Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Acam: come, quando e perché si rinunciò all’alleanza che l’avrebbe “messa in sicurezza”

a cura di in data 24 Gennaio 2011 – 19:21

Cronaca4 – 24   gennaio  2011 – Renzo Raffaelli, su Cronaca4, commenta il mio Diario su Acam, mettendo giustamente in evidenza l’errore centrale dello scorso decennio: “la pervicace riluttanza a dare un partner all’Acam quando c’erano opportunità favorevoli”. E aggiunge: “Pagano puntualizza che erano gli altri azionisti ad essere contrari ad ipotesi di alleanza. Se è vero, dica anche chi e spieghi perché quel dibattito tra gli azionisti, cioè tra i sindaci, è sempre rimasto chiuso nelle segrete stanze”. Nel Diario ho cercato di essere esauriente su ogni punto, compreso questo. L’ho fatto ancor di più in alcuni passi della conversazione con Daniela Brancati che apre il mio libro “La sinistra la capra e il violino”, di cui il Diario è un’appendice. Provo quindi, a grandi linee, a rispondere a Raffaelli e ai lettori di Cronaca4 che hanno letto il suo articolo.
La partita dell’aggregazione cominciò nel novembre 2001, quando l’assemblea degli azionisti, su mia proposta, affidò all’advisor Rothschild il ruolo di consulente finanziario per procedere appunto all’aggregazione di Acam con altre aziende del settore. Era il momento di portare Acam in una realtà più grande e con  livelli di redditività superiore, perché la nostra azienda incrementasse la sua efficienza e superasse il problema dell’indebitamento. L’aggregazione era necessaria non solo perché in un certo senso “imposta” da una forte spinta nel Paese all’integrazione tra le aziende ex municipalizzate, che ha portato nel giro di pochi anni alla costituzione di pochissime grandi realtà e alla scomparsa delle piccole aziende. Lo era anche perché era la strada per risolvere i problemi che Acam stava manifestando: nel 2001-2002, dopo la grande crescita degli anni precedenti, bisognava fermarsi. Forti investimenti e basse tariffe avevano determinato infatti l’incremento della posizione debitoria. Si doveva dare valore a quanto fatto, compresi i limiti e i problemi, e metterlo in gioco in un’alleanza più grande, in un contesto più forte che, con la necessaria ricapitalizzazione, avrebbe assicurato all’azienda sicurezza e sviluppo. Nel 2002-2003, dal lavoro dell’advisor, e anche dai miei contatti con i sindaci di altre città, risultò un forte interesse verso Acam di alcune ex municipalizzate (Amga di Genova e Acea di Roma soprattutto). Si manifestarono, però, resistenze ad andare in questa direzione, in primo luogo nell’azienda.
La svolta avvenne nel gennaio 2004, quando il Consiglio di Amministrazione di Acam approvò il Piano strategico 2004-2012, che delineava uno scenario alternativo all’aggregazione. In sostanza: restare da soli nell’acqua e nei rifiuti e fare un’alleanza con i privati nel gas. Nei documenti che l’azienda consegnò in quei mesi agli azionisti tutti i timori tipici di quando si lavora a un’alleanza furono sollevati: l’aggregazione era sì utile per la “riduzione/ristrutturazione del debito” e per portare “a un equilibrio dei nuovi investimenti”, ma non era vantaggiosa dal punto di vista della “tutela delle risorse ambientali locali”, per la “tutela dell’identità territoriale e della governance locale”, e così via…C’erano due anomalie: che fosse l’azienda a proporre il ”cambio di strategia” agli azionisti, e che le altre ipotesi fossero di fatto escluse. Ma questa forzatura fu fatta sia perché ottenne un sostanziale avallo dall’advisor sia perché registrò un forte consenso in città: tra gli altri sindaci e in sede politica e sindacale. La “paura di perdere la più grossa azienda locale” e di “trasferire la sua testa altrove” -termini che sono ritornati nel dibattito più recente- vinceva sul resto. Il Comune di Spezia era dunque isolato, pur con il suo 37% delle azioni. Il mio Comune decise di avvalersi di un’autonoma consulenza, Dexia Crediop: il suo documento fu una critica serrata al Piano dell’azienda, e ci guidò nei mesi successivi per tentare, almeno, di “ridurre il danno”. In primo luogo lavorammo perché Rothschild sondasse il mercato su entrambe le ipotesi, quella dell’azienda e la nostra; poi perché almeno l’alleanza nel gas si facesse con un’ex municipalizzata, lasciando così aperta la strada dell’aggregazione complessiva in futuro. Ma ci illudevamo: tutto portava alla scelta di un partner privato nel solo settore del gas, cioè Italgas (settembre 2004). Nella fase finale tentai -questo nel libro non l’ho scritto- perfino la strada di un accordo Acea-Italgas, che sembrava cosa fatta, ma che invece saltò all’ultimo minuto. Alla radice della precipitazione della crisi nel 2007-2009 ci fu soprattutto questa scelta sbagliata del 2003-2004: con i servizi idrici e ambientali in house, quindi senza possibilità di espansione e sempre più antieconomici, e con il settore più remunerativo, il gas, in parte privatizzato, c’era il rischio che la situazione debitoria peggiorasse. Come infatti avvenne dal 2007.
Perché gli altri sindaci scelsero la strada suggerita dall’azienda? Non per interessi di bottega, come sostiene qualcuno nel centrodestra. Ma per una visione sbagliata: il localismo con la “veduta corta”, la scelta di coltivare un isolamento fuori dai tempi. Contro la mia volontà, il che non mi assolve affatto. Perché chi è sconfitto ha il demerito di non avercela fatta a far passare le idee che riteneva giuste. Sicuramente sbagliai, come scrivo nel libro, “a cercare sempre di mediare e a rinunciare a una discussione pubblica e aperta”. Non sarebbe stato semplice: avrei messo in piazza le difficoltà di una Società per azioni, e sarebbe scoppiato un putiferio. Fino all’ultimo, come ho spiegato, mi illusi di limitare il danno e di conquistare almeno uno spiraglio. Con il senno del poi, è chiaro però che avrei dovuto prima, a inizio 2004, dare uno “scossone”. Forse, chissà, la tendenza si sarebbe potuta invertire. Ha ragione Amartya Sen quando dice che la democrazia  è utile all’economia perché attraverso la discussione pubblica si correggono per tempo gli errori della politica economica.
Concludo dicendo che la mia “verità” è solamente un contributo alla discussione, spero utile per rispondere alla domande del presente. Una svolta radicale, come quella cominciata grazie agli azionisti e ai nuovi vertici dell’azienda, ha bisogno di un’autocritica altrettanto radicale. Sul localismo con la “veduta corta” come su altri vizi emersi dalla vicenda Acam, il “partitismo” in primis, che sono tentazioni sempre in agguato. Spero che Renzo Raffaelli, che ad Acam ha dedicato tanta attenzione, ma anche altri vogliano proseguire con me questa discussione. Io sono più che disponibile. Perché sono convinto che solo dalla chiarezza sul passato può nascere un futuro migliore.

Giorgio Pagano

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