Storie dei ragazzi del Monte Barca – Seconda parte
Città della Spezia, 24 marzo 2024
DOMENICO MOSTI E GINO PARENTI
Otto ragazzi del Monte Barca – come ho raccontato nella prima parte di questo articolo – furono catturati dai fascisti il 14 marzo 1944 e uccisi a Valmozzola il 17 marzo: una rappresaglia dopo l’assalto al treno a Valmozzola del 12 marzo, compiuto da un’altra banda partigiana. Tre ragazzi furono invece uccisi sul Monte Barca il giorno stesso dell’agguato.
Domenico Mosti e Gino Parenti, uccisi a Valmozzola, erano entrambi del Canaletto, renitenti alla leva della Repubblica di Salò e di sentimenti antifascisti.
Sauro Costa, in un articolo di questa rubrica (“Sauro Costa, la X Mas e il fascismo che ritorna”, 3 dicembre 2017), ha raccontato:
“Con gli amici del Canaletto maturammo l’idea di andare ai monti per fare i partigiani. Dovevo partire con Domenico Mosti e Gino Parenti. Mi chiamarono, ma mia madre mi fermò. Io dissi loro: ‘Voi andate, vi raggiungerò’”.
Se Sauro fosse salito con loro sarebbe diventato uno dei martiri del Monte Barca.
Domenico, nato il 9 ottobre 1924, giovane portiere della squadra di calcio del Canaletto, stava imparando il mestiere del fabbro e frequentava il negozio di un calzolaio, dove si diffondevano le idee comuniste e si aggregavano i giovani per la salita ai monti. Dal giorno in cui disertò si nascose in un armadio a muro, in casa, fino a quando decise di diventare partigiano.
Gino, nato il 26 dicembre 1923, era di famiglia socialista e faceva il tornitore. Anche lui era un renitente. Salì ai monti, insieme all’amico Domenico, il 5 marzo 1944.
Leggiamo la testimonianza di Mario Galeazzi, che – come ho raccontato domenica scorsa –, fu l’unico sopravvissuto tra gli arrestati:
“Fummo condotti a Bagnone e da qui alle prigioni di Pontremoli, dove ci misero in celle separate. L’interrogatorio venne fatto dal ten. Bertozzi, da un altro tenente di cui non conosco il nome, dal maresciallo Gargano e dal sergente Costa. Alle domande intercalavano botte per costringerci a parlare. Avevano come strumenti di tortura un cavo di corda con nodi, un pugnale col quale ci ferivano il petto e le spalle, e con le sigarette accese ci bruciacchiavano la pelle. Il mattino dopo, a mezzo camion tedesco, fummo trasportati alle carceri di Migliarina (La Spezia) e messi ancora in celle separate contigue.
Fummo interrogati nuovamente, ma questa volta da due ufficiali tedeschi ed anche qui picchiati, in special modo i due russi.
Nella serata il cappellano della X Mas ci confessava preparandoci alla morte. Il mattino dopo, e precisamente il 16 marzo, ci ricondussero con il solito camion a Pontremoli, dove, a differenza delle altre volte, ci riunirono un una unica cella.
Per la prima volta, dopo l’arresto, mangiammo un pezzetto di pane che i nostri aguzzini ci porgevano alla bocca, poiché avevamo le mani legate dietro alla schiena con filo di ferro. A Pontremoli ricevemmo la visita del Vescovo e di altri sacerdoti, i quali ci comunicarono l’intervento del Vescovo presso le autorità per la commutazione della pena di morte, con esito purtroppo negativo. Ci esortarono alla serenità e alla rassegnazione, restando con noi parecchio tempo, durante il quale ci prepararono a un trapasso sereno”.
Don Marco Mori accompagnò il Vescovo Giovanni Sismondo nella visita ai nove ragazzi. Ecco il suo racconto:
“Poi il Vescovo si alzò. Noi rimanemmo inginocchiati. Ad uno ad uno, nel silenzio, li abbracciò, li baciò in fronte. […] In quel silenzio si sentiva solo il respiro affannoso del ferito russo, ormai morente, gettato ancora sulla legna. Il Vescovo si inginocchiò e baciò anche lui.
[…] Il Vescovo passò dal Comando. Non gli fu neppure accettata la lettera della domanda di grazia. Protestò. Dichiarò che si sarebbe appellato alle cariche supreme. Gli fu risposto che ormai nessuno poteva farci più nulla.
Scongiurò che si ritardasse l’esecuzione. Non gli si permise neppure di passare dal colonnello. Forte, allora gridò nel corridoio: ‘Ricordate che domani voi potrete avere bisogno di quella clemenza che ora negate a questi giovani’”.
LUCIANO RIGHI
Luciano Righi, spezzino residente in via della Pianta, era nato il 28 maggio 1924 e faceva il tornitore. Chiamato alla visita di leva nel 1942 era stato assegnato ai servizi sedentari per via di una ferita alla mano sinistra. Non correva il rischio di essere chiamato a combattere per la Repubblica di Salò. Fu il suo antifascismo a portarlo ai monti, tra i primi, con Nino Gerini e Luigi Amedeo Giannetti: al Trambacco e poi alle Prede Bianche, come ho raccontato domenica scorsa.
Righi fu ferito nel corso dell’agguato del 14 marzo.
Leggiamo il racconto di don Primo Gallorini:
“Il poverino, nel tentativo di scappare […] fu ferito alla gamba destra, quindi preso e fatto camminare fino al luogo dove poi fu trovato morto. Un testimone oculare, certo Giuseppe di Maddalena della Pieve, costretto dal maggiore a seguirlo per le precise indicazioni, racconta che il Righi, non potendo camminare, sarebbe stato portato volentieri da alcuni militi, ma il maggiore, malgrado la loro buona volontà, e, peggio ancora, con cuore di belva, anziché commuoversi alla preghiera del Righi di non ucciderlo, ordinò la immediata fucilazione”.
Galeazzi conferma il racconto: Righi fu ucciso lungo il percorso di discesa dal Monte Barca “per quanto ci fossimo impegnati a trasportarlo a braccia”.
Il maggiore che lo uccise fu decorato di medaglia d’oro.
GIUSEPPE TENDOLA “VILMO” E ANGELO TROGU
Giuseppe Tendola, detto “Vilmo”, era nato a Castelnuovo Magra il 27 febbraio 1922. Aveva lavorato come aiuto barbiere, poi si era arruolato nell’Aeronautica ed era stato spedito in Africa. L’8 settembre lo colse a Collecchio, nel Parmense. Raggiunto Castelnuovo, scelse la via dei monti: si era avvicinato a un altro gruppo sorto in Val di Magra dopo l’8 settembre 1943, quello di Lido Galletto “Orti”, studente diciannovenne di architettura a Firenze. Il gruppo, composto in primo luogo da giovani di Fosdinovo, si rifugiò a Gignago e poi si spostò a Marciaso. “Orti” tesse contatti con le popolazioni contadine di tutta la zona e con il movimento antifascista sia sarzanese che carrarese. Tendola fu avviato a Merizzo dai comunisti sarzanesi. Da lì Edoardo Bassignani “Ebio” lo fece condurre al Monte Barca.
Angelo Trogu, nato a San Terenzo il primo febbraio 1924, era residente a San Terenzo. Suo padre Salvatore era nato a Mores (Sassari), aveva lavorato nelle miniere di carbone sarde ed era emigrato nei primi anni Venti per venire a lavorare in Arsenale. Di famiglia antifascista, Angelo aveva partecipato alla manifestazione antifascista a San Terenzo dopo il 25 luglio 1943, il giorno della caduta di Mussolini: era tra i giovani e i popolani che fecero festa, bruciando in piazza i registri della sede del Fascio e il ritratto del Duce. Da allora i fascisti presero a tenerlo d’occhio. Era un disegnatore tecnico, aveva lavorato alla Pertusola e poi al Muggiano. Fisico prestante, aveva partecipato a un Palio del Golfo. Chiamato per il servizio militare, disertò e si nascose, per poi salire sul Monte Barca.
Tendola e Trogu, catturati il 14 marzo, ebbero la stessa sorte di Cheirasco, Gerini, Mosti e Parenti. Furono uccisi a Valmozzola il 17 marzo, dopo percosse e torture.
I funerali di Angelo Trogu in pieno regime di occupazione nazifascista sono gli unici di cui abbiamo memoria. Si tennero a San Terenzo il 14 aprile 1944. Il popolo santerenzino gremì la chiesa e il piazzale. Dietro il furgone che portava la cassa c’era un camion della X Mas. Puntarono le armi contro la popolazione. Ma questa non si disperse e gli amici di Angelo, impavidi delle minacce, portarono il feretro a spalla. Venne scattata una fotografia del corteo, per riconoscere coloro che vi avevano partecipato. La madre di Angelo, Rosa Fabbri, fu denunciata dalla X Mas quale antifascista e sobillatrice comunista.
VASSILI BELAKOSKI, VICTOR IVANOV E MIKHAIL TARTUFIAN
“Ebio” ospitò per qualche mese, dopo l’8 settembre, tre ex prigionieri russi, fuggiti dal campo di concentramento di Fontanellato (Parma). Per ripagare l’ospitalità ricevuta si misero a dissodare un campo, ai margini del quale avevano piazzato un fucile mitragliatore. Si dichiararono orgogliosi di fare i partigiani.
Questi i loro nomi: Vassili Belakoski, di Stalingrado, trent’anni; Victor Ivanov, di Mosca, trentaquattro; Mikhail Tartufian, di Perm’, ventitré.
Victor, insegnante, fu il primo ad essere ucciso, il 14 marzo. Poi toccò a Giannetti, poi a Righi. Mikhail fu ferito al ventre. Lui e Vassili furono fucilati a Valmozzola, con gli altri sei. Il corpo di Mikhail riposa nel cimitero di San Terenzo, vicino a quello dell’amico Angelo Trogu. Quando fu sepolto, il cognome non si sapeva, si sapeva solo che era russo: sul marmo fu scritto “Trunel Michele Molotof”.
La loro vita è ancora in gran parte da ricostruire.
Più in generale, è da approfondire, e da far conoscere, la storia complessiva dei partigiani sovietici in Italia. Un numero consistente di combattenti sovietici arrivò in Italia e si immolò per la libertà: oltre 5 mila partigiani, quasi 500 caduti. Come giunsero nel nostro Paese? Bisogna risalire alla notte tra il 21 e il 22 giugno 1941, quando la Germania diede il via all’“Operazione Barbarossa”: senza una precedente dichiarazione di guerra, con il desiderio di annientare una razza considerata inferiore. I tedeschi imprigionarono cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa, una cifra mai registrata in nessun’altra guerra. Molti di loro vennero relegati a lavori ausiliari e manuali per l’edificazione di rifugi e infrastrutture, dapprima nella Germania nazista, poi in tutti i Paesi occupati, tra cui l’Italia. Tanti disertarono e abbracciarono la causa partigiana. Anche nella Resistenza spezzina il contributo dei sovietici fu rilevante. Il partigiano Saverio Sampietro “Falchetto” ha scritto pagine molto belle sulla squadra sovietica – 13 uomini – che entrò a far parte del battaglione garibaldino Vanni.
MARIO GALEAZZI
Il giovane Galeazzi fu l’unico dei nove a salvarsi, come ho raccontato. Dopo la Liberazione emigrò in Corsica, dove morì nel 1982. Per le feste di Natale tornava sempre nella sua Comano.
ERNESTO PARDUCCI “GIOVANNI”
Il capo dei ragazzi del Monte Barca, Ernesto Parducci “Giovanni” si salvò subito, quando cominciò l’agguato.
Don Necchi, nel libretto del 1948, scrisse:
“Uno, strisciando come una serpe per terra, e gettandosi giù per un burrone, riesce a salvarsi”.
Era stato ferito, fu curato dagli abitanti dell’Apella. Alcuni di loro, su preghiera di Parducci, si recarono il 15 marzo sul Barca e trovarono i corpi di Ivanov, Giannetti e, più lontano, di Righi.
“Giovanni” fondò in seguito la brigata garibaldina 37b, di cui fu comandante, e fu nuovamente ferito. Dopo innumerevoli peripezie, ai primi di novembre del 1944 si aggregò alla brigata Muccini, a Ponzanello. In seguito al rastrellamento del 29 novembre, passò le linee e raggiunse la zona controllata dagli alleati. Era un marinaio, fu imbarcato su un cacciatorpediniere: concluse la guerra a Gallipoli.
Il 24 giugno 1972 “Il Telegrafo”pubblicò l’articolo “Un ex partigiano sarzanese protesta per la pensione”. Un cartello era stato da lui affisso all’ingresso del Comune di Sarzana. Il partigiano era “Giovanni”: in segno di protesta non aveva votato. Per tutti gli anni Cinquanta i vinti saranno più i partigiani che i fascisti. “Giovanni” si sentì vinto anche dopo. Ma mai domo.
IL MISTERO SVELATO DI GIUSEPPE CASTAGNOLA “PAOLO”
La testimonianza di Dario Montarese “Briché”, che apre la prima parte dell’articolo, parla di 14 partigiani. Il quattordicesimo era Giuseppe Castagnola “Paolo”. Faceva la staffetta, per questo si salvò. Il 13 marzo Parducci lo inviò a Merizzo da “Ebio”. Doveva, tra l’altro, portare informazioni su Galeazzi. Poi Castagnola scomparve: nessuno ne ha più parlato e scritto. Non è neppure negli elenchi dei partigiani.
Il mistero l’ho svelato per caso, intervistando Dino Grassi per il libro “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”.
Alla mia domanda “Ricordi i santerenzini trucidati a Valmozzola, il 17 marzo 1944?”, Dino ha risposto così:
“Sul monte Barca c’erano il lericino Nino Gerini e i santerenzini Angelo Trogu e Giuseppe Castagnola, che abitava vicino a noi e lavorava al Muggiano. La sua famiglia collaborava alla diffusione del materiale di propaganda che veniva stampato nella tipografia della Rocchetta, sopra La Serra di Lerici. Gerini e Trogu furono trucidati a Valmozzola dopo l’assalto al treno. Castagnola ne uscì vivo. Lo abbiamo creduto morto, eravamo vicini di casa. Siamo venuti a sapere tutto dalla morte di Trogu. I tedeschi non hanno voluto che gli amici aiutassero i parenti a portare la salma al cimitero. Abbiamo saputo dai parenti: una sorta di radio popolare. Abbiamo sentito dire che la madre di Castagnola aveva riconosciuto tra i caduti tre morti, e che uno era suo figlio. Quando dopo la Liberazione ho visto questo compagno mi è venuto un colpo! Sua madre aveva finto, lui si era salvato nascondendosi nella cisterna di casa, tra Solaro e la Valle. I fascisti non erano convinti della sua morte, ma quando andavano a cercarlo non lo trovavano mai”.
IL DOLORE DELLE MADRI
La storia dei ragazzi del Monte Barca non sarebbe completa senza la storia del dolore delle loro madri, della loro lotta per avere giustizia nell’immediato dopoguerra. Luigi Leonardi vi ha dedicato pagine molto belle del suo libro “I ragazzi del Monte Barca”.
La denuncia più cruda fu fatta dal fratello e dalla sorella di Nino Gerini. Una madre non avrebbe mai avuto la forza di pronunciare le loro parole. Alla Commissione di Epurazione di Lerici, l’8 maggio 1945, Piera e Giglio Gerini dichiararono:
“Il 14 marzo dell’anno scorso nostro fratello venne catturato. Durante lo stesso giorno e nei giorni successivi, venne interrogato e obbligato a cantare ‘Giovinezza’, ma lui si rifiutò. Dopo aver subito atroci torture fu condannato a morte e fucilato da parte di elementi della X Mas. Poi, a corpo caldo, vennero fatte profanazioni: gli fu trapanato il cranio e gli fu asportata della materia cerebrale; gli vennero tagliati gli organi genitali che, fasciati in un suo fazzoletto, riposano in una tasca dei calzoni”.
Le madri e i familiari denunciarono le responsabilità primarie del tenente Umberto Bertozzi.
Il 15 settembre 1945 la sorella di Angelo Trogu, Luigia, dichiarò al maresciallo di avere incontrato Bertozzi dopo la morte del fratello:
“Bertozzi mi stese la mano, ma io la ricusai. Allora mi disse: ‘Non vuole darmi la mano. Del resto non sono pentito di quello che ho fatto’.
LA VERGOGNA DEL DOPOGUERRA
Umberto Bertozzi, tenente della X Mas, fu in seguito corresponsabile dell’eccidio di Forno (Massa), con 68 morti, e di terribili rastrellamenti. Nel 1947 fu condannato alla pena di morte con fucilazione alla schiena. Ma la sentenza non fu eseguita. Nel 1948 la condanna fu commutata in ergastolo. Poi a trent’anni, poi a 19. Nel 1952 Bertozzi fu scarcerato.
Il 17 febbraio 1949 la Corte di Assise ritenne Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas, colpevole di collaborazionismo con i tedeschi. Fu condannato a due ergastoli per aver fatto eseguire ai suoi uomini “continue e feroci azioni di rastrellamento” ai danni dei partigiani che, di solito, si concludevano con “la cattura, le sevizie particolarmente efferate, la deportazione e l’uccisione degli arrestati”, allo scopo di rendere tranquille le retrovie dell’esercito invasore, e per la fucilazione di otto partigiani a Valmozzola.
Per la computazione della pena, la Corte partì dagli ergastoli e utilizzò alcune attenuanti che ridussero la pena da scontare a 12 anni di reclusione. Grazie alle disposizioni dell’amnistia Togliatti il giorno stesso della lettura del dispositivo della sentenza, il 17 febbraio 1949, la Corte dispose l’immediata scarcerazione del condannato, che aveva già scontato per intero, in regime di carcerazione preventiva, la pena residua.
“QUESTO E’ STATO” E NON DEVE PIU’ TORNARE
Luigi Leonardi, nel 2017, concluse il suo libro così:
“Furono ricordati dagli amici, ma oggi non compaiono sui libri di scuola. Le generazioni successive che celebreranno il loro sacrificio andranno sempre più assottigliando le loro presenze. La loro memoria diventerà pericolosamente vacua. A ricordarlo davvero saranno le madri, che li hanno messo al mondo, svezzati, amati. E per sempre pianti”.
Il rischio è davvero questo. Perché non trionfi la dannazione della memoria, la politica, la cultura, la scuola devono ripensarsi. Serve la forza morale per meditare, come scrisse Primo Levi, “che questo è stato” e che non deve più tornare.
UNA STORIA D’AMORE
Ma voglio concludere con l’amore e la speranza.
L’assalto al treno, il 12 marzo, ci fu per liberare tre disertori catturati dai nazifascisti. Uno dei tre si chiamava Gino Cargioli.
I corpi degli otto assassinati a Valmozzola furono pietosamente raccolti dal podestà di Valmozzola Giovanni Molinari. Furono caricati sopra un carro che il bue trainò. La storia mi è stata raccontata da Lina, la figlia. Vide tutto da una finestra di casa: le braccia penzolanti dal carro, il sangue che colava. Poi i corpi furono sepolti.
Il fratello di Gino si chiamava Giuseppe Cargioli, “scaldachiodi” al Muggiano, poi partigiano “Sgancia”, mio compagno carissimo per tanti anni. “Sgancia” sposò Lina, e la loro fu una bellissima storia d’amore.
Mi viene in mente il funerale di “Sgancia” e il verso di una canzone che cantai allora, per l’ultima volta. Una canzone che rovescia la sconfitta di oggi con il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà:
“Noi siamo gli ultimi di un tempo – che nel suo male sparirà.
Qui l’avvenire è già presente – chi ha compagni non morirà”.
Domenico Mosti, Gino Parenti, Luciano Righi, Giuseppe Vilmo Tendola e Angelo Trogu. Le fotografie sono tratte dal libro “I fatti di Valmozzola (il gruppo di Monte Barca)” edito nel 1974 dall’Istituto Storico della Resistenza. La riproduzione è stata realizzata dal Gruppo Fotografico Obiettivo Spezia.
Post scriptum
Rimando all’articolo scritto su Patria Indipendente il 14 marzo 2024:
https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/storia/lassalto-al-treno-in-valmozzola-pietra-miliare-della-resistenza/
Sulle vicende e le persone citate nell’articolo odierno rimando al Dizionario online della Resistenza spezzina e lunigianese, che comprende anche tutti gli articoli scritti per questa rubrica:
https://www.associazioneculturalemediterraneo.com/sp/dizionario-online-della-resistenza-spezzina-e-lunigianese/
La fotografia in alto ritrae la tomba di Mikhail Tartufian a San Terenzo.
Le fotografie di Domenico Mosti, Gino Parenti, Luciano Righi, Giuseppe Vilmo Tendola e Angelo Trogu sono tratte dal libro “I fatti di Valmozzola (il gruppo di Monte Barca)” edito nel 1974 dall’Istituto Storico della Resistenza. La riproduzione è stata realizzata dal Gruppo Fotografico Obiettivo Spezia.
lucidellacitta2011@gmail.com
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