Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

8 marzo, i ricordi indelebili delle lotte delle donne

a cura di in data 9 Marzo 2018 – 11:15

8 marzo, i ricordi indelebili delle lotte delle donne
La storia di Delfina Betti protagonista dello sciopero del 1944 allo Jutificio Montecatini di Fossamastra,poi staffetta partigiana e, nel dopoguerra, donna simbolo dell’ Unione Donne Italiane

Città della Spezia, 8 marzo 2018 – Oggi, 8 marzo 2018, è forse utile rievocare la brillantezza di memorie sepolte, individuali e collettive, che sono indispensabili per capire chi eravamo e chi siamoma anche un potenziale immane a cui attingere per il futuro.
“Paura non abbiamo” è il titolo del documentario di Andrea Bacci che ripercorre la vicenda di Anna Zucchini e Angela Lodi, due donne di Bologna che l’8 marzo 1955 furono incarcerate per aver distribuito la mimosa davanti alle fabbriche, con la cassettina per l’offerta libera. Furono accusate di questua abusiva, insieme ad altre due compagne della fabbrica Ducati. Anna era stata una delle organizzatrici del grande sciopero del 1944 contro i nazifascisti.
La storia di queste attiviste, la luce nei loro volti, mi ha spinto a ricordare Delfina Betti e la luce del suo bellissimo volto, che potete vedere nella fotografia. Anche lei fu protagonista dello sciopero del 1944, allo Jutificio Montecatini di Fossamastra, poi staffetta partigiana e, nel dopoguerra, donna simbolo dell’UDI, Unione Donne Italiane. Donna semplice e preziosa, ha distribuito nella sua vita chissà quante migliaia di mimose e quante migliaia di copie del giornale dell’organizzazione, “Noi donne”. E soprattutto ha dato aiuto e sostegno concreto a tantissime donne.
“Paura non abbiamo” è il secondo verso della canzone “La Lega”, la prima canzone di lotta proletaria al femminile. Il primo verso è “Sebben che siamo donne”, il titolo che io e Maria Cristina Mirabello abbiamo voluto dare al nostro libro sulla Resistenza al femminile nelle nostre zone, di cui Delfina è una delle protagoniste. Si riallacciano così, attraverso queste strofe, i fili della memoria da inizio Novecento a oggi.
Nella vita di Anna, di Delfina e di tutte le donne resistenti -partigiane in armi, staffette, operaie in lotta, deportate, donne sostenitrici e curatrici nelle campagne e nelle montagne, madri- si intravede l’apertura di una breccia, il principio di un percorso di partecipazione: per tante di loro quei giorni furono “la cosa più bella che ci potesse capitare”, per usare le parole di Vanda Bianchi.Senza la Resistenza non ci sarebbe stata la Costituzione e gli articoli che sanciscono l’emancipazione e l’eguaglianza femminile. Ma va anche detto che l’onda lunga partita dalla Resistenza si infranse spesso contro la mentalità dell’epoca e contro una legislazione arretrata che impiegò lunghissimi anni per adeguarsi ai cambiamenti previsti dalla legge fondamentale dello Stato. E se nel tempo la legislazione si è faticosamente adeguata, sulla mentalità e sui comportamenti relativi all’epoca che viviamo, ci sarebbe ancora oggi molto da ridire. A guidarci, come in ogni momento difficile, deve essere la concezione ideale e morale della Resistenza, che insegna che tutte le donne, anche le più deboli, possono fare qualcosa e diventare protagoniste della storia.
Se in questo 8 marzo 2018 c’è un richiamo e un augurio da fare alle ragazze di oggi, il migliore è probabilmente proprio quello di una forte idealità, senza la quale non ci può essere progettazione di un futuro più giusto e libero per tutte le donne in tutto il mondo.

Giorgio Pagano


DELFINA BETTI
(1918 – 2001)

Delfina Betti cominciò a sentir parlare di antifascismo in famiglia -il padre e lo zio non avevano voluto prendere la tessera del Fascio- e soprattutto in fabbrica, nello Jutificio di Fossamastra, da parte de-gli operai e delle operaie che da tempo avevano iniziato il lavoro co-spirativo. Cominciò a leggere e a diffondere la stampa clandestina, e partecipò alla grande manifestazione del 29 luglio 1943, in cui morì la giovanissima Lina Fratoni. Fu quella la svolta: “Un episodio che non dimenticherò mai e che fece di me una vera combattente”. Sul dopo 25 luglio e sul clima nuovo che si respirava Delfina ha raccontato un episodio particolare ma significativo: “Ci fu una donna fascista che disse testualmente queste parole: ‘Preferirei vedere Mussolini tornare al potere anziché mio figlio al mondo’. Aveva perso un figlio in tenera età. A quell’affermazione naturalmente ci fu una reazione decisa e spontanea da parte di tutte e nel giro di mezzora le macchine furono ferme in segno di protesta. Fu chiesta l’espulsione della fabbrica di tale elemento, dicendo chiaramente: ‘Fuori lei o fuori noi’. Dovettero allontanarla dalla fabbrica. Questo dimostrò che la cospirazione qualcosa aveva dato anche a noi, poco preparate alla politica”.

Delfina Betti, fotografia famiglia Betti

Delfina Betti,
fotografia famiglia Betti

Delfina partecipò sempre più all’attività antifascista in fabbrica, or-ganizzando scioperi e manifestazioni, fino al grande sciopero del marzo 1944:
“Lo sciopero fu compatto fin dal primo giorno; ognuno ne aveva piena consapevolezza. Evidentemente la compattezza e la durata dello sciopero avevano messo i dirigenti di fronte a un fatto più grosso di loro; l’ultimo giorno i fascisti della fabbrica non seppero fare di meglio che fare intervenire la X MAS. Questi ultimi entrarono nei reparti, Direttore in testa; tentarono di obbligare le operaie a mandare le macchine credendo di spaventarci. Nessuna cedette; per nulla inti-morite tenemmo duro; le macchine le mandammo sì, ma solo quando lo sciopero terminò. Non abbiamo vacillato nella lotta, neppure quando, rientrate in fabbrica, il giorno dopo lo sciopero, mancava-no all’appello nove operaie. Le avevano arrestate, per rappresaglia; erano in maggior numero parte di quel gruppo che più attivamente aveva dato il maggior contributo alla riuscita dello sciopero e di tutte le altre azioni”.

In un’altra testimonianza Delfina dice:
“Ricordo che vennero alla mia macchina il Direttore con due ufficia-loni grossi grossi, mi dissero di mandare la macchina ma non ebbi paura; avevo capito che erano loro ad avere paura, perciò volli provare la soddisfazione di vederli andare via senza obbedire”.

Delle nove operaie arrestate, sette tornarono in fabbrica nei giorni successivi. Le due sorelle Dora ed Elvira Fidolfi furono invece deportate in Germania.

Nonostante la reazione nazifascista, nei mesi successivi la lotta in fabbrica non rallentò ma proseguì. Delfina fu licenziata nell’agosto del 1944 e diventò una staffetta delle SAP, con nome di battaglia “Mariuccia”. Corse molti rischi. Un giorno, inseguita da due Briga-te Nere, riuscì a far perdere le sue tracce. In un’altra occasione fu incaricata di portare del materiale e di ritirarne altro in una zona di combattimento, a Castello di Calice: si procurò una bicicletta che si ruppe quasi subito, proseguì a piedi per poi trovare un’altra biciclet-ta, “che avrebbe avuto bisogno di essere portata, non di portare”. Ma riuscì a usarla: “Dopo dieci ore di cammino ero a casa stanca, ma fiera per avere compiuto bene la mia missione”. Nell’autunno del 1944 partecipò al processo partigiano contro uno dei responsabili della deportazione delle sorelle Fidolfi: “Presi parte a quel processo con la coscienza che ormai la lotta mi aveva dato e nella certezza che anche il mio modesto contributo serviva a liberare il nostro Paese dalle mostruosità di quella guerra orrenda”.

Subito dopo la Liberazione è significativa della maturazione politica di Delfina la “lezione” che diede ad alcuni suoi compagni che rifiuta-vano l’assunzione della figlia di un fascista: “Ma allora volete continuare la politica che facevano loro! Guardate che la nostra politica è diversa… Se voi la lasciate fuori non fate che aggiungere un anello alla catena che ha lasciato suo padre… Se vogliamo costruire qualcosa di nuovo partiamo da qui. Che rinnovamento facciamo se prendiamo solo quelli che la pensano come noi e gli altri li facciamo morire di fame? E’ uguale, come quando mio padre lo buttavano fuori dalla fabbrica perché non aveva la tessera del Fascio”.

Nel dopoguerra Delfina si impegnò nel PCI e soprattutto nell’UDI, associazione della quale fu la “colonna” per decenni: era lei che apriva e chiudeva la sede tutti i giorni, che aveva una parola buona per ogni donna in difficoltà, che ovunque diffondeva “Noi donne”, il giornale dell’UDI, e il calendario dell’associazione. Era una donna semplice e preziosa, un simbolo di militanza generosa e disinteressata.

Testo tratto da “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello (edizioni Cinque Terre).

Popularity: 3%