Un popolo sempre più in gabbia
Città della Spezia, 5 luglio 2020 – In un mondo devastato dal Covid-19 e dalla crisi economica emergono il peggio e il meglio dell’umanità. Tra le pagine nere c’è quella che Richard Falk, ex relatore speciale per l’Onu sulla questione palestinese, ha definito “la danza macabra di Israele attorno alla plateale illegalità dell’annessione in Palestina”. In più di una occasione Il Primo Ministro israeliano Benyamin Netanyahu aveva indicato, sulla base dell’accordo di governo firmato con il suo ex rivale Benny Gantz, il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per “l’estensione della sovranità israeliana” su larghe porzioni -due terzi circa- della Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Netanyahu ha poi frenato, ma non ha rinunciato al suo piano: “Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni”, ha detto il 30 giugno dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa David Friedman e l’inviato speciale americano Avi Berkowitz.
Il “PIANO DI PACE” AMERICANO
Il disegno di annessione di gran parte dei Territori occupati nel 1967 è frutto del piano del Presidente americano Donald Trump per la zona: un’opportunità storica per la destra israeliana -e i suoi alleati, purtroppo non solo di destra- per chiudere in un cassetto la legalità internazionale e i diritti dei palestinesi.
In base agli accordi di Oslo del 1993 la Cisgiordania è divisa in tre parti: l’Area C, il 60% dei 5.655 chilometri quadrati totali, è già sotto il controllo civile e militare israeliano, ed è la zona dove sorgono gli insediamenti dei coloni. Netanyahu, in base al “piano di pace”, intende annettere questa zona, assieme alla valle del Giordano. Ci sono poi l’Area B, sotto controllo misto, e l’area A, il 20%, affidata in esclusiva alla polizia palestinese. Lo status quo ha creato, in questo 20% della Cisgiordania, un semi-Stato palestinese. Tutto ciò verrà spazzato via dal “piano di pace”. Lo Stato palestinese indipendente diventerà una “gruviera”: poche aree immerse in un Israele ingrandito, aree la cui continuità territoriale sarà spezzata dalle colonie già esistenti o in programma. Una mappa tagliata su misura per isolare i 2,6 milioni di palestinesi nella Cisgiordania dai 600 mila israeliani che vivono a Gerusalemme est (la parte araba della città) e negli insediamenti. La “gruviera” è la fine del sogno di indipendenza, tanto più perché priva di Gerusalemme est come capitale. La capitale sarà Abu Dis, un quartiere periferico di Gerusalemme già separato dal resto della città da un muro di divisione. Ai palestinesi andrà poco di più di ciò che già amministrano della Cisgiordania. Gaza, controllata da Hamas, sarà lasciata al suo destino, isolata dal resto dei Territori palestinesi, con i suoi due milioni e mezzo di abitanti di fatto affidati alle organizzazioni umanitarie internazionali.
NETANYAHU VUOLE ACCELERARE, I GENERALI TIRANO IL FRENO
Netanyahu, appoggiato dai partiti di destra, vuole accelerare l’annessione, approfittando dell’opportunità rappresentata da quelli che potrebbero essere gli ultimi mesi di Trump alla Casa Bianca. Se non l’ha fatto il primo luglio non è perché lo preoccupino più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo alleato di centro Benny Gantz. La questione è che gli occorre il via libera definitivo degli Usa, che non è ancora arrivato. Con ogni probabilità l’annessione sarà limitata nella sua prima fase e non comprenderà la valle del Giordano, per essere poi completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre.
C’è anche una sorta di “ripensamento” interno a Israele che influisce. Non riguarda la popolazione israeliana, che mostra scarso interesse verso la questione all’annessione, che comunque non contesta. A tirare il freno a mano sono soprattutto i vertici dell’esercito e dell’intelligence del Paese, che temono ciò che potrebbe succedere nel semi Stato palestinese: la contrapposizione potrebbe essere tale da portare Israele a occupare tutta la Cisgiordania. Ma in questo modo -dato che la maggior parte dei palestinesi vive in area A- Israele rischierebbe, per motivi demografici, di perdere la maggioranza ebraica nello Stato, cardine del progetto sionista. Ciò comporterebbe inoltre, sostengono i generali, costi esorbitanti. Sono obiezioni che non contestano l’annessione perché viola il diritto internazionale -secondo il quale uno Stato non può annettere un territorio estero occupato militarmente- e perché ignora i diritti dei palestinesi, ma che riguardano gli impatti negativi per il Paese. Nessuno, o quasi, in Israele sente il bisogno di confrontarsi con i diritti dei palestinesi. Leggiamo ancora Richard Falk:
“Come è sempre avvenuto lungo tutta la narrazione sionista, le aspirazioni e le rivendicazioni del popolo palestinese e la sua stessa esistenza non fanno parte dell’immaginario sionista: salvo quando si frappongono ostacoli o si crea una minaccia demografica alla regola della maggioranza ebraica”.
Fin dal 1947 il sionismo ha accettato la convivenza con i palestinesi come “soluzione del momento”, in realtà come pietra miliare per il recupero della maggior quantità possibile di “terra promessa”. L’utopia sionista, in poco più di settant’anni, è ormai diventata realtà.
UNA CATASTROFE PER ISRAELE
Per fortuna alcuni grandi intellettuali israeliani ed ebrei sono consapevoli che quella che sta accadendo è una “catastrofe” anche per Israele. E’ il termine usato da Daniel Barenboim, pianista e direttore d’orchestra:
“Proseguire con l’occupazione, creare nuovi insediamenti e ora anche pianificare l’annessione di territori ha dato ai palestinesi una superiorità morale”.
Abraham Yehoshua, scrittore, sostiene che lo Stato destinato ai palestinesi “è analogo ai Bantustan sudafricani, dove i bianchi avevano concentrato una parte della popolazione nera concedendole un’indipendenza virtuale”. Il termine che Yehoshua usa sempre più spesso da qualche tempo a questa parte è “Apartheid”.
Qualche giorno fa a Petach Tiqwa (Tel Aviv) un liquido rosso sangue, repellente, zampillava in una fontana nella piazza dedicata a Trump in riconoscenza per il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele. “L’annessione ci costerà sangue” diceva una scritta lasciata alla base della fontana. Non solo sangue: anche inferiorità morale, per usare le parole di Barenboim.
Voci di resistenza si levano dunque contro l’oltraggio alla Palestina e contro la catastrofe di Israele. L’America che non sta con Trump e l’Europa possono forse far tornare le speranze. Yehoshua arriva ad auspicare, da parte europea, “un vero boicottaggio come quello messo in atto contro il Sudafrica”. Teme che non sarà mai imposto, e lo spiega così:
“Il motivo è duplice: da una parte ci sono la memoria della Shoah e la responsabilità dell’Europa in quella tragedia, dall’altro l’antisemitismo serpeggiante nella società europea”.
Ma di fronte all’atteggiamento del Governo israeliano, aggiunge, “i Paesi europei non solo hanno il permesso ma anche l’obbligo morale di dire: no, adesso basta”.
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