Un sogno color turchese
Città della Spezia, 4 febbraio 2018
LA SETA NASCE IN CINA
La vicenda della seta comincia in Cina, tanto nel mito quanto nella storia. “All’inizio -spiega Franco Cardini, lo storico che mi guida nel viaggio- c’è un baco, ma non un baco qualunque. L’unico in grado di produrre quel particolare continuo filo dipanato è il bombice del gelso, bruco che si nutre principalmente di gelso bianco. Un bruco che diventerebbe farfalla se non gli fosse impedito prima”. Il valore della seta risiede infatti nella continuità del bozzolo non dipanato, e dunque bisogna uccidere il baco, immergendolo nell’acqua bollente così che il bozzolo si ammorbidisca e non venga forato. “E’ una cosa crudele la seta, a pensarci bene”, aggiunge Cardini. A quel punto si può cominciare a dipanare il filo, che può essere lungo da seicento a duemila metri; poi si tirano insieme i fili di vari bozzoli e si ottiene così il filo di seta grezza che sarà avvolto in rocchetti o matasse. Infine ci sono varie fasi di lavorazione, fino a quando la seta è pronta per la filatura. Siamo nel III millennio a. C. La seta assume un crescente valore economico, e comincia a essere utilizzata per acquistare i beni che i mercanti portano dalle lontane terre d’Occidente, dando vita così a uno scambio sempre più fitto.
LA NUOVA VIA DEL COMMERCIO
A occidente della Cina si apriva una vasta regione di deserti, punteggiata da oasi, che giungeva fino al Medio Oriente. Uno spazio immenso, delimitato a nord e a sud da alte montagne. La via da Oriente a Occidente era più che altro una direzione: le strade erano molte. I luoghi che queste strade attraversavano erano in una prima fase abitati da agricoltori, e il commercio aveva dimensioni locali. Poi, racconta Cardini, “le grandi comunicazioni si fecero sempre più fitte: mercanti, monaci, soldati”. I prodotti, i cibi, le materie prime si diffusero in modo sempre più capillare. Le religioni -manicheismo, zoroastrismo, cristianesimo-“giocarono un ruolo centrale, portando i sistemi di credenze da una cultura a un’altra”.
DA MARAKANDA ADAFRASYAB
In quei primi secoli di apertura verso occidente una delle popolazioni che ricoprirono un ruolo fondamentale, al centro della Via della Seta, furono i sogdiani: portatori di nuove idee, merci e religioni, più che di eserciti e guerre. Il loro territorio, la Sogdiana, ospitò un’importante civiltà di lingua e cultura iranica, che mantenne una forte identità culturale dal VI secolo a.C. al X secolo d. C., fino all’avanzata del mondo musulmano.
La città più importante della Sogdiana era Samarcanda, per i greci Marakanda.Sorgeva al crocevia delle strade che conducevano in Cina, India e Persia. Fu conquistata nel 329 a. C. da Alessandro Magno, il quale affermò: “Tutto quello che ho udito di Marakanda è pura verità, salvo che essa si rivela più bella di quanto avrei potuto immaginare”.Poi divenne Afrasyab. Sentiamo Cardini: “Nel I e II secolo d. C. i sogdiani divennero veri e propri monopolisti dei traffici sulla Via della Seta. Anche per questo la corte di Afrasyabsi trasformò sempre più in un luogo di trattative commerciali e diplomatiche tra persiani, turchi, indiani e cinesi, mentre si diffondevano il cristianesimo, lo zoroastrismo e il buddismo”. I sogdiani scambiavano, oltre alla seta, argento, oro, vino, pepe, canfora, muschio tibetano e cipria bianca. La loro lingua diventò una sorta di lingua franca lungo la Via della Seta. Questo mondo traspare in maniera stupefacente dalle pitture murali della “Sala degli ambasciatori” di Afrasyab (la fotografia è in basso). Uno scavo accidentale portò alla luce, nel 1965, questa straordinaria memoria dell’antico mondo sogdiano, risalente al VII secolo. La decorazione ritrae l’arrivo ad Afrasyabdi delegazioni cinesi, indiane e turche, nell’atto di presentare omaggi al sovrano della città.
LA SAMARCANDA CHE NON C’E’ PIU’
Con Cardini la visita non può che cominciare dalla “sua” Samarcanda, quella che non c’è più e che possiamo solo immaginare: il sito archeologico della collina di Afrasyab e la “Sala degli ambasciatori”. Visitiamo la zona degli scavi e il museo. Poco vicino, sulla riva del fiume Siob, si trova la tomba del profeta Daniele. Dentro un modesto oratorio c’è un sarcofago di ben 18 metri: la leggenda narra infatti che il corpo del profeta cresca di oltre un centimetro all’anno. Le sue spoglie, che risalgono al V secolo a. C., furono portate qui da Tamerlano, il Grande Emiro che rifondò la città nel 1370, rendendola un mito.Al luogo santo convergono pellegrini musulmani, ebrei e cristiani: il rito da compiere è un giro completo a piedi in senso antiorario, durante il quale si deve esprimere ripetutamente un desiderio.
LA LEGGENDA DELLA CANZONE DI VECCHIONI
A Samarcanda ci sono tante leggende. Viene subito in mente quella che noi italiani conosciamo di più, legata alla famosa canzone di Roberto Vecchioni: quella del soldato che, durante una festa per il ritorno della pace, scorge in mezzo alla folla gioiosa la Morte, che lo fissa malevola. Il soldato si rifugia presso il suo re che gli regala un cavallo prodigiosamente veloce, con il quale egli cavalcherà tutta la notte per raggiungere la più lontana, la più favolosa delle città, Samarcanda.Ma, giunto là, scoprirà che non si sfugge al proprio destino: la Signora in nero è lì ad attenderlo. Ho ascoltato la canzone mentre il pullman mi portava a Samarcanda e l’ho cantata con lui. L’ho capita fino in fondo solo dopo: tutti i monumenti più belli e insigni di Samarcanda sono tombe, sepolcri, edifici votivi in memoria dei morti. Ma non è così per tutti i monumenti del mondo, dalle piramidi egizie alla basilica di San Pietro? Certo, ma qui, dice Cardini, “forse la Morte abita più che altrove”. E si dice che abbia la sua tana in una grotta poco lontana dalla città.
LA CAPITALE DI TIMUR
Samarcanda passò da un impero all’altroogni due secoli circa, fino a quando il mongolo Gengis Khan non la spazzò via nel 1220. Questa avrebbe potuto essere la fine della storia di Samarcanda, ma nel 1370Tamerlano, il grande Timur (“L’uomo di Ferro”),la reinventò forgiando nei successivi 35 anni una città nuova, capitale ed epicentro culturale ed economico di uno sterminato impero, se non addirittura del mondo.Timur fu, dice Cardini, “uno dei più terribili protagonisti delle vicende millenarie del genere umano”: conquistò la Persia, l’India settentrionale, l’Anatolia e la Siria. Poinon puntò all’Europa ma alla Cina: lo fermò la morte per malattia, all’età, avanzatissima per quei tempi, di settant’anni.Timur è un personaggio che incute paura ma anche fascino. Non è sicuro che Stalin (“L’Uomo d’Acciaio”) assumesse il suo nome di battaglia in ricordo dell’”Uomo di Ferro”: ma, per Cardini, “se non è vera è ben trovata”. Il Grande Emiro abbellì Samarcanda di monumenti per la costruzione dei quali si servì di ingegneri, architetti, artisti e maestranze specializzate che aveva portato con sé soprattutto dalla Persia. La città, che superava i 150.000 abitanti, doveva essere bellissima. Non c’è quasi più la cinta muraria, non c’è più la dimora di Timur, il “Palazzo azzurro”. Ma il centro della capitale resta ancora oggi il Reghistan. E il monumento più affascinante di Samarcanda è ancora la moschea di BibiKhanum.
IL REGHISTAN
Il Reghistan era originariamente un grande bazar almeno in parte coperto, dal quale partivano le sei principali strade dirette verso le porte delle mura. Un bazar a cupole dedicato alla più giovane trale spose di Timur occupava il centro di quello spazio. I grandi e solenni monumenti che, da tre lati, delimitano il Reghistan, invece, al tempo di Timur non esistevano. Furono edificati in seguito, negli anni della dipendenza dall’emirato di Bukhara, come area delle moschee e delle madrase, uno spazio dedicato alla preghiera e allo studio, mentre i bazar si spostavano a nord, dove sono tuttora. I monumenti del Reghistan sono una profusione straordinaria di maioliche, mosaici color turchese e vasti spazi armoniosi. Colpisce che il portale d’ingresso di una madrasa sia abbellito da felini, a dispetto della tradizione islamica di non raffigurare animali viventi.
LA MOSCHEA DI BIBI KHANUM
Lo spettacolo della moschea è grandioso (la fotografia è in alto). Il nome significa “Prima Signora”, cioè la “Sposa Principale” di un musulmano poligamo. La leggenda dice invece che l’edificio fosse in realtà dedicato alla consorte più giovane, una principessa cinese bellissima. L’architetto persiano che dirigeva i lavori se ne innamorò e mandava avanti i lavori all’infinito per continuare a vedere l’oggetto dei suoi sogni. Per finire l’opera chiese un bacio in ricompensa, che ottenne ma velato dalla mano della principessa. Timur non perdonò e murò viva la giovane in un vano segreto della moschea. La leggenda continua dicendo che la principessa coprì da allora il suo volto per celare la prova della sua lievissima colpa, e che da allora in poi Timur ordinò alle donne di coprirsi per pudore. L’usanza del velo nascerebbe dunque a Samarcanda. L’architetto, invece, sarebbe salito sulla sommità della cupola per poi spiccare il volo verso la Persia. O forse si suicidò lasciandosi cadere nel vuoto? Certo è che, da allora, tutti gli innamorati infelici vennero qui per arrampicarsi e sfracellarsi al suolo. In ogni caso, al di là delle leggende, la cupola color turchese di BibiKhanum, con la sue elegantissime nervature, è davvero indimenticabile. Il cortile interno contiene un enorme leggio di marmo per il Corano. Secondo la tradizione, se una donna cammina carponi sotto il leggio avrà molti bambini. Di fronte alla moschea sorge un bell’edificio compatto, il mausoleo di BibiKhanum, la “Sposa Principale”.
Giorgio Pagano
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