Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Khiva, Tashkent e il “deserto rosso”

a cura di in data 8 Marzo 2018 – 21:57
Khiva, veduta della Città Vecchia dalla Torre di Guardia delle mura    (2017)    (foto Giorgio Pagano)

Khiva, veduta della Città Vecchia dalla Torre di Guardia delle mura
(2017) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 4 marzo 2018

DOVE NASCE L’ALGORITMO
Pochi sanno che l’algoritmo, uno dei cardini della matematica, fondamento oggi della grande finanza, delle assicurazioni, di Google e così via, fu scoperto a Baghdad da un dotto nativo di Khiva, nell’Asia centrale. La Via della Seta fu la strada, infatti, anche del sapere matematico. I numeri sono definiti solitamente “arabi”. Ma, spiega lo storico Franco Cardini, sono in realtà indiani: “arabi” fa riferimento al tramite che li ha fatti giungere in Occidente. “Agli arabi -spiega Cardini- si deve l’introduzione dello zero e del sistema posizionale indiano, che sarebbe poi diventato lo strumento di calcolo per eccellenza e il fondamento dell’algebra araba. Il primo volgarizzamento di tale sistema fu pubblicato agli inizi del IX secolo e lo si deve a Abu Muhammad al-Khwarizmi, originario di Khiva. Il metodo da lui sviluppato per il calcolo aritmetico con il sistema indiano legò il suo nome -distorto dall’adattamento latino- al concetto di algoritmo”.

KHIVA, LA CITTA’ MUSEO
Il centro storico di Khiva, circondato da mura di fango, è quasi del tutto integro. La città viene definita la “città museo” della Via della Seta. E’ quasi priva di vita, ma è un museo bellissimo. La sommità delle mura, al tramonto, è il magnifico punto di osservazione degli edifici della città immersi negli ultimi bagliori.
Khiva esiste almeno da quando esiste il commercio carovaniero e, secondo la leggenda, fu fondata quando Sem, uno dei figli di Noè, scavò un pozzo in questa zona.
Di sicuro la città esisteva già nell’VIII secolo come piccola fortezza e stazione commerciale su una diramazione laterale della Via della Seta. Era un centro secondario rispetto alla capitale Urgench.
Nel XVI secolo numerose tribù uzbeke si installarono nell’oasi circostante Khiva, abbandonando la vita nomade e fondando poco più tardi il khanato della Corasmia. Alla fine del secolo l’emiro abbandonò la città di Urgench, distrutta da Tamerlano, preferendo stabilirsi a Khiva. La città divenne un importante mercato di schiavi trascinati dalle vicine tribù dei deserti e delle steppe, e lo fu per più di tre secoli.
Le mire espansionistiche della Russia zarista nella regione si manifestarono fin dal 1717, anno in cui lo zar Pietro il Grande decise di inviare truppe al comando del principe Alexandr Bekovich-Cherkassky. La missione fallì, il principe fu scuoiato vivo e la sua pelle servì a confezionare dei tamburi. I numerosi prigionieri russi furono venduti come schiavi al mercato di Khiva. Nel 1740 Khiva fu distrutta da un altro invasore, lo scià di Persia Nadir, e la Corasmia divenne per un certo periodo un avamposto settentrionale dell’impero persiano. In seguito il potere ritornò agli emiri uzbeki, che nel XIX secolo promossero l’agricoltura con la costruzione di numerosi canali irrigui. Negli stessi anni si intensificò il commercio con la Russia zarista che portò grande prosperità al khanato. Nel 1873 ingenti truppe russe al comando del generale Kaufman riuscirono ad espugnare Khiva, riscattando le onte del passato. La Russia permise ai khan di continuare a regnare sotto il suo protettorato. Poi anche Khiva fu incorporata nell’Unione Sovietica.

ANCORA IL COLOR TURCHESE
La nostra visita comincia dalla moschea Juma, affascinante per le 218 colonne di legno che sostengono il tetto secondo un progetto derivato dalle antiche moschee arabe. Alcune sono antichissime, risalgono alla moschea originaria del X secolo. Dalla moschea si sale, lungo una scala di gradini molto bui (dove, si dice, vanno ad amoreggiare le giovani coppie uzbeke), fino al minareto.
Vicino alla moschea vi sono la madrasa, il bazar e il caravanserraglio di Allakuli Khan, la madrasa di Abdulla Khan e la zona dove una volta si svolgeva il mercato degli schiavi. Straordinarie sono le decorazioni del palazzo Tosh-hovli: tante stanze affacciate su tanti cortili, tra piastrelle in ceramica e sculture in pietra e in legno. La leggenda dice che il primo architetto dell’edificio sia stato giustiziato da Allakuli Khan per non essere riuscito a completare i lavori in due anni. Fu chiamato il “khan costruttore”, ma a quanto pare era anche un “khan impaziente”.
Visitiamo poi la madrasa di Islom-Hoja e il minareto, decorato con piastrelle turchesi e rosse, il più alto di tutto l’Uzbekistan. Subito dopo siamo nel mausoleo di Pahlavon Mahmud, il santo patrono di Khiva. La decorazione a piastrelle è straordinaria, così il cortile. E poi la sala della tomba del santo, con le splendide pareti a piastrelle. Ritorna il color turchese di Samarcanda, che ammiriamo ancora nelle piastrelle che rivestono il minareto di Kalta Minor. Doveva essere il minareto più alto, ma la morte improvvisa del khan che ne volle la costruzione portò all’interruzione dei lavori: da qui questa struttura irrituale, un po’ tozza ma affascinante. La giornata termina con la passeggiata nelle mura, fino alla torre di guardia e alla vista della città al tramonto. Forse la cosa più bella di Khiva, o forse no. Perché la sera precedente, una volta arrivati, la visita della città di notte era stata anch’essa straordinaria. Dormire dentro le mura consente di passeggiare solitari lungo le stradine dell’antica Khiva, muniti di una pila, assaporando il gusto di vivere in un luogo “fuori dal mondo”.

Tashkent, Museo-Biblioteca Moyie Mubarek, il Corano di Osman     (2017)    (foto Giorgio Pagano)

Tashkent, Museo-Biblioteca Moyie Mubarek, il Corano di Osman
(2017) (foto Giorgio Pagano)

TASHKENT, LA CITTA’ VECCHIA E QUELLA MODERNA
Tashkent, la capitale dell’Uzbekistan, è una metropoli contraddittoria e affascinante. E’ un’altra città della Via della Seta, dalla storia antichissima: araba, cinese, mongola, fino a diventare russa e poi sovietica. Nel 1966 un violento terremoto ne distrusse molte parti. Oggi è una città moderna, dall’edilizia russa, poi sovietica e infine post sovietica, tutte a loro modo monumentali. La sonnolenza ma anche la vivacità tipiche delle città uzbeke si ritrovano nella Città Vecchia, con le sue stradine, le vecchie case, le madrase e le moschee.
E con il Bazar Chorsu, il mercato alimentare. Sotto una grande cupola verde ci sono centinaia di banchi con ogni ben di Dio: carni, formaggi, frutta fresca e secca, verdure, spezie, dolci, cereali, pane… Le carni ci sono tutte, ma la preferita è quella di montone. Le pecore dalle posteriora grosse sono apprezzate per il grasso e la carne. La testa di pecora è considerata una prelibatezza e in alcune case viene servita in onore degli ospiti. I latticini e il latte fermentato sono un’altra specialità: lo yogurt è tra i migliori mai assaggiati. E poi tanta frutta, e noci, mandorle, noccioli di albicocche… Tutto è disposto in modo tale da creare uno spettacolo di forme e di colori, compresi quelli dei begli abiti delle donne venditrici. Andiamo nel forno a vedere come si produce il buonissimo nan, il pane uzbeko. Il Bazar è davvero un mirabile affresco di vita urbana, tra i sorrisi delle contadine dai denti d’oro e delle ragazze dalle sopracciglia nere e folte.
Nella Città Vecchia visitiamo la moschea del Venerdì di Hazroti Imom, il centro spirituale di Tashkent, fiancheggiata da due minareti, il mausoleo di Abu Bakr Kaffal Shoshi e poi la madrasa di Barak Khan, splendida con le sue mattonelle smaltate a vetro e i mosaici. In alcune piastrelle leggiamo i versi di una poesia datata 1520 dedicata alla città: ‘’Ma che regno è questo! Nemmeno i prati del paradiso sono in grado di reggere il confronto con l’antica Shash. Colui che rimane ad abitare qui a lungo si scorderà i giardini del paradiso. E’ vero che è meglio morire a Taskhent piuttosto che stentare la vita dall’altra parte del mondo’’.
Di fronte, il Museo-Biblioteca Moyie Mubarek custodisce la più ricca collezione di manoscritti orientali e una copia del Corano conosciuta come il Corano del califfo Osman, il più antico del mondo. Il manoscritto è stato scritto verso la metà del VII secolo. Di dimensioni molto grandi, rivestito di pelle di daino, contiene 353 pagine di pergamena con il testo originale del Corano. Fu portato a Samarcanda da Tamerlano, poi a Mosca dai russi nel 1886 e infine, nel 1924, riportato a Tashkent da Lenin come gesto di benevolenza verso i musulmani della nuova Urss.
Ci rechiamo nella madrasa di Kulkedash e nella moschea Juma, poi visitiamo il Museo Storico del Popolo dell’Uzbekistan, di grandissimo interesse: antichi manufatti zoroastriani e buddisti, diversi Budda, monumenti funebri che mi colpiscono per la somiglianza con le nostre statue stele lunigianesi…
Ed eccoci nella città moderna: la statua di Tamerlano a cavallo; il nuovo Dom Forum che presenta nella facciata lo stesso motivo delle tigri della madrasa She Dor nel Reghistan di Samarcanda; piazza Indipendenza, con l’edificio del Senato, il palazzo del Principe Romanov, di stile eclettico zarista, e dappertutto i pellicani (simbolo della fortuna); il Monumento alla Madre Piangente, in ricordo dei 400.000 uzbeki caduti nella seconda guerra mondiale; il Monumento Commemorativo del Terremoto…
In piazza Indipendenza Cardini ricorda il principe Romanov: “Era un parente dello zar, allontanato dalla corte e in esilio dorato a Tashkent per i suoi tanti vizi, non solo il gioco… era un cleptomane, degli oggetti da lui rubati c’è una sezione apposita nel Museo delle Belle Arti di Tashkent”.

IL “DESERTO ROSSO”
Khiva e Tashkent sono ai lati opposti dell’Uzbekistan. Samarcanda e Bukhara sono nella parte centrale del Paese. Tra Bukhara e Khiva (450 Km di distanza) c’è il Kyzil Kum, che significa “sabbia rossa”. Il “deserto rosso” è un deserto vero, senza paesi né villaggi. Non ci sono le dune di sabbia, perché è un deserto stepposo. Flora e fauna non mancano, sono quelle che più sopportano la salinità e l’infertilità del suolo, il calore estivo e il freddo invernale: tamerici e piante legnose con forti radici che riescono a raggiungere l’acqua nel sottosuolo; e lucertole, topi, serpenti (il cobra dell’Asia centrale), sciacalli, lupi, volpi, lepri, gatti selvatici, gazzelle… L’ultima tigre fu vista nel 1938. Il deserto è stato utilizzato nel corso dei secoli per il pascolo del bestiame dalla popolazione delle oasi locali, per lo più pecore e cammelli. Nelle zone centrali e occidentali del Kyzyl Kum sono stati scoperti grandi volumi di acqua artesiana, che è utilizzata per creare piccole oasi artificiali, dove vengono organizzati allevamenti bovini. Nelle zone montuose sono stati scoperti depositi di marmo, grafite e turchese, e sono state aperte diverse miniere d’oro di grandi dimensioni, mentre le regioni centrali sono ricche di riserve di uranio e di fosforiti. Il sud del “deserto rosso” è invece ricco di riserve di gas naturale. Il Kyzil Kum è attraversato da una strada, lungo la quale non mancano i punti di ristoro. In uno di questi mangiamo, come quasi sempre, carne di montone: ma è la più dura del viaggio. Meno male che abbiamo con noi frutta secca, tè e caffè. Ma non ci lamentiamo: è bello perdersi nell’orizzonte rosso di sabbia.

Giorgio Pagano

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