Una democrazia a testa in giù
Città della Spezia, 7 gennaio 2024
Il 2024 è iniziato con un’accelerazione della decisione governativa di avviare l’iter della riforma della Costituzione per introdurre l’elezione diretta del premier. Sarà anche un diversivo per non discutere dell’economia che non va e per rilanciare l’immagine, un po’ ammaccata, del governo, ma certamente non è un progetto improvvisato. Risponde a un antico disegno presidenziale della destra italiana e del suo partito, il MSI. Se la riforma fosse approvata nascerebbe una nuova Repubblica, una nuova forma dello Stato.
La politica verrebbe affidata a un capo per cinque anni e poi sarebbe, per tutto questo periodo, dimenticata, fino al successivo turno elettorale. Ci sarebbero da un lato un vertice forte, o presunto tale, e dall’altro lato una società debole, sempre più spoliticizzata e disimpegnata.
Il vertice non sarebbe in realtà forte, perché non rappresenterebbe la società. E’ impossibile governare bene e decidere da soli, accentrati, “sopra”, con “sotto” una società sfilacciata, segmentata in corporazioni capaci di guardare solo ai loro particolarismi. Il problema dell’Italia – e non solo – è la debolezza della società, che si riflette nella debolezza della politica. E’ un problema che non si può curare partendo dal vertice, ma solo dalla base, costruendo nuove forme di partecipazione politica, nuovi e “veri” partiti, rafforzando in questo modo la capacità della politica di rappresentare la società.
Va aggiunto che, in mancanza di contrappesi e di equilibrio tra i diversi poteri, tutte le forme di governo presidenziali sono degenerate, a volte tragicamente. Dovremmo rafforzare enormemente il Parlamento. Ma il nostro Parlamento non sarà mai il Congresso statunitense, che non esita a bocciare tutte le richieste presidenziali non gradite: da molti anni è stato indebolito, e certamente il progetto di riforma non ne rafforza autonomia e poteri, anzi lo rende ancor più supino. Il fatto di avere parlamentari nominati e non eletti dal popolo – sono loro che dovremmo eleggere! – certamente non aiuta: ma a questo difetto non si intende affatto ovviare. Il popolo deve solo, ogni cinque anni, eleggere il capo. Un volto, un personaggio. Con maggioranze generate da una legge elettorale che assegna un premio generosissimo a chi vince anche con una manciata di voti. E’ una democrazia a testa in giù.
Ad attaccare la Costituzione, in tutti questi anni, non è stato solo il bonapartismo presidenzialista. Sono stati anche i grandi poteri economici internazionali, i giganti finanziari, che criticano il fatto che nella Costituzione ci sono troppi diritti, c’è troppa democrazia. Mentre è in atto un’ossessiva campagna propagandistica sull’Occidente democratico contrapposto a tutto il resto del mondo, il monito antidemocratico delle banche d’affari è terribile e fa davvero pensare.
Certamente è difficile contrapporre al decisionismo autoritario la partecipazione. Sono cresciuto e sono vissuto nell’epoca storica più ricca di speranza, e la sto raccontando nei miei libri per contribuire a far sì che non se ne perda la memoria: l’epoca in cui si pensava che “libertà è partecipazione”. La mia generazione è stata sconfitta, ma questo non significa – almeno per me – essere diventati domi, proni a una realtà ingiusta, in un mondo dove trionfa un realismo d’accatto secondo cui “there is not alternative”, non sono cioè previsti cambiamenti di sorta.
Nelle sue lezioni sulla “Democrazia oggi” lo storico Alessandro Barbero ci aiuta a riflettere su questa questione.
Oggi in Europa e negli Stati Uniti – dove c’è la democrazia – il cittadino medio non sente che votando quel partito o quel candidato partecipa profondamente alle decisioni. Nella sensazione comune c’è il fatto che le decisioni le prendono “loro”. Il fatto che ogni tanto possiamo cambiarli è già qualcosa ma non vuol dire che decidiamo noi. La riforma della Costituzione rafforzerebbe questo senso di passività. Per noi democrazia ormai vuol dire soprattutto libertà, poter dire quello che vogliamo. Non decidiamo su nulla ma sui social siamo liberi (fino a un certo punto, perché ci prendono tutti i dati della nostra vita).
Gli americani sono forse quelli che più riflettono sui limiti di questa democrazia. Barbero cita due ex Presidenti. Barak Obama, secondo cui “la democrazia crolla quando la persona media sente che la sua voce non conta, che il sistema è sbilanciato a favore dei ricchi o dei potenti o di interessi privati”. E Jimmy Carter, che è molto netto: “Noi oggi siamo diventati un’oligarchia invece di una democrazia”. Non decide il popolo ma decidono i pochi, i più ricchi.
La scrittrice indiana Arundhati Roy sostiene che la democrazia non significa più quel che dovrebbe, che ognuna delle sue istituzioni è stata svuotata e ci è stata restituita come un veicolo per il libero mercato, uno strumento a disposizione delle multinazionali, “per le multinazionali fatto dalle multinazionali.” E non “per il popolo, fatto dal popolo”, come dicevano i padri fondatori americani.
La riforma della Costituzione sarà sottoposta a un referendum. Andrebbe trasformato in una grande discussione di popolo su questi temi. Per pensare e immaginare una nuova, vera democrazia.
Post scriptum:
Le fotografie di oggi sono state scattate a Nablus, in Palestina, e a Tagba, in Israele. C’è stata un’epoca in cui in Palestina vivevo anche con israeliani, e in Israele vivevo anche con palestinesi. Viene in mente, a proposito di persone veramente indomabili, la filosofa, mistica e scrittrice francese Simone Weil: “La vita umana è fatta di miracoli. Chi ci crederebbe mai che una cattedrale gotica possa stare in piedi se non lo constatassimo ogni giorno? Per il fatto stesso che oggi non ci sia sempre la guerra, non è impossibile che ci sia per sempre la pace”.
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