Springsteen, Pop Eye e le notti illuminate dal rock
Città della Spezia – 17 Giugno 2012 – Tutto cominciò (o meglio, ricominciò) il 18 luglio 2004, quando io e mio figlio Luca, allora quindicenne, andammo a Pistoia Blues al concerto di Carlos Santana. Dopo i concerti degli anni ’70, quelli della mia gioventù, per me fu una sorta di “nuovo inizio”. Da allora abbiamo girato l’Italia per ascoltare tutti i grandi della musica. Non più da soli, ma con i suoi amici, e poi anche con i miei. L’11 e il 12 giugno 2005 diventai un “piccolo mito”. Luca e i suoi amici mi chiesero di portarli a Gods of Metal, la grande rassegna di musica metallara, a Bologna. Era un fine settimana, gli impegni me lo consentivano. Partimmo il sabato mattina, io, lui e tre suoi amici, con i loro genitori che ci salutarono pieni di apprensione riempiendoci di vivande. Furono due giorni memorabili, soprattutto per il concerto degli Iron Maiden. Ero l’unico in Lacoste tra centomila vestiti di nero, ma me la cavai (“il rock non è nell’apparenza, ma nell’anima”, recita il motto della mia radio preferita!)
Poi ci sono state tante altre esperienze emozionanti. Ma il musicista che ci fa volare sulle ali della musica e ci regala un’energia spaventosa è Bruce Springsteen. Negli ultimi anni sono stato a quattro suoi concerti. All’inizio erano scettici, ora ci sono anche i ragazzi. E non se ne staccheranno più: l’ultima volta eravamo a Firenze, domenica scorsa. I concerti del Boss sono unici: non si tratta solo di una manciata di canzoni, per quanto fenomenali. Bruce Springsteen non è un tipo qualsiasi. E’ perfetto, quasi inverosimile, di questi tempi così imperfetti. Una miscela unica di innocenza, integrità, poesia e combattività. Springsteen è il rock. Nessuno ha la sua potenza, onestà e cuore. Alla metà degli anni ’80 il rock sembrava morto: morti i suoi ideali, morte tante rockstar, travolte dal denaro, dal successo, dalla droga. Con “Born in the U.S.A” il Boss, negli anni del reaganismo e dell’individualismo più sfrenato, salvò il rock, il suo suono e la sua voglia di lottare e sognare.
Anche il concerto di domenica è stato indimenticabile. Tre ore e mezza, gran parte sotto il diluvio. Sempre come se fosse il primo, o l’ultimo, della vita del Boss. L’inizio è stato travolgente. Lui e la E Street Band sono saliti sul palco sulle note di “C’era una volta il West” di Ennio Morricone. Poi subito l’inno supremo, l’energia stellare di “Badlands”, che ha fatto saltare all’unisono lo stadio. Racconta il riscatto che dai bassifondi punta alla conquista del cielo, la fuga dalle “terre cattive” e la ricerca di un posto nel mondo, la richiesta che ogni emarginato vorrebbe esprimere per affermare il suo diritto alla libertà. E subito dopo “No surrender”, il brano attorno a cui ruota “Born in the U.S.A”: non mollare, non vi arrendete, resistere, resistere… Scrivo la sua ultima, epica strofa alla fine di ogni lettera o email rivolta agli amici o ai collaboratori che si abbattono, che pensano di non farcela. Era rivolta ai giovani degli anni ’80: il mondo sta andando nella direzione sbagliata, salvate la vostra anima e la vostra vita.
“Il Boss non molla mai, il Boss non tradisce mai”, ci dicevamo domenica. L’inizio del concerto è stato disperato e insieme pieno di speranza, come i pezzi dell’ultimo disco ”Wrecking Ball”: canzoni sulla “Grande crisi”, durissime, piene di rabbia, una rabbia da cui può nascere la redenzione. Pezzi che sembrano i nuovi inni di Occupy Wall Street e dei movimenti sociali di questi anni. Come la straordinaria, dolente “Jack of all trades”, la ballata in cui un uomo rivendica di saper fare invano tutti i mestieri (“il banchiere ingrassa, il lavoratore è sempre più magro”), che evoca con il suo suono lento il cammino di gente disperata, ma alla fine fiduciosa: “Baby ce la faremo, sento che il mondo cambierà”. Springsteen l’ha dedicata, in italiano, a chi ha perso il lavoro, alle vittime del terremoto, “a tutti quelli che stanno lottando”. E poi “We are alive”, con l’incitamento a combattere “spalla a spalla, cuore a cuore”. Fino al momento più commovente, l’omaggio a Clarence Clemons, “The Big Man”, il grande sassofonista da poco scomparso, “che ci lascia ma rimane per sempre”, come ha detto Springsteen in italiano. Era il totem della band, ora c’è ancora nelle immagini che vengono proiettate, e nel nipote di 22 anni che l’ha sostituito al sax. Senza il suo solo di sax siamo tutti più tristi. Ma intanto la voce e l’energia del Boss sul palco sono incrollabili, e la band si rigenera, rinasce nel tempo. Un fenomeno dai tratti quasi irreali, che affascina e stupisce. Una leggenda.
Ho dedicato la rubrica al concerto del Boss perché è stato un evento che ha illuminato una notte, per me e per chi c’era, davvero molto speciale, di desideri, fiamme, sentimenti. Ma anche perché alcuni lettori, nei giorni scorsi, mi hanno scritto, per puro caso, proprio di rock. Invitandomi a riflettere, dopo l’articolo di domenica su “Quarant’anni di Teatro Civico”, anche sulle quattro edizioni del “Pop Eye Festival” (2005-2008). Pop Eye nacque per tanti motivi: certamente anche per quella passione, prima ricordata, che riviveva dentro di me. E che mi spinse ad accettare subito la proposta che mi fecero lo spezzino Umberto Bonanni e Giovanni Tafuro di “Blues In”: realizzare a Spezia un festival rock di grande dimensione. Ma Pop Eye nacque soprattutto da una riflessione più generale, che facemmo con Marco Ferrari, Presidente dell’Istituzione per i Servizi Culturali: l’apertura del CAMeC ci sollecitava a fare della città un “cantiere culturale del contemporaneo”. Arte, musica, teatro: in ogni settore dovevamo favorire l’innovazione culturale legata alla contemporaneità. Era un’esigenza matura in città, come dimostrarono il successo sia delle mostre del CAMeC che di Pop Eye. Il primo anno organizzammo 7 concerti dal 25 giugno al 2 luglio, tra cui Patti Smith e i Sonic Youth: a tanti spezzini non sembrava vero. 12.000 spettatori, un grande successo anche per il reading e la mostra fotografica al CAMeC di Patti Smith, una notevole eco nella stampa nazionale: tutto ciò ci collocò subito tra i primi 10 festival rock italiani. Il legame con la città fu molto forte: tutto l’underground spezzino fu coinvolto. I nostri gruppi suonarono prima dei concerti, poi nacque “Destinazione Pop Eye”, con lo scopo di far emergere e di supportare la creatività locale. Come mi dice sempre il mio amico Umberto Bonanni: “fu un festival intelligente, europeo e ossigenante per la città, con uno sguardo oltre i confini”. Ricordo, il secondo anno, un altro mito del rock: Lou Reed, che apri a Spezia il suo tour europeo e provò al Civico. Cenò alla Loggia, e si innamorò della Palmaria. I Sonic Youth, invece, delle Cinque Terre. E Patti Smith? Forse di uno spezzino, che non nomino… Ma di lei ricordo soprattutto l’apoteosi del concerto, quando intonò “Because the night”, la canzone di Springsteen che per molti è la più bella canzone d’amore che sia mai stata scritta: la notte che appartiene solo agli amanti diventò la notte di tutti quelli che c’erano. Accanto a me c’era un ragazzo portatore di handicap, che la sapeva a memoria. Non lo scorderò mai, come non scorderò quando il Boss la cantò a San Siro nel 2008, con il vecchio amico Clarence che doppiava la sua voce con il sax. Tutte le coppie la ballarono e si strinsero.
Oggi l’esperienza di Pop Eye si è chiusa, anche se mi dispiace. Ma capisco che si debba cambiare, innovare. Soprattutto bisogna creare le condizioni perché esperienze, per dirla con Bonanni, ”intelligenti, europee e ossigenanti per la città”, accadano ancora. Domenica scorsa ho ricordato il forte segno di qualità che ebbero nei decenni trascorsi “Lo spettacolo del mare, il mare dello spettacolo” e tante altre produzioni culturali del Civico. Ora sto ricordando “Pop Eye”. Sottotraccia c’è un filo rosso che lega queste esperienze: la qualità, l’innovazione, il contemporaneo. E’ un filo che va ripreso. Teatro Civico, Centro culturale giovanile Dialma Ruggiero, CAMeC e Festa della Marineria -la positiva novità di questi ultimi anni- sono i contenitori ideali per sviluppare questa ricerca.
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