Cisgiordania, l’altro Israele faccia sentire la sua voce
Critica Sociale maggio-giugno 2023
di Giorgio Pagano
Lo scontro armato avvenuto a Jenin il 19 giugno scorso è stato il più ampio e violento avvenuto nella città palestinese dal 2002, l’anno della “Battaglia di Jenin” durante la seconda Intifada, al culmine dell’offensiva militare israeliana “Muraglia di difesa”. In quell’occasione l’esercito israeliano usò, contro i palestinesi di Jenin, gli elicotteri da combattimento. Come il 19 giugno, quando un elicottero da guerra ha aperto il fuoco per liberare alcuni soldati in difficoltà. L’esercito israeliano era intervenuto a Jenin per arrestare un militante palestinese, ma era stato accolto con ordigni esplosivi e spari. Il bilancio è stato di sei morti e 91 feriti palestinesi, oltre a diversi soldati israeliani feriti. Un giornalista palestinese è stato colpito da un proiettile all’addome nonostante esibisse chiaramente la scritta “stampa”.
Non si è trattato di un incidente isolato. L’aumento della tensione in Cisgiordania – i Territori palestinesi occupati – è in atto dall’inizio del 2022, prima ancora della nascita della coalizione di governo israeliana che comprende le forze di estrema destra. Quest’ultima sta accelerando un progetto coloniale che è in atto da decenni: non è quindi la causa principale dell’attuale recrudescenza della violenza.
Essa nasce dall’esasperazione crescente dei giovani palestinesi, che non vedono alcuna prospettiva per la loro patria: gli insediamenti coloniali aumentano, i coloni israeliani sono sempre più aggressivi, l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen è sempre più in crisi, la comunità internazionale è assente, compresi i Paesi arabi.
La nuova coalizione di governo sta aggravando una situazione che era già esplosiva. Si pensi, per esempio, al recente annuncio della costruzione di 7 mila abitazioni supplementari nelle colonie della Cisgiordania. Gli USA hanno manifestato la loro contrarietà, ma Benjamin Netanyahu ignorerà le rimostranze: Israele lo ha sempre fatto in passato, e gli americani si sono sempre adeguati, limitandosi a cortesi proteste.
Sono stato per la prima volta a Jenin nel gennaio 2005, appena terminata la seconda Intifada. Ero allora sindaco della Spezia, portavo un piccolo segno di solidarietà: le risorse per costruire un centro culturale giovanile. La città era distrutta, la maggior parte degli edifici e delle case rasi al suolo. Tornai nel febbraio 2006, per visionare il cantiere della struttura, e nel 2007 per l’inaugurazione. Nel 2005 gettai le basi del gemellaggio trilaterale tra La Spezia, Jenin e la israeliana Haifa. Nel protocollo d’intesa sottoscritto dai tre sindaci era scritto che l’obiettivo di fondo era «rendere possibile l’esistenza di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, liberi, sovrani e capaci di vivere in sicurezza, democrazia e pace»[1]. Era tutto maledettamente complicato, ma avevamo la speranza di abbattere la barriera di diffidenza che separava i due popoli.
Oggi quella speranza si è affievolita. Per capirlo bisogna cogliere il nodo di fondo: l’ingiustizia strutturale subita dai palestinesi con l’occupazione – colonizzazione dei loro territori. O si inverte questa ingiustizia o è inutile parlare di trattative di pace. Non portano a nulla, anzi. Israele, anno dopo anno, ha allargato le sue colonie.
Sono tornato in Palestina, a seguire progetti di cooperazione internazionale, molte volte, fino al 2020. Ogni volta guardavo il paesaggio e non lo riconoscevo: ovunque emergevano nuovi insediamenti, e la Palestina diventava via via più piccola, come un polmone che si contrae.
A poco a poco ho capito che la politica di Israele non è mai cambiata dal 1948 a oggi: governare i Territori palestinesi occupati senza espellere gli abitanti (se non in piccola parte) e senza concedere loro la cittadinanza. Israele ha sempre usato un duplice linguaggio: un discorso a uso interno e internazionale – l’enigmatico discorso di pace e del ritiro dopo la pace, sempre accettato dagli europei e dagli americani – e un altro discorso destinato all’occupazione. Una dicotomia che è una linea politica. Nel mentre sono proseguiti e proseguono gli insediamenti, con l’inserimento di cunei colonizzati. É rimasto alla Palestina un 10% di territorio (dal 22% del 1948), diviso da blocchi di insediamenti e da basi militari. La frammentazione geografica e politica è andata avanti, ed è sempre più difficile, se non forse ormai impossibile, parlare di due Stati.
La colonizzazione si sviluppò a pieno a partire dal 1948, ma era già cominciata prima.
Nel 1948, in seguito alla decisione britannica di ritirarsi dalla Palestina dopo trent’anni di dominazione e all’impatto dell’Olocausto sull’opinione pubblica occidentale, metà popolazione nativa fu espulsa, metà dei villaggi e delle città fu distrutta, il 78% della Palestina mandataria divenne Israele.
Il mondo occidentale non ascoltò le proteste: doveva espiare i suoi crimini.
Anche se, come ha spiegato lo storico israeliano Ilan Pappé, «la situazione in Palestina non aveva nulla a che fare con la dislocazione della popolazione in Europa sulla scia della seconda guerra mondiale o con il genocidio degli ebrei europei» ma con «la colonizzazione sionista iniziata alla fine del XIX secolo»[2]. Nel 1948 ci fu «l’atto conclusivo della creazione di un moderno Stato ebraico colonizzatore, in un momento in cui la comunità internazionale sembrava considerare la colonizzazione inaccettabile»[3].
La tragedia dell’Olocausto ebbe tuttavia un ruolo chiave. Il riferimento all’Olocausto spiega anche l’iniziativa del Comune della Spezia a Jenin e a Haifa nel 2005. In quegli anni La Spezia era impegnata a riscoprire il suo ruolo di “città di Exodus”, base operativa per la partenza verso il porto dell’allora palestinese Haifa di circa 25 mila superstiti dei lager. La Spezia, non a caso, è conosciuta in Israele come Schàar Zion (Porta di Sion). Per la solidarietà e l’aiuto alla popolazione ebraica negli anni 1945-1948, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi consegnò il 25 aprile 2006 al Comune della Spezia la Medaglia d’oro al valore civile. Sentivamo il bisogno, in virtù di questa storia, di impegnarci per la pace in quella terra martoriata.
Il 1948 diede un grande impulso alla colonizzazione. La prima domanda è: c’era un altro luogo dove gli ebrei potevano andare? La risposta è no, in quel contesto storico non c’era. Ma c’è una seconda domanda: poteva esserci un altro modo di convivenza con i palestinesi? La risposta è sì, perché il sionismo si reggeva su un malinteso di fondo: l’idea che la Terrasanta fosse “una terra senza gente per una gente senza terra”. Ma la gente palestinese c’era, eccome. Per essa la nascita dello Stato di Israele fu la Nakba (“Catastrofe”).
Ecco perché da questo intrico storico si può uscire solo con la de-occupazione e la de-colonizzazione.
Almeno una parte della Terrasanta deve tornare ai palestinesi, dando vita a due Stati. È vero, oggi questo obiettivo può sembrare impossibile. Proprio per questo c’è chi pensa che l’obiettivo debba essere un altro: la costituzione di un unico Stato, binazionale e democratico. Ma la tendenza demografica fa sì che in questo Stato gli arabi sarebbero maggioranza. Chi vuole Israele “grande, democratico ed ebraico” dovrà rinunciare a una delle tre condizioni. Se lo Stato sarà uno e binazionale non potrà essere “ebraico” nel caso sia conservato il principio “una testa un voto”. Se non varrà quel principio non sarà “democratico” ma di apartheid. E se invece si opterà per mantenerlo “ebraico” e “democratico” bisognerà rinunciare all’idea che sia “grande”. Ecco perché il sogno dei due Stati è forse ancora vivo.
Già nei primi anni dei miei viaggi in Palestina e in Israele conobbi l’esperienza dei Parents Circle, un’organizzazione di base di palestinesi e israeliani che hanno perso parenti stretti, soprattutto figli, nel conflitto, e che si battono per la riconciliazione e la pace. Apeirogon è un grande romanzo di Colum McCann, che racconta l’epica storia vera di due uomini divisi dal conflitto e riuniti dal dolore della perdita: Bassam Aramin, che ha perso la figlia Abir, e Rami Elhanan, che ha perso la figlia Smadar. Per Bassam e Rami il nemico comune è l’occupazione.
Dice Bassam:
«L’Occupazione agisce in ogni aspetto della tua vita, ti sfinisce, ti amareggia in un modo che nessuno da fuori riesce davvero a capire. Ti sottrae il domani. Ti impedisce di andare al mercato, all’ospedale, alla spiaggia, al mare. Non puoi camminare, non puoi guidare, non puoi raccogliere un’oliva dal tuo stesso albero che si trova dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno alzare lo sguardo al cielo. Lassù hanno i loro aeroplani. Possiedono l’aria che sta sopra e il suolo che sta sotto. Per seminare la tua terra devi avere il permesso. […] La maggior parte degli israeliani nemmeno lo sa che succedono queste cose. Non che siano ciechi. É che non sanno quello che viene fatto in loro nome. Non viene permesso loro di vedere. I loro giornali, le loro televisioni queste cose non gliele dicono. Non possono entrare in Cisgiordania. Non hanno alcuna idea di come viviamo. Ma questo succede ogni giorno. Ogni singolo giorno. Non lo accetteremo mai. Nemmeno tra mille anni, lo accetteremo. […] Porre fine all’Occupazione è la nostra sola speranza per la sicurezza di tutti, israeliani e palestinesi, cristiani, ebrei, musulmani, drusi, beduini, non importa»[4].
Dice Rami:
«Per quanto sembri strano, in Israele non sappiamo cosa sia davvero l’Occupazione. Sediamo nei caffè e ci divertiamo, e non dobbiamo farci i conti. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi dover superare un checkpoint ogni giorno. O vedere confiscata la terra della nostra famiglia. O svegliarci con un fucile puntato sulla faccia. Abbiamo due ordini di leggi, due ordini di strade, due ordini di valori. Alla maggior parte degli israeliani questo sembra impossibile, una bizzarra distorsione della realtà, ma non è così. È che noi, semplicemente, non lo sappiamo. Per noi la vita è bella. Il cappuccino è buono. La spiaggia è libera. L’aeroporto è lì a due passi. Non abbiamo alcun accesso all’effetto che fa vivere in Cisgiordania o a Gaza. Nessuno ne parla. Non ti è permesso mettere piede a Betlemme, a meno che tu non sia un soldato. Guidiamo lungo le nostre strade percorribili solo dagli israeliani. Scansiamo i villaggi arabi. Costruiamo strade sopra e sotto di loro, ma solo per farne gente senza volto. Forse la Cisgiordania una volta l’abbiamo vista, durante il servizio militare, o magari la vediamo di tanto in tanto in tv, il nostro cuore sanguina per una mezz’ora, ma non sappiamo quello che succede là veramente. Finché non accade il peggio. E a quel punto ti si capovolge il mondo.
La verità è che non può esserci occupazione che sia compassionevole. Non esiste proprio. È impossibile»[5].
Le testimonianze di Bassam Aramin e di Rami Elhanan sono la conferma, incarnata nelle forme concrete della vita, del nuovo discorso giuridico internazionale attorno alla Palestina, così come risulta da numerosi documenti dell’ONU e di organizzazioni non governative. Il tema ritorna ad essere quello della de-occupazione e della de-colonizzazione. Del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.
L’Unione europea dovrebbe uscire dai sui attuali equilibrismi e operare una correzione di rotta. Così gli USA. Se Unione europea, USA e Cina richiamassero Israele alle sue responsabilità e al pieno rispetto del diritto internazionale, allora sì, potrebbe esserci una pace vera.
Deve inoltre sentirsi più forte la voce dell’”altro Israele”. Voci come quella di Rami Elhanan:
«Certo, creare una qualsiasi forma di speranza è una fatica di Sisifo. Ma è proprio questo che mi fa andare avanti. Racconto e continuo a raccontare questa storia senza sosta. Dobbiamo porre fine all’Occupazione e poi sederci insieme per trovare una soluzione. Uno stato, due stati, in questa fase non importa – intanto facciamola finita con l’Occupazione, e poi avviamo il processo di ricostruzione di una possibile dignità per tutti noi. […] L’Occupazione non è né giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione non è in alcun modo una forma di antisemitismo»[6].
Il 3 giugno 2018 Amos Oz, all’Università di Tel Aviv, tenne la sua ultima conferenza. Gravemente malato e consapevole della sua imminente fine, le sue parole risuonano come un testamento politico:
«Penso che nel profondo nell’animo la maggior parte degli israeliani sappia che bisogna procedere con l’intervento chirurgico, separare e creare due stati. Ma è difficile, doloroso, spiacevole […]. Eppure da qualche parte, forse, c’è già fra di noi l’uomo che dirà agli israeliani: Cari ragazzi, lo sapete anche da voi che questa operazione bisogna farla, e allora facciamola»[7].
«Niente è impossibile», dice Bassam Aramin:
«I palestinesi hanno forse ucciso sei milioni di israeliani? Gli israeliani hanno forse ucciso sei milioni di palestinesi? Invece i tedeschi hanno ucciso sei milioni di ebrei e guardate: adesso abbiamo un diplomatico israeliano a Berlino e un ambasciatore tedesco Tel Aviv. Vedete, niente è impossibile. Sempre che io non sia sotto occupazione, sempre che io abbia dei diritti, sempre che voi mi permettiate di spostarmi, di votare, di essere umano, allora tutto è possibile»[8].
Giorgio Pagano
[1] G. Pagano con M. Mannoni, Orgoglio di città, De Ferrari, Genova, 2007, p. 300.
[2] I. Pappé, La prigione più grande del mondo, Fazi, Roma, 2022, p. 30
[3] Ibidem.
[4] Colum McCann, Apeirogon, Feltrinelli, Milano, 2021, pp. 271-272.
[5] Ivi, pp. 258-259.
[6] Ivi, pp. 259-260.
[7] A. Oz, Resta ancora tanto da dire, Feltrinelli, Milano, 2023, pp. 46-47.
[8] Colum McCann, Apeirogon, cit., pp. 278-279.
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