Una rivoluzione contro i corrotti
Città della Spezia, 22 giugno 2014
“La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia di oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati”.
Dall’intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari su La Repubblica, 28 luglio 1981
Trent’anni fa, a Padova, se ne andava Enrico Berlinguer, l’uomo politico che per la prima volta mise l’Italia di fronte alla “questione morale”. La politica ha trovato, trent’anni dopo, il modo più indegno per celebrarlo: prima gli scandali dell’Expo e del Mose, poi il voto del Parlamento per introdurre la responsabilità civile “diretta” dei magistrati, norma simbolo della vendetta del Palazzo.
Le misure concrete e tangibili contro la corruzione sono chiare a tutti da tempo. Ma in questi anni ha regnato l’ipocrisia: dichiarazioni sdegnate, riunioni di emergenza, annunci, poi più nulla, anzi solo leggi sbagliate o fatte male. Non solo le leggi ad personam di Berlusconi, ma anche la legge Severino del governo Monti, approvata da Pd e Pdl nel 2012: una legge che “spacchetta” il reato di concussione, riducendo i reati e i tempi di prescrizione per le ipotesi meno gravi ma più frequenti. Ne hanno beneficiato non solo Berlusconi ma anche Penati nel processo Falck. Solo nello scorso aprile è stata approvata all’unanimità la legge 67, che introduce la possibilità di chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a quattro anni di detenzione. In questi casi si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima due anni, al termine del quale il reato si estingue: un vero e proprio “colpo di spugna”. Ora vedremo che faranno Renzi e Orlando: hanno promesso un organico disegno di legge anti-corruzione e il ripristino del falso in bilancio, speriamo che anche loro non ci deludano, e battiamoci per questo.
Tuttavia bisogna sapere che senza cambiare il modello partitico-politico oggi in vigore, nessuna legge basterà. Una piccola storia della “questione morale” in Italia, sulla base degli studi di storici come Paolo Borioni e Giovanni De Luna, può aiutarci a capire il perché di questo assunto. Nella prima Repubblica la Dc, partito moderato ma indipendente, più di altri partiti moderati europei, dall’interesse capitalistico privato, era prevalentemente finanziata dalle imprese pubbliche (le Partecipazioni Statali). Il Pci aveva i finanziamenti sovietici, non poteva vivere solo di tesseramento e Feste de l’Unità, da cui pure traeva ingenti risorse. Il Psi, tagliato fuori dai finanziamenti sovietici, non poteva nemmeno contare su quello sindacale delle socialdemocrazie europee, per la diversa relazione tra sinistra e sindacato nel nostro Paese (nella Cgil c’erano, in maggioranza rispetto ai socialisti, anche i comunisti): per questo motivo anche il Psi, dopo la Dc, finì con il rivolgersi all’industria pubblica. Questo sistema resse fino ai primi anni Ottanta. A peggiorare le cose fu soprattutto la mancanza di ricambio al governo, la “democrazia bloccata” con la Dc fissa al potere (perché un Pci legato all’Urss non poteva governare in Occidente): una situazione senza controllo popolare sui limiti di decenza del sistema, che apriva sempre più il varco al malaffare, nella opacità e nella immobilità che garantiscono connivenza e impunità. Gli scandali degli anni Ottanta segnalarono l’emergere di una logica spartitoria tra Dc, Psi e partiti di governo “minori”: la logica che denunciò Enrico Berlinguer. E che negli anni successivi finì con il lambire, in alcune sue parti, anche il Pci e i partiti suoi eredi, in crisi politica e anche finanziaria, a causa del progressivo distacco dall’Urss. Da allora una cultura politica pseudo-moderna e i modelli elettorali adottati hanno favorito organizzazioni sempre più personali e leaderistiche e sempre meno radicate nel popolo. Leggiamo la denuncia di un “grande vecchio” del Pd, Alfredo Reichlin: “Al tempo di Tangentopoli le mazzette erano figlie di un’occupazione partitica della società. Oggi sono la cinghia di trasmissione di potentati personali, politici e imprenditoriali: è la conseguenza del fatto che il governatore o il sindaco, o l’assessore contano più dei rispettivi partiti, che le loro campagne elettorali sono pur sempre da finanziare, e che i partiti sfilacciati non ce la fanno a garantire un controllo sull’operato degli amministratori e a selezionare la classe dirigente”. Non dice cose diverse un giovane dirigente del Pd, Matteo Orfini, da pochi giorni Presidente del partito: “In un momento in cui quasi tutti gli incarichi sono scelti dagli elettori con le primarie aumenta il rischio che il singolo candidato sia sostenuto da lobby che, in cambio di questo sostegno, non solo economico, puntano a utilizzare questa elezione per fare altro”. Io ho sempre sostenuto le primarie, come strumento per avvicinare cittadini e partiti in crisi, e per rendere contendibili tutti gli incarichi: ma l’esperienza di che cosa sono diventate non può non far riflettere.
Sono i partiti personali, quindi, la causa vera della malattia: perché sono costellazioni di feudi tenuti assieme da una leadership. Tanti feudi, comunali, regionali e nazionali, in competizione tra loro, apparati frammentati in ciascuno dei quali si insediano banchieri, finanzieri, mediatori, profittatori di ogni genere. Salvo poche eccezioni, chi fa politica oggi o è un tecnico senza visione o, più spesso, un addetto ai lavori che ha a cuore soprattutto la sua rete di relazioni, che gli ha permesso di acquisire influenza: un esperto della pratica del potere, che ha come obbiettivo principale “restare nel giro” e per questo obbiettivo spesso si fa corrompere.
Vanno aggiunte altre constatazioni. La prima: una buona parte dell’imprenditoria ha l’abitudine a un rapporto perverso e consociativo con la politica, perché fatica a competere e cerca scorciatoie. La seconda: le pratiche corruttive sono motivate anche dalla creazione di potentati clientelari, che sono l’altra faccia di un mercato del lavoro sempre più precario e povero, in cui avere un lavoro spinge ad affidarsi al potente di turno. Sono due constatazioni che portano a un’amara conclusione: una buona parte della società civile e del popolo ha tutto l’interesse a trovare interlocutori istituzionali “comprensivi” e “disponibili” a esaudire desideri non sempre irreprensibili.
Non è facile, quindi, combattere la corruzione: perché servono sia un ripensamento della politica che porti alla formazione di partiti nuovi, che ridiano valore alla partecipazione democratica, sia una spallata rigeneratrice che salga dal popolo. Ma la politica saprà autoriformarsi? E’ lecito dubitarne. Dieci anni fa ci lasciava, a soli 53 anni, Tom Benetollo, grande presidente dell’Arci, con cui lavorai a lungo negli anni Ottanta nel movimento pacifista. Ricordo le parole del suo ultimo intervento: “L’autoriforma della politica non c’è stata e non ci sarà: ne deduco che sia necessaria una vera e propria rivoluzione, rovesciando i meccanismi che conducono alla formazione della volontà politica”. La rivoluzione della politica dal basso è il grande compito che ci spetta: ancor di più oggi, dopo questi dieci anni così tristi. Per farla servono tanti uomini che, come Tom, sappiano sfidare il potere perché non lo invidiano. Sembra impossibile. E tuttavia, come lui diceva: “arrendersi al presente è il modo peggiore per costruire il futuro”.
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