, coraggiosa, nonostante tutto è lì, e riemerge come un appiglio. E’ la cosa migliore che abbiamo avuto, e che abbiamo.
Viva la Resistenza antifascista!
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