Turismo, cambiamo modello
Città della Spezia, 21 novembre 2021 – Leggo che alla Spezia, nella futura Calata Paita “liberata”, si realizzerà una stazione marittima nella quale sarà consentito l’attracco simultaneo ad addirittura quattro gigantesche navi da crociera. Alle spalle c’è via San Cipriano, il luogo già oggi più inquinato della città. Quello spazio era stato pensato come simbolo non solo del riposizionamento turistico di Spezia ma anche e soprattutto come simbolo della riappropriazione da parte della città del suo mare, come luogo identitario di socialità e di cultura.
Leggo che anche Lerici vuole la sua “via dell’amore”: una passerella di collegamento tra la calata e le spiagge dietro il castello, da realizzarsi nell’unico tratto di scogliera integro, paesaggio inestimabile per chi arriva dal mare. Ma non esistono già camminamenti attorno al castello, che conducono alle spiagge?
Leggo che alla Palmaria, di fronte a San Pietro, al posto dell’ex cava Carlo Alberto si vuole realizzare uno stabilimento balneare, con ristorante e piscina. E l’interesse naturalistico? La Palmaria, storico affaccio a mare per la gente del Golfo, sarà sempre più destinata al turismo di massa, in coerenza con il Masterplan elaborato da Comune e Regione, che vuole trasformare l’isola in una “piccola Capri”.
Eppure siamo già stati scottati: i costi dello sviluppo turistico insostenibile li vediamo alle Cinque Terre. Leggo che anche le Camere di Commercio liguri -che rappresentano gli imprenditori- hanno firmato la dichiarazione di Glasgow sul clima, “per la sostenibilità turistica dei territori sede dei siti Unesco”. Speriamo non si tratti del “bla -bla-bla” di cui ha parlato Greta Thunberg prima di abbandonare Glasgow. E che si sia conseguenti, non solo nei siti Unesco -alle Cinque Terre e alla Palmaria- ma anche in tutto il Golfo dei Poeti.
La futura Calata Paita, il castello di Lerici, la Palmaria: tre esempi diversi di beni comuni, pubblici, che rischiano di non essere protetti, regolamentati, salvaguardati.
Faccio un altro esempio. Proviamo a passeggiare sulle nostre spiagge in novembre: completamente libere o quasi, sono bellissime. Dal mare possiamo ammirare anche le forme e i colori dell’entroterra che sta alle loro spalle, uno sfondo quasi nascosto in estate. Ricordo la regola anti-Covid dell’estate 2020 sulla distanza minima tra gli ombrelloni. Le spiagge erano non solo più sicure ma anche più belle e vivibili. Anche la bellezza e la vivibilità sono un bene comune, non solo la salute.
L’estate 2021 è stata diversa. Spiagge strapiene, arenili già liberi affidati agli operatori balneari.
Si parla di riforma delle concessioni: e se la riforma prevedesse la distanza minima tra gli ombrelloni anche senza pandemia? E un’ampia fascia di battigia vicino al mare liberamente transitabile, anche da chi non ha un ombrellone? La bellezza e la vivibilità delle spiagge meno affollate sarebbero più liberamente fruibili da chiunque.
Non possiamo non riflettere sul fatto che l’esplosione di presenze dell’ultima estate ha intensificato gli aspetti più problematici del turismo di massa. Sia nella gestione dei flussi di persone che dal punto di vista ambientale: traffico fuori controllo, macchine parcheggiate ovunque, sporcizia dilagante, spiagge strapiene, aree protette prese d’assalto.
L’impatto è anche sociale, nel senso di uno svuotamento dall’interno della vita dei territori. Il “turboturismo” cannibalizza i luoghi: i beni comuni, sempre più demonizzati, vengono ridotti a location. E sono sempre più concessi ai privati: si pensi non solo gli arenili, ma anche ai tavolini sulle strade, sui marciapiedi e sulle piazze. Una fagocitazione dalla quale nessuno sarà facilmente disposto ad arretrare.
Ma siamo sicuri che questo modello turistico, sempre più ancorato alle destinazioni di massa e fondato sullo sfruttamento intensivo dei litorali e dei centri storici e sul consumo delle risorse ambientali e sociali, possa reggere ancora? E’ un modello che sega il ramo su cui il turismo posa: la tipicità ambientale e sociale dei luoghi. E che non si accorge che cresce il pubblico dei turisti che si rifiuta di consumare i luoghi perché li considera beni comuni. Chi governa il settore deve cogliere l’enorme distanza che separa la fugace emozione turistica dall’esperienza del viaggio.
Il turismo di massa consuma anonimi territori, l’altro turismo li svela.
Post scriptum:
Ho affrontato questo tema nell’articolo “Turboturismo o altroturismo?”, pubblicato nei numeri de “La Voce del Circolo Pertini” del 30 settembre e del 15 ottobre 2021, leggibili su www.associazioneculturalemediterraneo.com
L’articolo odierno è dedicato al mio amico e compagno Pierino Moggia, scomparso nei giorni scorsi. Macchinista ferroviere, di Vernazza, ha amato l’agricoltura e il territorio delle Cinque Terre come pochi. Le ultime volte che ci siamo visti o sentiti era nei campi sopra Vernazza, a coltivare, a sperimentare. “Senza l’agricoltura le Cinque Terre non ci sarebbero, altro che turismo”, diceva sempre. Ha presieduto, dal 2000 al 2012, la cooperativa Sentieri e Terrazze, che ha recuperato alla coltivazione della vigna i terreni sulla collina del Corniolo, tra Riomaggiore e Manarola. Stava preparando un convegno, pensava a piantare nei suoi campi la cipolla di Pignona, un prodotto della Val di Vara… Era un artigiano, un artista della terra.
Lo conoscevo si può dire da sempre: era “il PCI” di Vernazza, e poi i suoi eredi, fino al distacco. E’ stato consigliere di opposizione dal 1975 al 1990, assessore dal 1990 al 1995, assessore della Comunità Montana della Riviera dal 1980 al 1990.
Tra i protagonisti di entrambi i volumi di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, Pierino ha raccontato Vernazza e le Cinque Terre in quegli anni, l’interscambio tra i ragazzi del posto e i grandi intellettuali che frequentavano quell’”avanguardia sul mare”:
“Per noi giovani fu una scoperta. Capimmo che oltre la vigna e la barca esistevano altre maniere di vivere”.
Fu poi tra i fondatori della Sezione del PCI di Vernazza. Ecco il suo racconto:
“Nel 1968 inaugurammo la Sezione del PCI. Vennero Luciano Gruppi e Massimo D’Alema, che aveva i capelli lunghi… A mia madre dissero: ‘tuo figlio sembrava un bravo fante, ed invece guarda chi frequenta…’. Il conflitto era molto radicato. Nel 1969 fui eletto Segretario, lo feci fino agli anni Novanta. La Sezione diventò un punto di riferimento culturale, ed anche aggregativo. Venivano tutti, c’era un baretto. Il maresciallo dei carabinieri di Riomaggiore mi diceva: ‘Domani vengo a fare un controllo, preparami una bottiglia’. Facevamo feste, incontri… Si discuteva, si mangiava e si beveva vino. Venivano Dario Fo, Gino Paoli… Mi ricordo quattro riunioni in un giorno con quattro deputati della Lombardia!”
Manifestò il suo amore per la cultura e per il territorio anche nel teatro. Nella foto lo vedete in uno spettacolo del gruppo teatrale dialettale I Burbugiun -il nome deriva dall’ingrediente essenziale della torta di patate pignonese, la cima di zucca- che ha presentato, in giro per la provincia, “I Prumissi spusi”, “A devina Kumedia” e “L’Udisséa”.
Era una persona gentile e generosa, mancherà a tanti.
lucidellacitta2011@gmail.com
Popularity: 3%