Spezia futura
Città della Spezia, 30 ottobre 2016
Una nuova fase della vita di Spezia
L’analisi che Luca Borzani, Presidente della Fondazione Palazzo Ducale, fa su quanto sta accadendo nel Pd e nel centrosinistra in vista delle prossime elezioni comunali a Genova calza a pennello anche per Spezia: “Il disputare sui nomi e non produrre riflessione sulla città, i silenzi sull’emergenza lavoro, la crescita delle diseguaglianze, la crisi di democrazia e della cittadinanza, sono lo specchio di un’autoreferenzialità che non può non portare alla sconfitta. Si può vincere a Genova solo con una mobilitazione civica, rimotivando chi si è progressivamente astenuto perché stufo e deluso da inconsistenza, arroganza, assenza di un progetto politico e di valori. Ma questo il centrosinistra oggi non lo sta facendo. Preferendo giocare con i nomi” (“La Repubblica Liguria”, 2 ottobre 2013).
Sono, come Luca, profondamente critico verso il Pd e il centrosinistra, e ancor più pessimista di lui sulla possibilità che una “mobilitazione civica” possa nascere, in particolare a Spezia, su impulso di queste forze. In tanto agitarsi delle correnti non noto alcun segno di una “riflessione sulla città”, ma soltanto “silenzi”. E’ impressionante, in particolare, la debolezza dell’analisi di Federica Pecunia, segretaria provinciale del Pd: “Facciamo quadrato attorno ai risultati di Federici” (“La Nazione”, 16 ottobre 2016). Ma quale “quadrato”? Pecunia provi ad ascoltare i cittadini in autobus o al mercato. Percepirebbe forti critiche e un grande distacco. In questo modo viene ripetuto esattamente lo stesso errore delle elezioni regionali dello scorso anno: la linea basata sull’”orgoglio per i risultati raggiunti da Burlando”. Una narrazione che non si rendeva minimamente conto di quanto la grande maggioranza dei liguri fosse in disaccordo: da qui la conseguente, inevitabile, “tranvata” al momento del voto.
Tuttavia per chi lavora a una “coalizione civica e sociale” alternativa al sistema di potere esistente il problema non è “quanto si è distanti dal Pd e da Federici” ma “quanto si è capaci di elaborare un progetto autonomo”, di mettere a fuoco una dimensione analitica e propositiva radicalmente diversa rispetto a quella dell’establishment. Altrimenti siamo ai vecchi e rituali balletti che riguardano solo i destini personali di una parte del ceto politico. Di un “progetto autonomo” c’è bisogno perché è il momento storico che lo richiede: è venuta infatti a esaurimento la fase iniziata nel 1993 con la prima elezione diretta del Sindaco, che superò le vecchie “giunte di sinistra” basate sull’alleanza tra Pci e Psi (la fase ancora precedente). Nacquero, allora, nuove forze politiche, nuove coalizioni, nuove alleanze sociali, nuove idee di sviluppo della città. E una nuova classe dirigente. Oggi deve essere come allora: tutto deve cambiare.
Bisogna innanzitutto “fare quadrato” su un’analisi della crisi, perché è la crisi che ha fatto esaurire una fase: perdiamo popolazione; diminuiscono gli occupati e le imprese; i giovani se ne vanno e la città invecchia; alcune grandi industrie marcano il passo, e tante piccole imprese faticano a stare sulla scena; la città è sempre più diseguale; la democrazia rappresentativa è sempre più lontana dai cittadini. Non c’è dubbio: la crisi non ha risparmiato nessuno. Ma da noi c’è stata una peculiare perdita di capacità inventiva, politica prima ancora che economica. Non possiamo limitarci a mettere delle toppe, dobbiamo avere in mente una prospettiva sul disegno futuro della città, e costruirla con nuove forme di partecipazione dei cittadini.
Qualche idea per la città futura
Serve un progetto di lungo respiro, come quello avviato nel 1993 e sviluppato nei due Piani strategici del 2001 e del 2004. Ha ragione l’economista Lorenzo Caselli quando, parlando della Liguria, dice: “Se usciremo da questa situazione non sarà nel breve tempo. Purtroppo la politica ragiona per tempi brevi, mentre dobbiamo guardare un po’ più in là. Io credo che ci si debba porre da un punto di vista metodologico un interrogativo di fondo: quali sono i nostri punti di forza? Su questi costruiamo un grande lavoro di aggregazione, di trascinamento” (“La Repubblica Liguria”, 8 ottobre 2016). Così come ha ragione il saggista Pierfranco Pellizzetti: “Il problema è individuare un ambito in cui specializzarsi, la declinazione tecno-economica del paradigma di sviluppo in questa fase storica. Operazione che richiede alla politica e alle istituzioni di svolgere un fondamentale ruolo di regia riguardo a tali scelte pubbliche” (“La Repubblica Liguria”, 30 giugno 2016).
Dobbiamo fare come quando puntammo sulla nautica da diporto tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila: università, ricerca, riconversione dei vecchi cantieri, creazione del “distretto nautico”. Fare cioè massa critica di eccellenze in alcuni settori economici, capace di attrarre aziende esterne e di far nascere e crescere aziende locali. Un settore su cui puntare mi sembra chiaro, perché iscritto nel nostro dna: oggi, con la scelta di Enel di dismettere -finalmente!- la centrale, dobbiamo portare nel futuro un patrimonio di competenze ed esperienze e dare vita al “distretto delle energie rinnovabili e del risparmio energetico”. L’industria serve ancora, altrimenti l’avvenire resterà magro e incerto. Ma dovrà essere sostenibile dal punto di vista ambientale, sulla base di un piano pubblico che, considerando la città come un ecosistema, ogni anno preveda di rispettare obbiettivi precisi: una quota in più di energia rinnovabile, di case efficienti, di nuove modalità di trasporto, di materiali recuperati, di reti intelligenti, di terra sottratta all’edificazione…
Gli altri settori sono quelli del turismo sostenibile e della cultura. Settori in cui, come sottolineo da tempo, serve fare sistema, superando la frammentazione esistente. Nel turismo ci si sta provando: ma la proposta del distretto turistico di area vasta è arrivata in ritardo e con adesioni limitate, per cui appare difficile recuperare il tempo perduto. Mentre in campo culturale la dispersione la fa da padrona, come ha sottolineato la recente inchiesta di “Città della Spezia” sui musei. Aggiungo, sulla cultura, che serve una svolta nel nome della “cultura di tutti e per tutti”, con spazi di aggregazione e con iniziative che siano diffusi in tutta la città: Spezia deve diventare, anche dal punto di vista culturale, “policentrica”, più omogenea ed equilibrata.
Trasversale ai vari settori è il supporto alle piccole imprese. Bisogna lavorare nella logica del patto: un patto per la formazione con gli artigiani e le scuole di formazione, per trasmettere il sapere e favorire nuova imprenditorialità; un patto per l’ambiente con le piccole imprese del settore energetico-ambientale, per la riqualificazione degli edifici; un patto per il turismo e la cultura con i soggetti imprenditoriali, formativi e associativi del territorio, per investire soprattutto nella formazione, nella conoscenza delle lingue straniere, ecc. Un patto che preveda, per esempio, agevolazioni fiscali per gli operatori che adottano una articolata politica di accoglienza nei confronti del turista: orari di apertura prolungata, wi-fi gratuito, menù di cucina locale, menù in lingua…
Ancora, in estrema sintesi: serve una revisione del nostro welfare, per capire quali sono i nuovi bisogni non intercettati dai servizi e per combattere le crescenti diseguaglianze. Reddito di cittadinanza e lavori socialmente utili (l’”Esercito del lavoro” di cui parlava, già nel 1946, Ernesto Rossi, uno degli autori del Manifesto di Ventotene) non devono essere parole tabù. E dobbiamo tornare a impegnarci per un grande piano di abbattimento di tutte le barriere per i disabili.
Infine la partecipazione, contro la politica decisionista che incentiva l’apatia democratica. Vuol dire dar vita a organismi di quartiere, prevedere processi partecipativi deliberativi a carattere vincolante, garantire continuità e sviluppo ai processi partecipativi avviati nella gestione del bilancio, introdurre il débat public nelle opere pubbliche di rilievo, sostenere la possibilità per i cittadini di prendere in carico la gestione dei beni pubblici…
Tutto ciò potrà realizzarsi se si incoraggerà la trasformazione della città da arena in cui si muovono attori diversi, isolati tra loro e con scarso coordinamento, in arena di attori collettivi capaci di strategia e di azione stabile e a lungo termine. Il che richiede un salto di qualità nella politica locale e una nuova classe dirigente.
La coalizione civica e sociale
Falliti i partiti, che fare? Così scrivevo su questa rubrica il 20 marzo 2016: “Ora tocca alle tante spinte civiche che esistono in città: movimenti, comitati, associazioni, tutti i cittadini che vogliono farsi sentire e ottenere risultati che i partiti non sono in grado di dare. E tocca anche al M5S, che è arrivato all’apice delle sue fortune e che, così com’è configurato, non può non andare oltre, per aprirsi a convergenze non con i partiti ma con il civismo. E poi tocca ai tanti che finora hanno votato Pd, considerandolo l’erede dei partiti di sinistra: anche loro sono spaesati e impauriti del futuro. Possono ritrovare una speranza insieme a tanti altri, in una grande lista civica” (“Una storia è finita, ora una grande lista civica”). L’esperienza dei mesi successivi ha fatto capire come questa prospettiva sia difficile ma anche esaltante, e soprattutto percorribile, sia pure attraverso un sentiero stretto e accidentato. Sono cresciuti assai, nel M5S come nella sinistra e in tante realtà civiche e associative, i cittadini che ci credono e che per questo si battono. Solo logiche personalistiche e di bottega possono far fallire questo disegno, l’unico in grado di assicurare il cambiamento. Ho letto da qualche parte, nei giorni scorsi, che “la sinistra non deve flirtare con i grillini”. Il punto non è questo. Quale sinistra, poi? Quella “nuova” è ormai “oltre” la sinistra; quella “vecchia” è stata mille volte e in mille modi battuta. Il punto è che non si può non prendere le mosse dalla grande diversità che la spinta populista ha assunto nel nostro Paese rispetto agli altri Paesi europei. E non si può non apprezzare il fatto che da noi ci sia il movimento di Grillo, pur con tutti i suoi limiti, e non quello lepenista, come in Francia. La larga messe di spinte civili e sociali e di saperi democratici che esiste a Spezia -ma il ragionamento vale per l’Italia- deve svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo degli avvenimenti, cercando un rapporto di simpatia, che non esclude certamente la vigilanza critica, con un movimento che è comunque di “insorgenza democratica” ed esprime una richiesta giusta di rinnovamento della politica.
Ristabiliamo un po’ di verità
In questi anni, dalla mia nuova postazione civica e sociale, ho cercato di dare alla mia città un contributo di idee e anche di pratiche per il cambiamento, giuste o sbagliate che fossero (con l’Associazione Culturale Mediterraneo e con altre “avventure”, come il nascente Osservatorio Civico Ligure). Non ho mai chiesto nulla alla politica “tradizionale” e alle istituzioni, semmai ho rifiutato ogni proposta proveniente da quel mondo, semplicemente perché quel mondo non è più da molto tempo il mio mondo. Di fronte alle tante allusioni tese a scaricare ogni problema amministrativo sul passato e alla costante rimozione di una esperienza quindicennale di governo (1993-2007) ho quasi sempre taciuto. Quelle poche volte che ho parlato del passato l’ho fatto non per esibire glorie ma semmai le sconfitte: per una disamina critica che fosse utile per il futuro. Perché solo il futuro mi interessa.
Se questa volta faccio un’eccezione è per la “volgarità” politica dell’attacco del segretario provinciale del Pd Federica Pecunia, nell’intervista citata in precedenza. Per “fare quadrato” Pecunia afferma: “Quando nel 2007 si è insediata la prima giunta Federici Acam era al collasso; il Comune aveva più di mille dipendenti, ora ne ha circa 700; v’era un centro storico ancora da terminare e i quartieri esterni erano ancora periferia; la presenza di Enel sul territorio pareva eterna, e Federici ha strappato un accordo per la chiusura entro il 2021; il porto era terra di conflittualità, oggi abbiamo traffici notevoli e un buon rapporto con i quartieri di levante; il turismo non esisteva, ora è in crescita e i locali sono pieni; la Marina era chiusa a riccio, e in 10 anni abbiamo conquistato Montagna, ospedale militare e una buona apertura su Marola. Senza dimenticare il Felettino e la Variante Aurelia”. Insomma, da un certo momento magico in poi sarebbe nato tutto il “bene”, vincendo l’epoca buia del “male”. Eppure, in questa epoca “buia”, i miei concittadini mi elessero Sindaco dopo Rosaia, di cui ero stato assessore e vicesindaco, con il 56,4% dei voti e mi confermarono nell’incarico cinque anni dopo con il 59,1% dei voti, sempre al primo turno. Il partito da cui proviene Pecunia, che era anche il mio partito prima che nascesse il Pd, ne ebbe benefici in termini di voti, così la coalizione che mi sosteneva: in termini mai raggiunti in seguito. Di fronte a questa “volgarità” ho il dovere di difendere non solo la mia dignità, ma soprattutto l’impegno di tanti cittadini che, nel mio quindicennio amministrativo, mi diedero una mano. Di più: furono protagonisti dell’opera tesa a ridare fiducia e coraggio a una città che era stata colpita, all’inizio degli anni Novanta, da una deindustrializzazione e da una crisi strutturale come poche altre città italiane.
Provo allora a ristabilire un po’ di verità, punto per punto:
1) Su Acam ho scritto un “Diario” (leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com): lì c’è tutta la verità. I miei errori, le mie sconfitte, il mio isolamento rispetto al sistema dominante in città e in provincia. Anche per questo, finito il mio secondo mandato da Sindaco, me ne andai in modo radicale scegliendo altre, e meno comode, strade di impegno politico e civile. Con il “Diario” volevo aprire un dibattito pubblico, ma seguì solo il silenzio. Se a Pecunia questo dibattito interessasse, ne sarei ben lieto: spiegherebbe assai bene la crisi della politica e in particolare la crisi della sinistra a Spezia.
2) Nel 1997 il Comune della Spezia contava 1139 dipendenti, scesi a 784 nel 2007, grazie a un progetto complesso di esternalizzazione di servizi tuttora in vigore.
3) Nel 1993 il centro storico non esisteva, era solo asfalto e macchine, senza una sola via pedonale e senza nemmeno un museo. Il progetto di “riscoperta” terminò sostanzialmente nel 2007: l’unica piazza non coinvolta fu piazza Verdi; lo fu invece piazza Europa, nella quale fu ripristinata la fontana che era diventata un’aiuola (e che oggi è nuovamente scomparsa).
4) Tutti i quartieri, che non ho mai chiamato “periferie”, furono dotati di aree di socializzazione: 21 aree verdi realizzate o ristrutturate, 16 piazze realizzate o ristrutturate.
5) Alla fine del mio secondo mandato non firmai la convenzione con l’Enel e chiesi la dismissione della centrale; nel 2015 la scelta della dismissione è stata fatta dall’Enel, non dal Comune né dalla Regione né dal Governo.
6) Il Piano Regolatore del Porto, varato nel 2001, non ha trovato attuazione in nessuna sua parte: non ci sono stati benefici né per il porto né per l’ambiente; il waterfront è rimasto lettera morta, così tutti gli interventi di miglioramento ambientale nel Levante, fascia di rispetto in primis.
7) Le strutture turistiche crebbero dalle 419 unità del 1999 alle 446 del 2005: 63 nuove imprese e un tasso di crescita del 15%. Circa l’extra alberghiero, solo tra il 2004 e il 2005 le strutture aumentarono da 27 a 45 unità. In quegli anni il Comune realizzò l’Ostello di Biassa e vendette beni in suo possesso -il Poggio e l’ex scuola della Lizza- perché i privati vi realizzassero un albergo e camere per i turisti. Nel 2006 arrivarono 58 navi da crociera, con 70.000 passeggeri.
8) Bene per le aperture della Marina, ma nessuna parte dell’Arsenale, nonostante il calo degli addetti, è tornata alla città; sono tornate, invece e purtroppo, le riparazioni navali.
9) Bene per il Felettino: ma nessuno sa ancora che tipo di ospedale sarà, e che cosa conterrà; bene anche per la Variante Aurelia, opera progettata e iniziata da Amministrazioni addirittura precedenti alla mia e di Rosaia.
Potrei citare altri dati: dal 1997 al 2007 9.000 posti di lavoro in più, 564 imprese in più, la spesa sociale passata da 9,5 milioni di euro a oltre 15 milioni, la crescita dei nidi (da 280 a 428 bambini ospiti), la creazione dell’Università, il passaggio dall’81° posto nel 1999 al 3° posto nel 2006 nella classifica di Legambiente Ecosistema Urbano… Mi fermo qui. Non mi era mai capitato di essere costretto a citare queste cifre. Spero sia la prima e l’ultima volta. Quando ho smesso di fare il Sindaco, ho voluto ricominciare da capo e mi sono subito dedicato alle sfide nuove. Perché non dobbiamo accontentarci mai, nella politica come nella vita, di quanto abbiamo realizzato ma esplorare continuamente il cambiamento. Pronti a riconsiderare tante nostre certezze. Tanto più oggi, che una fase è alle nostre spalle. Le radici, dunque, vanno sempre considerate criticamente. Però non vanno mai recise: perché il futuro non è nelle mani di chi è senza storia.
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