Verità e giustizia per Sant’Anna
Città della Spezia, 17 Agosto 2014 – L’estate è la stagione più favorevole alla guerriglia: la vegetazione torna a offrire rifugi, il disgelo rende nuovamente ospitali le montagne, si può dormire nei fienili e all’aperto, è relativamente più facile sfamarsi. L’agosto 1944 fu, per i partigiani, un mese di ottimismo, e anche di illusione, quella che non vi sarebbe stato un altro duro inverno di battaglia. La vittoria sui tedeschi era ormai certa, ma sarebbe arrivata solo nell’aprile 1945. Le truppe tedesche si ritirarono a difesa della linea Gotica, la struttura difensiva costruita lungo i monti tra Massa Carrara e Pesaro, lasciandosi dietro un catena terribile di stragi. L’estate del ’44 è quella della “guerra ai civili”, nelle immediate retrovie della linea Gotica: 15.000 morti, vittime dell’imbarbarimento di chi si sentiva perduto e voleva rendere sicura la propria ritirata, annichilendo la popolazione perché cessasse di proteggere i partigiani. Da S. Anna di Stazzema (12 agosto) a Marzabotto (29 settembre) fu un lungo martirio.
Sono tornato a S. Anna per la manifestazione del 70° anniversario della strage. Andarci desta sempre un senso di sgomento e di desolazione morale: come poté l’uomo commettere un crimine così atroce e decidere di negare così radicalmente la sua stessa umanità, trasformandosi in belva feroce? La furia omicida dei nazisti, aiutati e indirizzati da altri italiani, i fascisti repubblichini, si abbatté su tutto e su tutti. Uccisero i paesani e gli sfollati, i tanti saliti dalla piana versiliese e da località più lontane in cerca di un rifugio. C’erano anche due famiglie spezzine, i Bonati e gli Scipioni. I tedeschi arrivarono all’alba. Gli abitanti non pensavano a una strage, ma a un “normale” rastrellamento. Per questo molti uomini fuggirono, nascondendosi nei boschi: si accorsero troppo tardi delle reali intenzioni dei nazifascisti. Consiglio la lettura, su www.santannadistazzema.org, del racconto di quella mattina di orrore steso dallo scrittore Manlio Cancogni. Più di 140 nonni, madri, figli, nipoti furono uccisi subito, strappati dai letti, nel piazzale della Chiesa. I nazisti fecero un braciere con le panche della Chiesa e i materassi delle case e vi bruciarono vivi altri martiri. Tutte le case e le stalle furono messe a fuoco, con dentro persone e animali. Contro i bambini l’accanimento fu sadico: a tanti venne fracassato il capo, e il loro corpo, infilzato in un bastone, fu appeso alle case. Sette bambini furono bruciati vivi, a fuoco lento, nel forno preparato per il pane. Uccisero Anna Pardini, di appena 20 giorni. Uccisero Genny, che quella mattina aveva le doglie del parto. Uccisero anche i bambini spezzini Giuseppe Franco Bonati e Giuseppe e Mario Scipioni e i loro genitori Luigi e Ilde Scipioni. Uccisero in tutto 560 persone inermi, senza pietà, in preda a un furore cieco. Erano tedeschi, ma c’erano anche i fascisti che li avevano guidati: molti superstiti raccontarono di aver sentito uomini dal volto coperto parlare in dialetto versiliese.
Leggete, sullo stesso sito, anche la testimonianza di don Giovanni Evangelisti su che cosa fu, il 14 agosto, la sepoltura. Tra le vittime c’erano gli otto figli e la moglie di Antonio Tucci, ufficiale di Marina di stanza a Spezia. Mentre si stava apprestando la loro fossa, arrivò il padre gridando come un forsennato, per buttarsi tra quel groviglio di cadaveri. “Anch’io con loro!”, urlava. Bisognò immobilizzarlo, per molti giorni fu pazzo dal dolore. I 180 sopravvissuti vissero per oltre un mese, come bestie ferite, nascosti nelle gallerie delle vicine miniere. Poi vennero gli alleati e tornarono nel paese distrutto. Solo dopo la Liberazione iniziò l’opera di ricostruzione: i resti delle vittime furono portati nell’Ossario, che fu costruito sul Col di Cava, perché fosse visibile dalla valle e dal litorale versiliese.
Le prime indagini sull’eccidio furono condotte nell’ottobre del 1944 da una Commissione Militare Americana e, nel 1947, dal Servizio Investigativo Britannico. Poi arrivarono anche le autorità italiane. Esistevano dunque, già al tempo, grazie alle testimonianze, elementi precisi per l’identificazione dei responsabili. Ma tutta questa documentazione probatoria sembrò sparire nel nulla. I parenti delle vittime e i superstiti manifestarono apertamente e in tutte le sedi per avere verità e giustizia, in polemica per la quasi totale assenza delle istituzioni. Al Feldmaresciallo Albert Kesselring non fu imputato nulla. Nel 1948 il generale Max Simon fu riconosciuto colpevole, condannato a morte, poi all’ergastolo, infine graziato. Nel 1951 il maggiore Walter Reder, riconosciuto colpevole delle stragi di Marzabotto, Bardine e San Terenzo Monti, fu assolto per insufficienza di prove per il massacro di S. Anna.
Da allora, dal 1951, la memoria dell’eccidio di S. Anna cadde in una sorta di oblio. Non si seppe che fine avevano fatto le indagini giudiziarie. Gli esecutori materiali non erano stati individuati: sembrava non vi fossero colpevoli. Il paese era ancora isolato, raggiungibile solo con mulattiere, senza strada, senza telefono. Per i pochi rimasti a combattere per la verità e la giustizia era estremamente difficile farsi ascoltare. Fino al 1994 nessuno parlò più di S. Anna. Ebbero un peso decisivo le questioni di diplomazia internazionale nel dopoguerra, e il timore dei Governi italiani di riaprire e affrontare con trasparenza una delle pagine più buie della storia d’Italia. In sostanza: nel contesto storico caratterizzato dalla “Guerra Fredda”, per non urtare i rapporti con la Germania Occidentale e per non incrinare l’Alleanza Atlantica, si decise di occultare i fascicoli, che restarono per decenni nell’”Armadio della vergogna”, che, con le ante rivolte contro il muro, fu ritrovato solo nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura Militare, a Roma. Conteneva 695 fascicoli di inchiesta e un Registro generale che riportava ben 2273 notizie di reato relative a crimini di guerra nazifascisti: documenti per i quali nel 1960 il Procuratore Generale Militare, Enrico Santacroce, aveva disposto un’ “archiviazione provvisoria”. Ma l’ordine era venuto da membri del Governo, non c’è dubbio. La scoperta del 1994 non fu probabilmente “casuale”, ma frutto del mutato quadro geopolitico internazionale successivo al crollo del Muro di Berlino. Furono così riaperti i procedimenti, e i fascicoli relativi alle stragi, compresa quella di S. Anna, furono trasmessi alla Procura Militare della nostra città.
Il processo penale iniziò il 20 aprile 2004. Ricordo l’emozione di quella mattina, nell’aula del Tribunale Militare, poi soppresso nel 2008. Il nostro Comune fu infatti in prima fila accanto al Comune di Stazzema. Organizzammo un convegno nazionale; richiedemmo, a più riprese, di dare un pieno organico alla Procura, perché potesse portare a compimento le inchieste; affiancammo alla difesa delle parti civili un nostro legale di fiducia, Sergio Busoni, il cui supporto fu prezioso. Nel processo si distinse, per qualità professionali e morali, il Procuratore Militare Marco De Paolis. Nel 2005 dieci imputati per la strage di S. Anna furono condannati all’ergastolo; la sentenza fu confermata sia in Appello (2006) che in Cassazione (2007). Purtroppo la magistratura tedesca rallentò tutto, fino a un’altra vergogna: l’archiviazione del procedimento nel 2012, a opera della Procura di Stoccarda. La svolta c’è stata nei giorni scorsi: la Corte Federale tedesca di Karlsruhe ha annullato il decreto di Stoccarda. Gli atti saranno ora inoltrati alla Procura di Amburgo per processare Gerhard Sommer, unico tra i sopravvissuti in condizione di presentarsi in aula. Ha ancora un senso procedere, anzi è un dovere: lo si deve alla memoria dei morti; all’impegno di “Resistenza civile”, mai venuto meno, dei parenti delle vittime e dei superstiti; e alla storia della tutela dei diritti umani. Ma non basta la condanna da parte della magistratura tedesca. Serve anche una piena assunzione di responsabilità del Governo tedesco, e pure del Governo italiano, che deve rispondere a una domanda drammaticamente aperta: chi dette l’ordine dell’occultamento? Chi deve chiedere perdono a nome dello Stato? Servono poi il risarcimento dei danni e una riparazione, anche “simbolica”. E serve, infine, andare avanti nella conoscenza storica approfondita di tutte le stragi nazifasciste del periodo 1943-1945, per una presa di coscienza nazionale di questa pagina terribile e ancora aperta. La Spezia, che ha conferito in segno di gratitudine la cittadinanza onoraria a Marco De Paolis, potrebbe ora, come ha proposto la Presidenza del Comitato Unitario della Resistenza, acquisire le carte dei processi e custodirle adeguatamente in un archivio, accessibile a studenti, ricercatori, cittadini. Sarebbe una scelta di grande valore: di testimonianza e monito per non dimenticare l’orrore di quella guerra e di tutte le guerre e per radicare nelle coscienze, assieme alla memoria, i valori fondamentali della Costituzione della Repubblica.
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