Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Arte e cultura in relazione allo sviluppo urbano e portuale

a cura di in data 23 Settembre 2014 – 16:15

SWITCH ON. COSTRUIAMO INSIEME L’EUROPA CREATIVA
Meeting internazionale
Ravenna, 20-21 settembre 2014
“ARTE E CULTURA IN RELAZIONE
ALLO SVILUPPO URBANO E PORTUALE”
Intervento di Giorgio Pagano

1 Il rischio dell’ “assedio edilizio” e dei catenacci ben chiusi
Il termine stesso che qui utilizziamo – waterfront – a livello mondiale si è via via corrotto rispetto all’origine. Vi prego di considerare e intendere insieme, ma solo provvisoriamente e per uso comune del nostro incontro, come waterfront delle città, in genere marittime ma anche non direttamente marittime, non più e non tanto lo sviluppo sull’acqua dell’intera città o di sue parti consistenti , come sarebbe rigoroso intendere a livello culturale e come è nella ricerca e negli studi negli ultimi venti anni. Bensì le porzioni, certo significative, di molte città nel mondo, che hanno mutato o intendono mutare il loro carattere da quello cantieristico, produttivo, manifatturiero, portuale di un tempo – definibile molto sommariamente come non urbano – a quello decisamente urbano.
Il punto però, se si osservano con attenzione i contesti italiani concreti, è se ciò abbia anche, cosa non obbligatoria, qualcosa a che fare con la riforma del modo di funzionare dei porti ovvero, piuttosto, con l’obiettivo assai meno interessante dell‘estensione “qualsiasi” e indifferenziata delle città a tali porzioni, forse, in tendenza, verso un ancora più pesante “assedio edilizio” al porto.
Avere a che fare con i porti e la riforma dei loro modi di funzionare significa, per esempio, che esistono aree portuali che possono essere valorizzate e integrate nel tessuto urbano, come quelle destinate all’accoglienza dei passeggeri delle navi che nei porti attraccano e, nello stesso tempo, alle passeggiate nel porto dei cittadini e degli utenti della città.
Occorre invece parlare di “assedio edilizio” specialmente nei casi in cui l’invenzione di importanti servizi ex novo e di qualità per la città e il territorio non è stato il principale obbiettivo, nei fatti, delle operazioni di trasformazione definite, a ogni costo, di rinnovo del waterfront: esse erano o sono piuttosto mera espansione edilizia, sia pure dotata di piazze e parcheggi e, talvolta, di giardini.
Quante mai “porte a mare” si sono rivelate nuovi fortilizi edificati auto segreganti e ben poco caratterizzate neppure dallo stesso accesso materiale all’acqua, oltre che ben poco innovative/incrementative di servizi di uso generale, salvo, al solito, qualche struttura di media distribuzione commerciale! E’ il caso, per esempio, di Livorno: in una parte un nuovo cantiere di minori capacità ha sostituito il cantiere preesistente, senza possibilità di apertura alla città; mentre nell’altra parte si sono costruiti residenze e negozi.
Le “porte a mare”, di cui raramente è stato chiarito bene se “al mare” ovvero “dal mare”, non hanno avuto in genere nessuno dei due significati ma semmai quello di un catenaccio tenuto ben chiuso. Avrebbero dovuto contenere, prima di ogni altra cosa, l’estensione dei viali alberati o dei lungomari (è tuttora il tema effettivo dei fronti marini di Napoli, Cagliari, Palermo e La Spezia per esempio). Cioè, in sostanza, la crescita delle relazioni quotidiane fra gli utenti delle città e il loro mare o fiume o lago che sia (è stata l’interpretazione almeno iniziale a Barcellona e a Lisbona). E solo in seguito avrebbero potuto essere rafforzate da “consistenti” e ben calibrate attività nuove e qualificatissime per l’intera città , molto immerse nella vegetazione e molto servite da strumenti di mobilità innovativa di qualità, dotata di interscambi celeri adeguati ai flussi.

2 La distruzione e/o il recupero del patrimonio immobiliare dismesso
Anche se non è o non sarebbe proprio un requisito dovuto, uno degli elementi che emerge nelle esperienze italiane, anche se non in tutte e con valide eccezioni, è la diffusa tendenza, tutta da discutere (sia in generale che nei casi specifici), alla preliminare eliminazione delle preesistenze spesso senza nemmeno conoscerle appieno e nella loro potenzialità di reddito ove recuperate, specie nelle parti strutturali, tanto più ove fossero co-dotate di adeguate impronte architettoniche contemporanee.
Non deve essere aprioristicamente negato che la scelta, assai spesso compresente negli stessi siti e luoghi, fra distruzione/eliminazione e recupero/riuso degli apparati produttivi dismessi dipende direttamente e sperimentalmente dal loro studio su basi scientifiche ampie ed adeguatamente supportate. Insomma dagli studi urbani di setaccio che nessuna preventiva discussione metodologica può assolutamente sostituire. Alla Spezia, per esempio, uno studio a setaccio critico dell’esistente ha fatto scoprire che un capannone portuale per tutti senza qualità non lo è affatto e può divenire sede di attività teatrali e della danza.
Ciò si dimostra evidentissimo nei casi in cui trattasi di interi grandiosi comparti come quello straordinariamente costituito dal caso del Porto Franco Vecchio, di fondazione asburgica e dalle strutture metalliche solidissime, presente nella parte tuttora amministrativamente portuale della città di Trieste, peraltro dotato già di impianti aggiornabili e di pavimentazioni relativamente di pregio e soprattutto della nervatura diffusa di binari, selezionabili ma anch’essi aggiornabili.
Esagerando volutamente si potrebbe affermare che basterebbe aprire i cancelli e abbattere le barriere per veder riportare alla vita, in questa porzione straordinaria di città, a suo tempo aggiunta al mare, attività del tutto miste e del tutto ordinarie ma qualificanti, come quelle culturali di pregio, e dai flussi consistenti: semplicemente restaurando e mettendo a norma, con impegno finanziario contenuto, anziché distruggendo per principio. Il tema è presente nella nuova idea progettuale del waterfront triestino; nel piano precedente erano state previste, invece, la distruzione di tutto l’esistente, sostituito con nuove edificazioni.
Una assunzione critica dell’esperienza italiana dei waterfront comporta perciò la necessità di riflettere bene sulle conseguenze della rinuncia all’uso di un amplissimo patrimonio, determinante per la sostenibilità economica e ambientale degli interventi.
Naturalmente le situazioni variano e vanno esaminate e studiate una per una. Ma si può sostenere, in generale, che preservare il patrimonio storico-architettonico e culturale di un paesaggio d’acqua significa conservarne l’identità, enfatizzarne le caratteristiche peculiari e dare continuità alla storia. La tutela del passato e delle tradizioni locali diventa anche un modo per evitare il rischio della “standardizzazione” omologante dei waterfront, tutti assimilati a una sorta di parco tematico postmoderno, senza compresenza di “locale” e “globale”.

3 Il filtro: paravento o relazione
E’ stato utilizzato negli ultimi anni, con una certa dose di equivocità probabilmente voluta, l’attributo urbanistico di “filtro” città-porto alle previsioni o agli interventi (più previsioni che interventi: il caso di maggiore notorietà è quello del porto di Napoli, il cui piano prevedeva, tra città e porto, enormi volumi con residenze e servizi) di cosiddetta “riqualificazione” dei bordi urbani, spesso molto ampi, delle aree portuali come generate e cresciute almeno fino agli anni settanta.
Anziché essere concepiti, più modestamente forse, come effettivi spazi derivati dalla eliminazione delle antiche barriere, non sempre giustificate, i filtri sono per lo più intesi come veri e propri alti paraventi volumetrici ben corposi. Insomma espansioni più o meno mascherate a ulteriore sottrazione dello spazio vitale sia della città che del porto, che, anche nella sua evoluzione/rivoluzione funzionale contemporanea ne ha altrettanto bisogno della città, ne ha bisogno “insieme” alla città.
Può trattarsi, invece, di un’occasione, non ripetibile o poco ripetibile, di tracciare una sorta di ammagliamento ecologico, a forte componente vegetazionale e altrettanto fortemente dotata di elementi chiari di mobilità urbana alternativa alle automobili e nello stesso tempo innovativa e sicura per/dal porto e dal lungomare.

4 L’accesso pubblico requisito irrinunciabile
Alla luce delle criticità fin qui denunciate, si può sostenere che l’obbiettivo della riqualificazione e del recupero dei waterfront deve essere la riappropriazione e la fruizione libera e continuativa da parte dei cittadini del luogo, oltre che dei turisti. Spazi pubblici, percorsi pedonali e ciclabili, funzioni e itinerari culturali e naturalistici possono svolgere una funzione “attrattiva” di un territorio accessibile a tutti. La mobilità e il trasporto, anche quello d’acqua, vanno riorganizzati per consentire questa accessibilità. Il rischio da evitare è che l’intervento immobiliare privato, inteso come opportunità per ripianare i costi degli interventi, vada a scapito degli spazi e delle funzioni pubbliche e del requisito dell’accessibilità. Il mix delle funzioni previste, cioè la promozione di destinazioni d’uso molteplici, quelle culturali in primo luogo, può essere un punto di forza a patto che tenga ferma l’irrinunciabilità di questo requisito.
Oggi, dopo l’esplosione della bolla speculativa immobiliare che ha visto in questi anni i waterfront come nuove aree da densificare, si impone una nuova visione orientata alla qualità e alla concezione dei waterfront come “beni collettivi”. E’ con questa nuova visione che occorre fronteggiare il problema emerso in Italia in questi anni: il contrasto tra i tanti, e ambiziosi, progetti presentati, e l’esiguità delle realizzazioni.

5 Il rapporto pubblico-privato, gli investimenti pubblici e la partecipazione dei cittadini
La riqualificazione dei waterfront è campo di sperimentazione di forme di partenariato tra pubblico e privato, positive nella misura in cui al soggetto pubblico spetta il compito di pianificazione, regolazione e coordinamento, mentre al soggetto privato è affidata la gestione. Resta irrisolto il tema dei finanziamenti: esauritasi, per fortuna, la fase della bolla immobiliare, non si può sfuggire alla necessità di un finanziamento anche, sia pure non solo, con risorse pubbliche. Il che presuppone una scelta neokeynesiana di investimenti pubblici che oggi non appare all’ordine del giorno delle politiche dei Governi europei e italiano. Del resto le celebrate operazioni di Barcellona, Lisbona, Siviglia e Genova hanno avuto come motore di trasformazione i grandi eventi pubblici. E Milano recupera il suo rapporto con l’acqua – il sistema dei navigli ideato da Leonardo – e affida a una waterway l’immagine dell’ecocittà del futuro proprio grazie a Expo 2015.
Va aggiunto, a proposito di governance, che nella fase pianificatoria e progettuale dei waterfront si è rivelata spesso utile la promozione di momenti strutturati di partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, dei portatori di interesse e dei cittadini “attivi”, ben diversamente dal netto sbandamento verso la sola proprietà imprenditoriale contenuto nella recente ipotesi di nuova legge nazionale in materia di appalti di opere pubbliche. Era in fase di valutazione l’inserimento nella legge del débat public, strumento che promuove la partecipazione delle popolazioni interessate alle scelte progettuali e insediative: ma il Governo, nei giorni scorsi, ha approvato un disegno di legge delega che cancella questo inserimento.

6 Le città creative e i waterfront come “cluster creativi”
Nella pianificazione strategica urbana assume sempre maggiore rilievo il tema della cultura, intesa come una delle chiavi di volta dell’intero sistema economico delle città, oltre che strumento decisivo per la formazione, la crescita civile, la competenza e l’effervescenza creativa della comunità locale e del tessuto sociale. Dal punto di vista del sistema economico delle città la cultura non è più solo l’insieme di iniziative in funzione ancillare per il turismo, ma è molto di più: è fattore e motore di innovazione, è paesaggio, ambiente, design, arte, conoscenza, idee, alta formazione, tecnologie digitali… E’ l’asse di un nuovo modello di sviluppo, precondizione per uscire dalla crisi meglio di come ci siamo entrati.
Nella nuova visione dei waterfront “beni collettivi” di qualità l’arte e la cultura hanno un ruolo decisivo. I waterfront sono infatti una delle declinazioni più feconde delle città che stanno investendo sulla valorizzazione della cultura e sulla creatività: non più luoghi di concentrazione dei capitali immobiliari ma catalizzatori di esperienze culturali e porte delle nuove “capitali della cultura”.
Se le città del futuro sono le città creative, che detengono forti risorse culturali e identitarie, allora le città con i waterfront, anche quelle di secondo livello o medie, hanno più potenzialità di altre, perché luoghi scambiatori di cultura per eccellenza. I waterfront come “cluster creativi”: ecco una “pista” da esplorare per passare dalla fase dei progetti a quella delle realizzazioni. Nei “cluster” trovano collocazione non solo i contenitori culturali “tradizionali” ma anche le “residenze creative”, luoghi di produzione e ricerca per artisti e imprenditori della cultura; i “centri per la creatività”, che offrono servizi, spazi, incentivi ai giovani talenti; i luoghi in cui sperimentare forme di nuovo mutualismo e di co-working… Anche in questo caso servono finanziamenti pubblici ma anche privati, da favorire ripensando tutto il settore della defiscalizzazione. Ci sono esperienze europee che vanno studiate, e che fanno da battistrada: come il processo in corso ad Amburgo per trasformare l’area di Oberhafen, una ex stazione merci, in un nuovo “distretto creativo”; o come lo sviluppo creativo del quartiere di Amsterdam Nord.
Anche in questo caso serve una governance basata sul rapporto tra pubblico pianificatore e privato gestore e sulla partecipazione. La cultura deve essere sempre di più, infatti, una costruzione condivisa, e i luoghi della cultura devono essere sempre di più luoghi sociali e inclusivi, che si aprano alla voglia di fare cultura dei cittadini e li coinvolgano. I cittadini devono essere considerati non spettatori ma interlocutori critici, non pubblico ma attori, e le strutture culturali devono fare un’alleanza con le forze vive della città, scuola, associazioni, gruppi.

7 La “cultura della città”
A monte di tutto questo, della “cultura nella città” e nel suo waterfront, deve esserci la “cultura della città”: della città come polis, luogo in cui sostare e riconoscersi, dimora, spazio della cura, dello scambio, delle relazioni sociali e della reciprocità. La “cultura della città” che riconquista la dimensione sociale e la non rinunciabilità della pianificazione urbanistica intesa, per sia ineludibile natura, come concezione al di sopra di qualsiasi interesse. La “cultura della città” come spazio pubblico, che crea la piazza e non la abbandona alle auto, che rivitalizza il waterfront e non lo chiude con i catenacci, in cui il pubblico collabora con un privato mosso anche dalla responsabilità sociale. Una “cultura della città” altra rispetto all’ideologia della privatizzazione degli spazi e dei servizi, della segregazione e della solitudine. Senza questa “cultura della città” la “cultura nella città” troverebbe spazio solo residuale.

Ringrazio per le informazioni e i consigli l’amico professor Manlio Marchetta, docente del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, coordinatore del Corso post laurea nazionale in Progettazione urbanistica dei waterfront urbani

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