L’ Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale di Aldo Schiavone
“Per vent’anni abbiamo vissuto sotto l’ala di un turbine: globalizzazione economica e trasformazione politica. Due metamorfosi insieme: post-industriale e post-democristiana. L’Italia di oggi ci restituisce per mille segni l’immagine di un Paese provato, che perde colpi di continuo. E soprattutto con un motore politico penosamente inadeguato, incapace di autentica innovazione, che non fa nulla se non pasticciando, e alla fine non sembra concepire altra missione tranne la pura conservazione di se stesso e del ceto che lo controlla. Ma altre volte siamo stati capaci di riagguantare all’ultimo istante il filo della nostra storia. La posta in gioco è troppo importante per rassegnarsi, e dopotutto siamo qualcosa di più di un piccolo angolo di mondo.”
Quell’Italia ancora schiava del passato
Un saggio di Schiavone sull’interminabile transizione rivela un’incapacità culturale e politica di autocritica
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Perché tanto il Pdl che il Pd appaiono organismi tuttora fragili e dall’incerto destino? Perché la transizione italiana ancora non accenna a finire? Perché non siamo ancora riusciti a dar vita a culture e forze politiche che appaiano realmente nuove e vitali? Vorrei provare a dare una risposta diversa da quelle che si danno di solito, una risposta che guarda al passato. La mia ipotesi è che non riusciamo a fondare nulla di nuovo perché non riusciamo a superare il passato. E non riusciamo a superarlo, vi siamo inconsapevolmente inchiodati, perché non siamo d’accordo su come sono andate le cose. La seconda Repubblica non può nascere perché ancora siamo divisi sia su che cosa è stata e perché è finita la prima, sia su che cosa è l’Italia che essa ci ha lasciato.
Questo disaccordo di fondo l’ho sentito in tutta la sua forza leggendo l’ultimo libro di Aldo Schiavone. Il libro cioè di uno storico di vaglia che come pochi contribuisce da anni in modo originale al discorso pubblico del Paese, e che con questa sua ultima fatica – L’Italia contesa (Laterza editore) – procede ad una ricognizione del presente italiano e dei suoi trascorsi. Ma lo fa – e questo è il punto decisivo -sforzandosi di essere comunque fedele ad un’appartenenza, intenzionato a non troncarne il filo che corre attraverso gli anni. E dunque non riuscendo a vedere le cose da una distanza sufficiente a pensarle con la necessaria dose di spregiudicata esattezza.
È, questa, una condizione che oggi riguarda in particolare tanti italiani che sono stati comunisti durante la prima Repubblica. Che lo sono stati molto spesso in modo intelligente e per nulla dogmatico — com’è appunto il caso di Schiavone, estromesso a suo tempo dalla direzione dell’Istituto Gramsci; che si sono allontanati del tutto da quel panorama ideologico, ma che, soprattutto a causa dell’avvento di una destra come quella incarnata da Berlusconi, si sentono nonostante tutto obbligati a dirsi, e a pensarsi, ancora «di sinistra». Quasi per forza d’inerzia, ma comunque abbastanza da essere spinti a figurarsi la realtà italiana presente e passata in modo da non disturbare troppo il loro precario accomodamento di oggi, anziché per ciò che essa è stata ed è realmente. Si tratta di un fenomeno importante ai fini del superamento del passato dal momento che finché le energie intellettuali e morali rappresentate da questa sinistra che fu, da questa sorta di pensiero prigioniero di se stesso, non si sbloccheranno, non avranno il coraggio di liberarsi per intero dei vincoli della loro vecchia appartenenza, fino ad allora la chiusura dei conti con il passato italiano non si potrà fare, il discorso politico non potrà ripartire, e dunque resteremo quello che siamo: un Paese fermo.
Il libro di Schiavone consente di vedere in modo nettissimo i due principali travisamenti storici (tali secondo chi scrive, beninteso) su cui è rimasto incagliato il punto di vista della sinistra che fu e che oggi mi pare piuttosto una «sinistra suo malgrado». Travisamenti che hanno una duplice funzione: da un lato quella di sollevare la sinistra (o per meglio dire il Partito comunista) dalla piena responsabilità della patologia politico-sociale che finì per distruggere la prima Repubblica; dall’altro servono a dipingere un panorama dell’Italia attuale tutto sommato ottimistico perché diviso sì tra «buoni» e «cattivi», ma con questi ultimi e il loro capo, Silvio Berlusconi, che sarebbero ormai vicini alla fine del loro predominio.
Innanzitutto il ruolo del Pci, dunque. Schiavone non vede, a mio giudizio, fino a che punto il «congelamento politico» del Paese dal ’48 in poi, la sua «sovranità limitata», la mancanza di alternanza, la memoria antifascista come unica matrice possibile dell’identità democratica, fino a che punto ognuno di questi caratteri negativi, che egli per primo richiama con forza, sia da ricondurre direttamente e per intero a null’altro che alla presenza nel sistema politico italiano del Partito comunista. A proposito del quale egli non esita ad adoperare ancora l’indulgente categoria del «ritardo», categoria tipica dell’armamentario concettuale del dibattito comunista dell’epoca. Ma altro che di «ritardo » si è trattato! Ormai dovrebbe essere evidente che fu la stessa natura più intima, il carattere e la storia profonda di quell’organismo politico, che ne fecero un ostacolo formidabile per lo sviluppo democratico del Paese: non qualche casuale arresto, qualche fortuito inciampo (e che poi anche in quel partito ci fosse qualcosa o magari parecchio di buono, è ovvio: nella storia la negatività assoluta è rarissima).
Fu la presenza del Pci, e dunque l’assenza di un’opposizione costituzionale e il clima di divisività ideologica che ne derivarono, l’elemento decisivo che fece dell’Italia una democrazia diversa (nel male) da tutte le altre dell’Occidente. Quando avvenne il crollo della coalizione di governo nel 1992-93 in seguito alle inchieste di «Mani pulite» fu per l’appunto questa anomalia assoluta del nostro sistema politico che impedì l’altrimenti ovvio passaggio di mano all’opposizione, determinando invece il collasso di tutto il sistema e il suo passaggio alla fragile novità in cui viviamo. Come si fa ancora oggi a non porre tale questione al centro dell’analisi? L’altro punto di disaccordo riguarda l’Italia post-Mani pulite, che Schiavone considera conquistata all’egemonia populista di Berlusconi, egemonia che ora però sarebbe ormai giunta al capolinea grazie alla crisi economica mondiale. Colpisce come solo a questo esaurimento, per così dire nei fatti, siano affidate in sostanza le possibilità di riscossa della sinistra, circa la cui futura azione politica e le relative risorse necessarie il libro non riesce a darci però la minima indicazione concreta.
La realtà è che in queste pagine il berlusconismo appare molto spesso un alibi per non vedere che cosa è oggi (ma non da oggi) la società italiana. La quale, forse, più che farsi «berlusconizzare » dalle magiche arti del premier, è stata lei, io credo, a scegliere Berlusconi per essere ciò che voleva essere. Ciò che voleva continuare ad essere dopo la grande trasformazione antropologico-culturale degli anni Settanta e Ottanta. Ma ancora una volta, per evitare che la sinistra possa incorrere in una ulteriore, sgradevole, chiamata in correità e perdere così anche la sua presunta natura alternativa alla destra, Schiavone non vuol vedere – e infatti non cita neppure una volta – la parte attiva anche da essa avuta (o meglio avuta dai suoi immediati antenati, il Pci e la Dc dei «cattolici democratici») nel produrre la non entusiasmante realtà sociale italiana di oggi.
Così come neppure un cenno viene fatto agli effetti deleteri che pure sul popolo di sinistra hanno avuto, dagli anni Settanta in poi, mutandone radicalmente il profilo morale e culturale, le politiche di conquista del consenso sia a livello locale che nazionale, la sindacalizzazione dell’impiego pubblico, la degenerazione della giustizia, il permissivismo scolastico, l’evasione fiscale assolutamente generalizzata, la lottizzazione e l’antimeritocrazia dappertutto, il moralismo dipietrista, la divulgazione di tutte le più idiote mitologie modernistico-massmediatiche, le «notti bianche», i premi Grinzane-Cavour, i «vaffa day» e così via, così via. Ma in questo modo svanisce di fatto l’Italia vera e profonda. Un’Italia che oggi può essere definita «contesa» solo guardandone la superficie, dal momento che in essa, in realtà, destra e sinistra appaiono avvinte (non da oggi!) l’una all’altra: un grigio Paese che una spenta politica, sia di destra che di sinistra, non ha la minima idea di come fare uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.
LA CONDANNA DELLA SINISTRA
La sinistra italiana ha una colpa, grave e irrimediabile: quella di esistere, e di voler continuare a farlo. Chi vi si riconosce non ha scampo: la sua “appartenenza” – come un implacabile marcatore genetico – lo condanna a non capire, a “figurarsi” una realtà su misura, e peggio ancora a danneggiare il suo Paese, rendendolo prigioniero di un passato che non si riesce mai davvero a “superare”. Non sto esagerando. Questa tesi estrema (posso usare l’ aggettivo?), esposta con acuminata lucidità, rappresenta il cuore della lunga recensione che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato, sul Corriere di ieri, a un mio piccolo saggio appena uscito da Laterza. Non mi piace replicare a chi critica le cose che scrivo. I libri sanno difendersi da soli, e non hanno bisogno di proteggersi dietro la voce del loro autore. Ma qui si tocca una questione ben più importante delle mie pagine, delle quali ci si serve con eleganza per formulare un enunciato che le oltrepassa di molto, e riguarda direttamente tutti noi, fino a toccare l’ immagine stessa che noi ci formiamo della storia d’ Italia. La dannazione della nostra sinistra si trova interamente, per Galli della Loggia, nella genealogia comunista che l’ ha segnata. Niente basta a porre rimedio, per lui, a quell’ origine: non le revisioni concettuali, di cui pure dà atto; non la memoria di solitarie battaglie (perdute) ancora dentro il Pci, che pure ricorda con onestà. Nulla è sufficiente. Se vogliamo che il l’ Italia si rimetta in cammino, che la sua eterna “transizione” si concluda, non c’ è che una cosa da fare: riconoscere che la sinistra continua a dirsi tale soltanto “suo malgrado”, e che quindi non c’ è niente da suggerire, se non di cancellare il suo punto di vista, sopprimere la sua stessa esistenza, e farla diventare qualcosa di inimmaginabile, ridurla a una prospettiva aliena che non si riesce nemmeno a nominare. Non è la presa d’ atto di una sconfitta, che si richiede – dio sa se non l’ abbiamo ammessa – ma qualcosa di ben più radicale: un suicidio purificatore, una specie di sterminio ideale, senza nessuna speranza di resurrezione. E gli altri,e tutto il resto della scena politica di questo Paese? L’ insostenibile unilateralità della tesi appare nuda nella stringente ovvietà della domanda che rende inevitabile. Ebbene, restino pure al loro posto, con i loro pensieri: Galli della Loggia non vi dedica una parola. Certo, anch’ essi hanno la loro parte nel “grigio” che ci circonda, ma almeno non hanno mai avuto nulla a che fare con il comunismo. Vi è molto metodo in questo freddo e implacabile furore uno sguardo che non si accontenta delle superfici, e sa dove posarsi, per andare a fondo. Ma – Galli della Loggia mi perdonerà – c’ è anche molto di stantio, di consunto, di veleni scaduti che non fanno più male. Nell’ orizzonte della sinistra italiana il comunismo è scomparso da tempo – anche se scomparso malamente, e non come avremmo voluto. La sua presenza ha smesso definitivamente di pesare. E’ solo l’ accanimento ideologico degli avversari, che ne agita il fantasma: Berlusconi sa bene di cosa stiamo parlando. Il problemaè che ancora non vediamo come sostituirlo, anche se cominciamo a farcene qualche idea – e la crisi ci aiuterà a capire più velocemente, perché queste catastrofi agiscono come impareggiabili lenti sociali, e hanno sempre uno straordinario effetto di moltiplicazione della conoscenza. Due in particolare sono le critiche che Galli della Loggia mi muove, tra loro strettamente legate: sul ruolo del Pci nella Prima repubblica, di cui avrei taciuto limiti e responsabilità, e sul carattere della società italiana conquistata dal “berlusconismo”, rispetto alle cui degenerazioni, di nuovo, non sarei capace di valutare i coinvolgimenti della sinistra. Ebbene, in entrambi i casi a me pare che la questione storica e politica non sia quella di “giudicare” queste “colpe” (vi è una singolare deriva “giudiziaria” nelle interpretazioni messe qui in campo da Galli della Loggia; egli assolve o condanna, piuttosto che interpretare: un atteggiamento singolare per chi sa benissimo – da par suo – che non è questo l’ ufficio dello storico. Sono solo le trappole dell’ incattivimento ideologico). E’ evidente che queste connessioni vi sono state, e spesso non di poco conto. Come è evidente che non è stato il “berlusconismo” a trasformare la società italiana, già cambiata sotto la pressione di ben altre forze, e che all’ inizio degli anni Novanta era già pronta ad accogliere il suo nuovo leader. Ma non è questo il punto. Si tratta piuttosto di capire perché la prima Repubblica non sia riuscita a produrre che un sistema politico bloccato – causa di molti nostri disastri- che ha avuto bisogno di una spinta esterna di inaudita potenza (il crollo dell’ impero sovietico) per rimettersi in movimento, e perché il cambiamento che si stava finalmente producendo abbia assunto subito i tratti di una autentica “crisi di regime”, in cui si sommavano transizione politica postdemocristiana e mutamento sociale postindustriale, e come tutto questo abbia creato un enorme spazio vuoto, nel quale si è precipitato Silvio Berlusconi, con tutti gli apparati mediatici di cui disponeva. Il Pci non è stato figlio della nostra cattiva cultura politica. Esso è nato – come la Dc, e come tutto il Non è più solo la presa d’ atto di una sconfitta che si richiede, ma un suicidio purificatore vecchio sistema dei partiti – dal centro fratturato della terribile prima parte del Novecento italiano: dalle sue lacerazioni e dai suoi conflitti irrisolti. Berlusconi stesso è ancora figlio di quella storia, di quello che ho chiamato “l’ eccezionalismo” del ventesimo secolo. Ma è una vicenda che si sta chiudendo: e non c’ è terremoto che possa riaprirla. Si volta pagina: e chi ha più filo tesserà (come si diceva una volta, dalle mie parti). – ALDO SCHIAVONE
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