Turismo, questa volta ce la possiamo fare
La Spezia, a metà Ottocento, avrebbe potuto diventare città turistica? La risposta a questa domanda cruciale è il cuore di “Turismo, questo sconosciuto. Spezia 1865-1885”, l’ultimo libro di Alberto Scaramuccia, studioso appassionato della storia locale. Le sue ultime ricerche sono spaccati di grande interesse sugli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, basate sull’analisi dei settimanali locali, da qualche anno digitalizzati grazie all’opera del Comune. Si tratta di documenti da considerarsi come fonti: certo, esprimono punti di vista e quindi non sono “terzi”, ma sono comunque l’espressione di una fetta della società. Chi scrive, infatti, oggi come allora condiziona i lettori ma ne è anche condizionato. Dalla lettura dei settimanali del periodo 1865-1885 emerge che il turismo non fu, in quegli anni, un’alternativa reale al modello di sviluppo che prevalse. Scaramuccia smonta, dunque, la recriminazione frequente che circola in città, secondo cui “se non ci fosse stato l’Arsenale Spezia sarebbe diventata città turistica”. Si tratta, sostiene, di una tesi dell’oggi, che ha a che fare con la frustrazione per il declino dell’Arsenale, ma che non ha fondamento nella storia reale di ieri.
In sostanza: l’Arsenale sicuramente impedì che si realizzassero tutte quelle potenzialità emerse con la venuta a Spezia della famiglia reale a fare i bagni (1853), ma gli spezzini non si opposero, anzi benedirono quel progetto. Ciò risulta a partire dal 1865, anno di inizio della disamina di Scaramuccia, ma è verificabile anche nel periodo immediatamente precedente, che fu quello in cui si decisero le sorti della città. Nel 1857 e nel 1859 due imprenditori, Vincenzo Gabaldoni e Pietro Tori, proposero al Comune di realizzare tra il canale dello Stagno e il Lagora, dove oggi c’è l’Arsenale, strutture ricettive per i bagnanti, ma tutto si arenò per l’opposizione degli amministratori: gli interessi che Spezia era venuta autonomamente consolidando e sviluppando furono travolti dalle superiori ragioni di stato, che trasformarono la città in piazzaforte e centro marittimo industriale della Marina. Con il consenso sostanziale degli spezzini.
L’autore aggiunge una considerazione, più legata agli anni oggetto del suo studio: la parte orientale del golfo, dal Colle dei Cappuccini (che sorgeva in corrispondenza dell’attuale piazza Europa) a Lerici, era libera da impianti militari, tranne quelli di San Bartolomeo, e avrebbe potuto essere occupata in tutto o in parte da attività turistiche. Ma gli spezzini scelsero di collocarvi le fabbriche industriali (finanziate da quattrini foresti, segno di una debolezza congenita dell’imprenditoria locale) e il porto mercantile: anche in questo caso non ci furono lamenti.
Certo, a Spezia ci furono, in quel periodo, attività turistiche. Ma confinate all’interno di bacini di utenza molto ristretti : prodotti di nicchia, diremmo oggi. Per i vip e gli stranieri danarosi, tant’è che nell’hotel Croce di Malta, racconta Scaramuccia, c’era una cappella anglicana per gli ospiti inglesi. Per il resto, le strutture ricettive e i bagni (a parte il Selene, l’unico) erano inadeguati. Il colera del 1884, infine, distrusse quel poco che c’era. Mancò, osserva l’autore, una strategia. La propose, solitario e inascoltato, Stefano Oldoini, medico appartenente a una delle famiglie più note: una strategia per uscire dalla nicchia e rivolgersi a quei ceti intermedi a cui seppero riferirsi la Versilia e il Ponente ligure (per esempio convertendo le abitazioni in trattorie e locande). Il punto è che non c’era a Spezia una fetta consistente di società civile e di imprenditoria che ponesse all’ordine del giorno la questione del turismo, né il Comune spinse mai in questa direzione.
Si poteva fare, nonostante l’Arsenale, ma non si fece: si preferì puntare su industria e porto, perché il futuro lo si vedeva lì. Un modello di sviluppo plurale, comprensivo anche del turismo, era possibile -lo propose il consigliere municipale Lorenzo Chiappetti in un libretto del 1879- ma non ebbe le gambe reali per camminare.
Sostanzialmente è solo negli anni Novanta del secolo scorso, con la deindustrializzazione e il grande confronto che ne seguì, che il modello di sviluppo plurale venne riproposto e diventò “visione”, con il Piano strategico, e “norma”, con il Piano urbanistico comunale e il Piano regolatore del porto. Coniammo il termine “economia della varietà”, che resta la cifra del nostro futuro. Dal punto di vista delle realizzazioni abbiamo visto solo i primi passi: Porto Lotti, Porto Mirabello, l’avvio della riconversione della baia di Cadimare, i musei. Per un drastico riposizionamento della città in campo turistico occorre un segno forte, che faccia massa critica e marchi la svolta: il waterfront. E’ un altro momento decisivo della nostra storia, ce la possiamo fare. Serve però un grande confronto per non rischiare di sbagliare, come facemmo a metà Ottocento. Ma qual è l’errore da evitare? Uso le parole che ho ascoltato dal grande architetto Rem Koolhas qualche mese fa a Biennale Democrazia a Torino: “la città del futuro non cancelli le radici” e “l’architettura non venda l’anima al mercato”.
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