Storia di Adriano, deportato a 17 anni
Città della Spezia – 24 novembre 2013 – Adriano Guidi aveva 17 anni. Andava in bicicletta dal suo Marcantone (allora una vera e propria frazione di Migliarina) a Spezia, insieme a un altro ragazzo, Elio Ricciardi, che poi morì a Mauthausen. Le brigate nere li arrestarono il 21 novembre 1944: fu il più grande rastrellamento in città. Spezia era sotto il controllo dei fascisti e dei tedeschi, che reagivano agli attentati partigiani con la repressione indiscriminata della popolazione. Quel giorno fascisti e tedeschi bloccarono tutti gli accessi a Migliarina e arrestarono nelle strade e nelle case oltre 250 persone, poi rinchiuse nella caserma del XXI Reggimento Fanteria, semidistrutta dai bombardamenti. Il rastrellamento pesò enormemente nella memoria della guerra a Spezia. I nostri vecchi di Migliarina, quando ricordavano o ricordano quei tempi, ci parlavano o ci parlano soprattutto del 21 novembre. E poi dei bombardamenti, e della fame: il razionamento alimentare non funzionava quasi più, per sopravvivere si andava in provincia di Parma con il carretto a traino umano, a scambiare la farina con il sale prodotto bollendo nei pentoloni l’unica cosa che ci era rimasta, l’acqua di mare. Mia madre, i suoi fratelli, i miei nonni stavano anche loro al Marcantone. Adriano li conosceva molto bene: “poteva capitare anche a loro, arrestarono a caso”, mi racconta. I nazifascisti volevano dare una punizione collettiva a un quartiere operaio e antifascista, anche catturando persone che, come Adriano, erano troppo giovani per aderire alle bande, e altre che appartenevano alla borghesia e non avevano a che fare con la Resistenza, ma non avevano aderito alla Repubblica di Salò: commercianti, professionisti, medici, sacerdoti… Furono tutti incarcerati, costretti a firmare confessioni sotto tortura, poi deportati nei campi di concentramento nazisti. Adriano riuscì a tornare.
Come tutti, ha cominciato a parlare di questa esperienza indicibile solo dopo tantissimo tempo, una quindicina d’anni fa. Prima “ero bloccato dal trauma”, mi spiega. “Eravamo stipati in stanze con venti prigionieri, senza letti e coperte, malnutriti, riempiti di botte… insieme a noi, arrestato, c’era un maresciallo di Marina, ma in realtà era una spia”, così comincia il racconto di Adriano. Ascoltiamolo: “Dopo una quindicina di giorni fummo trasferiti in barcone a Genova, al carcere di Marassi. Da mangiare non ci davano quasi nulla, la ciotola era piena di pidocchi, ma dopo un po’ fui costretto dalla fame a mangiare quella schifezza. Ci picchiavano e torturavano per farci confessare cose che non avevamo fatto. C’erano gli accusatori, arrestati come noi e costretti con le torture ad accusare chi non c’entrava nulla con le azioni partigiane. Tra i miei accusatori ci fu quel poveruomo di mio zio, che poi tentò di suicidarsi per il dolore. Ma non potevi farcela, dovevi per forza dire sì. Io confessai 11 azioni partigiane mai commesse! Nel febbraio ‘45 fummo portati nel campo di Bolzano, da cui i deportati venivano smistati verso i campi in Germania, primo tra tutti Mauthausen. La mia fortuna fu quella di non partire subito: rimasi a Bolzano come ostaggio, da ammazzare in caso di attacchi partigiani. A fine febbraio i tedeschi ci misero in treno, in vagoni da 60, per Mauthausen, ma poi ci fecero scendere e ci riportarono a Bolzano: gli alleati avevano bombardato la ferrovia del Brennero, il trasferimento non era più possibile.” A Bolzano Adriano, vittima del freddo e della fame, si ammalò di polmonite e pleurite, fu ricoverato e entrò in coma. Lo curò il tisiologo Virgilio Ferrari, anche lui internato a Bolzano, che fu Sindaco di Milano nel dopoguerra. Quando Adriano si riprese, Ferrari gli disse: “In quel letto dove sei ne sono morti 7-8, pensavo anche tu, invece ce l’hai fatta”. Nel letto a fianco, però, morì un altro deportato. “La fine dei tedeschi era vicina -continua Adriano- ci portarono a Trento per sparpagliarci… il mio primo contatto con la libertà fu dalle suore, mangiai così tanto che mi sentii male… poi i partigiani ci portarono da Trento a Milano, Genova, Deiva, e finalmente, a maggio, dopo 7 mesi, a casa… ero magrissimo, mi ripresi a poco a poco, divenni tornitore”. La memoria va ai tanti che non sono tornati. E alle speranze del dopoguerra. “Ma cambiò poco, e ora è peggiorato tutto… se i partigiani vedessero quel che c’è… a Genova e a Bolzano si era uguali, e ci si voleva tutti bene, poveri e ricchi… poi i ricchi hanno ripreso a sfruttare i poveri”. E tuttavia Adriano non si arrende: è sempre in prima fila nelle iniziative e nell’impegno perché non si disperda la memoria. Come giovedì scorso al Monumento ai Deportati nel parco “2 giugno” -dove c’era un tempo il XXI Reggimento- nell’anniversario del grande rastrellamento.
Il sentimento della speranza delusa accomuna molti protagonisti di quel tempo. Ai funerali di Amelio Guerrieri un partigiano che aveva combattuto con lui mi ha detto: “Quando guardo la situazione italiana di oggi, mi domando come ha fatto ad esserci la Resistenza. Vorrei che qualcuno me lo spiegasse”. Certo, ci deve essere qualcosa che non va in un Paese che in un secolo si è dato leader come Mussolini e Berlusconi, e in cui la sinistra quasi non esiste più. E tuttavia la Resistenza non è stata una “meteora” ma un vero fatto popolare e di massa: né durante le guerre di indipendenza, né in nessun’altra fase della vita nazionale l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e un gran numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana. E poi c’è stata, nel dopoguerra, la ricostruzione del Paese, grazie alla classe dirigente nata dalla Resistenza che, dopo il collasso dello Stato, seppe dare al Paese la Costituzione e unire il popolo sotto grandi bandiere politiche e ideali. So bene che tutto è cambiato rispetto ad allora, ma anche oggi c’è bisogno di una classe dirigente capace di un grande disegno di cambiamento per il futuro del Paese e dei giovani, che si misuri con le macerie della guerra sociale in corso, che ha determinato diseguaglianze e povertà paragonabili a quelle di un conflitto.” E’ utopia proporre una ricostruzione politica, sociale, culturale che oggi nel nostro Paese può suonare come una rivoluzione? Forse, ma ci sono fasi storiche in cui senza utopia non si va da nessuna parte”. Sono parole tratte dal nuovo libro di Maurizio Landini “Forza lavoro”, che rendono bene ciò che avrei voluto dire a quel partigiano affranto per la scomparsa del suo comandante. So che mi avrebbe dato ragione. Bisogna, nella pratica quotidiana, costruire una simile rivoluzione. Ispirati dall’utopia e dagli ideali della Resistenza.
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