Uscire dall’austerity, l’Europa si salva solo così
Città della Spezia, 18 Maggio 2014 – “I cittadini europei non accettano più l’austerity, e si stanno mostrando più saggi degli esperti. La situazione del vostro continente è drammatica, deve cambiare. La soluzione non è uscire dall’euro, ma uscire dalle sue politiche sbagliate… L’austerity contraddice 250 anni di sviluppo economico. I più grandi pensatori dell’economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso… Pensiamo alla lezione di John Maynard Keynes: in un periodo di alta disoccupazione e bassa domanda, l’ultima cosa da fare sono i tagli alla cosa pubblica. Non possono che peggiorare la disoccupazione giovanile”.
Amartya Sen, Premio Nobel, probabilmente il più grande economista vivente
“La Repubblica”, 11 maggio 2014
LA CRISI PROFONDA DELL’ITALIA E DELL’EUROPA
La crisi profonda del nostro Paese ha molte cause. C’è la traiettoria di lungo periodo del modello di sviluppo del Paese che è inadeguato sul piano economico -segnato dall’ascesa della finanza e dal declino della produzione-, ingiusto sul piano sociale, insostenibile sul pino ambientale. C’è l’effetto della crisi scoppiata nel 2008 e delle politiche economiche di austerity che sono state imposte al Paese, con l’accordo dei nostri vari Governi. C’è infine l’incapacità delle autorità europee e dei Governi italiani di costruire una politica che sappia trovare una via d’uscita alla crisi. Il simbolo degli errori dell’austerity è il “fiscal compact”, che l’Italia ha addirittura inserito in Costituzione: prevede per le nostre finanze, a partire dall’anno prossimo, l’esborso di circa 50 miliardi all’anno, per vent’anni di seguito, per restituire una parte cospicua del debito pubblico del nostro Paese. 50 miliardi che si andranno ad aggiungere ai quasi 100 che già sborsiamo ogni anno, sotto forma di interessi, ai creditori (privati) dello Stato italiano. Nessun politico o economista espressione del “pensiero unico” dominante ci spiega da dove lo Stato potrà mai tirar fuori tutto quel denaro; ovvero quale tasso di crescita sarebbe necessario raggiungere -e subito!- per far fronte a un impegno simile. Ci saranno aumenti di tasse e tagli alla spesa inimmaginabili. Non si capisce come quel che resta del sistema produttivo italiano possa reggere a lungo. E che cosa possa restare del nostro welfare, già inadeguato e martoriato. La Grecia parla per noi. “Lancet”, una tra le prime cinque riviste mediche mondiali, ha pubblicato nei mesi scorsi un dossier funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nel cuore dell’Europa si aggira la morte, ma Pier Carlo Padoan, attuale Ministro dell’Economia, un anno fa, quando era vice segretario generale dell’Ocse, commentava così la situazione greca: “Il dolore sta producendo risultati” (“Wall Street Journal”, 29 aprile 2013).
LA GRANDE MANIPOLAZIONE
A pochi giorni dalle elezioni europee, non c’è nessun politico italiano che non attacchi la politica di austerity, anche se per anni l’ha sostenuta o subita passivamente. Così non si capisce più di chi siano le responsabilità. Non ci sono più colpevoli, ma una sorta di virus malefico che ha colpito l’Europa. I politici che hanno sostenuto l’austerity ora la criticano, ma non fanno proposte alternative, solo vaghe promesse. Tanti cittadini non si indignano nemmeno più, sono rassegnati. La grande manipolazione dell’informazione fa dire a tanti: “abbiamo vissuto sopra i nostri mezzi, abbiamo sperperato, dobbiamo fare sacrifici”. E molti giovani si accontentano di lavorare poco o niente, hanno smesso di avere ambizioni: una catastrofe culturale e sociale. E’ passata l’interpretazione tedesca della crisi, secondo cui la sua origine è nel debito pubblico. Ma questa tesi è falsificata da tutti i dati ufficiali, i quali dicono che la crisi è nata da un eccesso di debito privato, non pubblico. La crisi è nata dai mutui, ha colpito le banche, ha avuto al centro Paesi -Usa, Gran Bretagna, Irlanda, Spagna, Portogallo- con un debito pubblico decisamente basso e con un fortissimo indebitamento privato. E il balzo in alto dell’indebitamento pubblico europeo è avvenuto in conseguenza della crisi, per salvare le banche e per bilanciare con un aumento della domanda pubblica la caduta di quella privata. Eppure la lettura tedesca è stata accettata dagli altri Governi europei, e ha ispirato la politica di austerity. Oggi i politici che l’hanno appoggiata la criticano, salvo sostenere, per la Presidenza della Commissione europea, un tedesco: o il popolare Jean-Claude Juncker o il socialista Martin Schulz. Candidati tra loro certamente diversi: ma in Germania governano insieme.
IL VOTO NUOVO
C’è chi ha costruito una visione alternativa all’austerity. E’ Syriza, la “sinistra popolare” della Grecia, il partito che ha saputo parlare alle persone, si è innervato nella società e ha convinto un terzo della popolazione che è possibile costruire un’alternativa, senza prendere scorciatoie nazionaliste e antieuropee, che porterebbero la Grecia e l’Europa più velocemente nel baratro. Il programma di Alexis Tsipras, leader di Syriza e candidato alla Presidenza della Commissione da un vasto campo di forze (in Italia dalla lista “Un’altra Europa con Tsipras”), è basato su questi principi: l’abolizione di tutti i trattati e gli accordi che regolano la politica di austerity, la riduzione e il controllo dei poteri della finanza; la rinegoziazione e la drastica riduzione del debito pubblico dei Paesi sottoposti alle politiche “lacrime e sangue”; il rilancio dell’occupazione con la riconversione in senso ecologico dell’apparato produttivo; la tutela dei lavoratori con la stabilizzazione dei rapporti di lavoro e l’introduzione del salario minimo; la lotta alle diseguaglianze e le politiche di inclusione nei confronti dei migranti e delle persone che hanno meno reddito e meno diritti: un “social compact” per salvare e rinnovare il welfare e il “modello sociale europeo”. Ho pensato per molto tempo che, alle elezioni europee, avrei votato per il candidato socialista. Ma ho dovuto ricredermi: sia per la forza della novità rappresentata da Tsipras sia per la debolezza di Schulz e del socialismo europeo. Dopo le elezioni politiche la Spd si è imbarcata in una Grosse koalition sotto la guida di Angela Merkel, fondata su uno scambio: sono stati garantiti alcuni miglioramenti ai lavoratori tedeschi, ma sono state bocciate le idee socialdemocratiche di un fondo europeo per la condivisione del debito e di un nuovo “Piano Marshall” e degli “eurobond” per creare lavoro. La Spd ha dunque delegato per intero la politica europea all’austerity della Merkel: l’europeismo ha capitolato di fronte al nazionalismo tedesco. E’ vero che Schulz, in questa campagna elettorale, ha detto cose nuove: ma le ha dette troppo poco e troppo tardi. Ho provato la stessa delusione per la politica del Presidente francese Francoise Hollande: ha richiamato la distinzione destra-sinistra nella campagna elettorale in Francia, e in questo modo ha raggiunto la vittoria; ma poi non ha saputo riproporre il ruolo del socialismo e della Francia per cambiare le regole dell’Europa. In politica non basta evocare, bisogna realizzare: ecco perché alle elezioni amministrative il socialismo francese è stato sconfitto, e ha vinto il populismo di destra della dinastia Le Pen. In questo quadro si profilano le “larghe intese” tra socialisti e popolari anche in Europa: è chiaro che solo un voto nuovo, quello alla sinistra di Tsipras, può scombinare i giochi.
I POPULISMI E LA SINISTRA POPOLARE
Nell’opinione pubblica europea la “spinta propulsiva“ dell’Europa si è ormai esaurita. E’ cresciuta la sfiducia, il rischio dell’astensionismo elettorale è molto alto. Può esaurirsi la parabola di un’Europa che, nelle intenzioni dei suoi fondatori, nasce democratica, federalista e solidale, cresce all’insegna dell’austerity neoliberista e infine muore vittima delle sue ricette sbagliate, dilaniata da un populismo di destra, nazionalista e xenofobo, che appare forte non solo in Francia ma in tutto il continente. Come è potuto accadere? In trent’anni di neoliberismo i partiti della sinistra riformista sono migrati dalla società civile nello Stato per gestire la rendita politica nelle istituzioni, hanno rinsecchito le loro radici nel popolo e hanno abbandonato le loro parole per accettare quelle degli altri, subalterne al mercatismo. La rappresentanza si è fatta rappresentazione plebiscitaria, la democrazia della partecipazione è diventata democrazia del gradimento: è così che si sono alimentati, nel vortice della “politica della pancia”, i populismi. In Italia, sostiene il sociologo Carlo Donolo, si possono identificare “tre varianti principali di populismo, espresse da Forza Italia (populismo mediatico), dal M5S (populismo della rete), dalla Lega Nord (populismo delle identità territoriali). Inoltre temi e suggestioni populiste sono ora ben presenti anche nel Pd renziano, che ripete alcune movenze del craxismo (il nuovo, la velocità, la rottamazione)”. Tutte queste declinazioni del populismo hanno certi tratti comuni, anche se diversamente miscelati, e trovano un radicamento sociale nel “ceto medio ora in declino” e nella “classe operaia ormai depotenziata”, cioè nei “gruppi sociali più esposti e più martoriati dalla crisi, quelli per i quali le politiche europee risultano le più deleterie, in molti casi fatali”. Donolo così conclude la sua analisi: “Il futuro resta del tutto indefinito, ma non importa, la speranza ora è principalmente nella pars destruens: fare piazza pulita e avere un nuovo inizio”. Al fondo le varie forme di populismo sono accomunate dalla subalternità al modello neoliberista. E’ però evidente che Renzi e Grillo (non più Berlusconi e Bossi) interpretano, nella società, una radicale voglia di cambiamento che va compresa. La novità di Renzi, chissà, potrebbe correggersi e forse essere messa al servizio di un progetto di trasformazione democratica della società. Più difficile che accada per la novità di Grillo, che ha contenuti troppo vaghi e un’impostazione in cui la democrazia rappresentativa, che pure non basta più e va radicalmente riformata, semplicemente scompare. In ogni caso, anche per influenzare l’evoluzione altrui, serve la rinascita di una grande “sinistra popolare”. Esprimo questa speranza con le parole di una giovane donna, Agnese Ambrosi, impegnata in un’associazione di volontariato: “Non abbiamo bisogno di predicatori della sinistra. Ma di testimoni appassionati e coerenti, con un immaginario che li porti a guardare sempre avanti e una connessione intima con gli altri esseri umani. Gli interlocutori percepiscono se parli di sinistra, o se invece quello che ti muove è l’amore per le persone che è alla base di quelle idee di eguaglianza e dignità che la sinistra ha sempre fatto sue. Se al centro c’è la persona, con le sue sofferenze e le sue bellezze, e non invece l’ego narcisista di chi pretende di lottare in suo nome. E noi, spesso, ci siamo innamorati delle parole e delle idee, invece che delle persone”. Se sapremo essere, personalmente e tutti insieme, testimoni ed esempi viventi di questa idea della politica, allora “una grande sinistra popolare forse potrà essere ricostruita”.
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