Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Spezia civile e creativa – seconda parte

a cura di in data 9 Settembre 2021 – 15:38

Veduta di Pitelli da Brigola
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 16 agosto 2021

“IN SOME LANDSCAPE”, UN VIAGGIO SUL RAPPORTO TRA L’UOMO E LA NATURA
“In some landscape” è l’ultimo libro di Daniele Virgilio, architetto e urbanista spezzino. Un diario, costruito su note di viaggio sulla lettura di un libro di Tsunesaburō Makiguchi, filosofo, geografo, educatore e attivista giapponese, nato nel 1871. Per il suo rifiuto di accettare un talismano shintoista, allora reso obbligatorio dal governo come simbolo di fede nell’Imperatore e augurio per una buona risoluzione della guerra nel Pacifico, Makiguchi venne arrestato nel 1943. Morì in carcere all’età di 73 anni. Il libro che Virgilio legge, elabora e analizza nel diario è il primo di Makiguchi, “Una geografia della vita umana” (1903), frutto delle sue ricerche sulla connessione tra la vita umana e i fenomeni geografici. Makiguchi vedeva la geografia come scienza per spiegare la relazione tra la Terra e l’uomo. Ed è su questo tema che Virgilio affonda e fonde le sue riflessioni e le sue emozioni: la relazione profonda che unisce la vita umana al suo ambiente.
Leggiamo due brani di Makiguchi citati da Virgilio:
“La nostra felicità nella vita è fortemente connessa alla natura, dipende dalla vicinanza e profondità della nostra relazione con la natura”.
“Dovremmo considerare le persone, gli animali, gli alberi, i fiumi, le rocce o le pietre nella stessa luce in cui consideriamo noi stessi e comprendere che abbiamo molto in comune con tutti loro”.
L’interazione spirituale di Virgilio con Makiguchi è profonda:
“Senza ambiente non siamo. […] L’elemento geografico inteso come relazione tra l’io e l’ambiente è l’elemento cardine della felicità umana”. […] Il vivente non può essere privo di ambiente. L’ombra e il corpo non si danno separatamente”.
Virgilio trova assonanze con molti pensatori occidentali, da Patrick Geddes, urbanista, e J. Arthur Thomson, naturalista -“E’ impossibile separare le creature viventi da ciò che le circonda”- allo psicologo James Hillman -“L’ambiente è intriso di anima, inestricabilmente fuso con noi”, fino all’architetto Christopher Alexander: “C’è qualcosa che unisce le nostre anime alle gocce di rugiada”.
E naturalmente trova assonanze con molti pensatori orientali, a partire da Nichiren Daishonin, alla cui interpretazione del buddismo Virgilio aderisce, così come in tarda età vi aderì Makigushi.
Questa visione del rapporto uomo-natura è riconducibile a un contesto religioso, ma non appartiene a una confessione in particolare. Anzi, nemmeno necessariamente a una confessione (è il caso di chi scrive). Sostiene Virgilio:
“Il sacro non è […] un valore indipendente dagli altri. Non chiede di essere nominato. Ma non solo non è escluso, è anzi totalmente sussunto negli altri. E’ implicitamente presente in tutti gli aspetti della vita”.
Non ho mai dimenticato una frase di Pier Paolo Pasolini: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”. Da allora la penso come lui:
“Non bisogna aver più paura di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”.
Rientra nel contesto della visione “religiosa” del rapporto uomo-natura richiamato da Virgilio la stessa riflessione di papa Francesco, fin dall’enciclica “Laudato sì”, il cui concetto centrale è un paradigma in grado di articolare le relazioni fondamentali della persona con Dio, con se stessa, con gli altri esseri umani, con il creato. L’enciclica cerca, a volte forzando la verità storica, continui appigli dottrinali di matrice testamentaria o evangelica, per rovesciare la ricezione tradizionale del messaggio biblico e cristiano: quella che affida il dominio incontrastato sulla Terra e su tutto il vivente all’”essere umano”. In realtà Francesco ci offre una visione nuova -la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso-, che ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Non c’è più una relazione in cui l’uomo è il soggetto e la natura è l’oggetto: l’uomo fa parte della natura, e dipende da essa attraverso la sua corporeità; è inserito nell’ambiente naturale e il suo compito è custodirlo.
Con la sua terza Enciclica, “Fratelli tutti”, papa Francesco sviluppa ancora questo nuovo paradigma per abitare il mondo: propone che si passi dal modello diffuso del dominus a quello di frater. Dall’uomo signore e padrone della natura e anche di altri umani, all’uomo fratello, alla donna sorella.
Il che non significa che l’essere umano non sia “al centro”. Lo è, ma in un modo diverso dal passato. Come sosteneva l’umanesimo degli anni Sessanta bisogna “partire da sé”. Ma è un “sé” diverso. Lo spiega Virgilio:
“La trasformazione parte dal sé e si estende all’ambiente. E se anche il sé contiene l’ambiente e ne è costituito, il ‘senso di marcia’ non è un altro. Nella ‘costruzione della decisione’ entrano senza ombra di dubbio i fattori ambientali di cui siamo fatti. Ma la trasformazione è prima di tutto quella dell’io. Da noi stessi, dal nostro sguardo, dalla nostra disposizione d’animo, dall’espressione del nostro volto partiamo per trasformare, se lo vogliamo, il mondo di cui siamo fatti”.
La conclusione del libro è molto bella:
“Se il territorio è il corpo dell’uomo, se l’essere vivente è l’ambiente, il suo ambiente, ogni azione che comporta una trasformazione deve rispondere alla questione valoriale: sto toccando il corpo mio e di tutti gli innumerevoli io che in esso sono. […] E’ un problema etico di portata immensa, non importa quale sia la magnitudine dell’azione. E, ogni volta, una occasione preziosa di creazione di valore. Un valore non determinabile univocamente o in modo assoluto, ma che esiste in ragione dell’assunzione della responsabilità, la costruzione di un’attitudine esistenziale capace di essere risolutamente in conflitto con azioni e comportamenti di segno opposto. Ci troviamo ad essere e ad avere dentro qualcosa che chiede di essere protetto. Dunque la difesa da ciò che minaccia è necessaria, il conflitto è inevitabile, la disobbedienza doverosa”.
E’ l’unica via d’uscita che potrà salvarci. Il cammino è tortuoso, ma è il percorso giusto. Dobbiamo rispondere con urgenza, poiché il tempo corre contro di noi.
C’è un altro tema su cui Makiguchi e Virgilio ci dicono cose preziose. Leggiamo Makiguchi:
“Come studiosi di psicologia umana riconosciamo che ogni persona ha diverse abilità e capacità innate. In modo analogo, ogni villaggio è differente e presenta prodotti diversificati in ragione dell’unicità della sua storia e della sua localizzazione”.
Leggiamo ora Virgilio:
“In termini di cognizione e di valore, il villaggio più sperduto non ha meno significato né meno potenzialità di un grande centro urbano per manifestare il senso profondo di tutti i fenomeni dell’universo. […] Per quanto minuscola, la dimensione di luogo è in grado di esprimere i caratteri dell’intero universo come immenso grande corpo e riparo di ogni forma di vita. Dentro ciascuno di noi”.
E’ l’elogio del margine. Ci sono atti che partono dal margine e lo pongono al centro, che rivoluzionano lo sguardo e creano nuovi spazi d’azione per il futuro. Nella mia vita il margine è stato dapprima il quartiere di periferia, poi il campo profughi di Jenin e il villaggio di Lembà, nella bellissima e poverissima isola di Sao Tomè. Partire dal margine significa partire dal basso, dai germogli della società, dalle donne e dagli uomini più miti e più umili. Dai luoghi e dalle persone finiti ai margini della Storia.

Veduta di Pitelli da Falconara
(2021) (foto Giorgio Pagano)

“NEROGOLFO”
“Nerogolfo”, di Mattia Bernardo Bagnoli e Roberto Lamma, è un romanzo di fantasia, che trae però ispirazione da fatti in buona parte realmente avvenuti. Lamma, avvocato, attivista ambientalista, da alcuni anni è anche attore teatrale e scrittore. I fatti raccontati l’hanno visto protagonista, da una parte della barricata. Il romanzo si legge tutto d’un fiato: è la storia della discarica di Pitelli (nel libro Belvedere), dei rapporti del suo proprietario -potente imprenditore locale- con una loggia massonica, con i “poteri forti”, con il “partito della sinistra” (nel libro PRS, Partito Riformista della Sinistra). Sullo sfondo c’è un vero e proprio intrigo internazionale, basato sui rifiuti. Ma nel libro c’è anche altro: un’industria di lavorazione del serpentino, che inquina disperdendo l’amianto contenuto nella pietra, l’ipotesi di raddoppio della Snam… Insomma: lo scontro tra due diverse visioni di sviluppo del Golfo.
L’opera si legge come un giallo ma confina con il giornalismo di inchiesta: potremmo definire “Nerogolfo” un libro di narrativa civile. Che coinvolge come “noir” e fa riflettere come “inchiesta”.
Sui fatti, e su alcune proposte per affrontare i problemi aperti, rimando all’articolo di questa rubrica “Ambiente e salute: possiamo sconfiggere il passato” (16 marzo 2014). In quell’occasione scrivevo di “un utilizzo sciaguratamente illegale di un impianto già di per sé sciagurato”. Oggi userei, forse, toni diversi circa l’esito del processo, che fu assolutorio sulla questione del “disastro ambientale”. Nel frattempo sono diventato scrittore di storia e ho meglio riflettuto sul fatto che nel nostro Paese vi è una consolidata scissione tra verità giudiziaria e verità fattuale. Studiando gli anni Sessanta e Settanta questa scissione emerge con nettezza: si pensi, per fare un solo esempio, alla strage di piazza Fontana. Non compete ai magistrati scrivere la storia, sebbene qualche giudice ne abbia la pretesa. E gli storici hanno il diritto-dovere di non fermarsi all’ossequio delle sentenze, esercitando la libertà di ricerca. Soprattutto cercando di fare emergere nuovi documenti, o testimonianze. E comunque, come scrivevo, “il fatto che non ci sia disastro ambientale non significa ovviamente che non ci siano state nefandezze e che non ci sia inquinamento”.
Sul tema delle responsabilità del “partito della sinistra” (nelle sue forme che si sono succedute nel tempo) ho accennato in più occasioni, essendone stato un dirigente di primo piano: in quel partito si sviluppò un dibattito interno -anzi, uno scontro- fortissimo, che verteva proprio sul punto del modello di sviluppo e, in modo meno trasparente e “pubblico”, anche sul punto della “questione morale” e del rapporto con alcuni poteri. “Fu la fase più dura e sofferta” della mia vita politica, come scrissi nell’articolo di questa rubrica “Riflessioni su Rosaia e sulla prossima democrazia” (12 maggio 2019). Il secondo Volume di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata” racconta, tra le molte cose, anche la sconfitta di quel partito e la vicenda del mio radicale distacco dalla politica dei partiti. Ma certamente una storia del “partito della sinistra” spezzino, con tutte le sue luci e tutte le sue ombre, manca ancora. “Nerogolfo” è anche uno stimolo in tal senso.
Il libro ci invita, in particolare, a riflettere su una questione che riguarda non solo il “partito della sinistra” ma tutto il mondo politico. La discarica di Pitelli è uno dei simboli dell’industrialismo dissipatore dell’ambiente, che caratterizzò la cultura politica degli anni Sessanta e Settanta. Tutti, a Spezia, furono favorevoli all’insediamento dell’Enel e della Snam. E tutti furono favorevoli all’apertura della discarica di Pitelli, quando fu aperta nel 1979. Ma negli anni Ottanta e Novanta era nato l’ecologismo, la cultura politica -sul punto dell’ambiente- non era più compatta come in passato. Quindi, in quegli anni, poteva “andare diversamente”. Dobbiamo studiare quello che veramente è accaduto, ma confrontandolo con le ulteriori possibilità che non si sono verificate. A proposito dell’Enel -ma avrei potuto citare le discariche- nell’articolo di questa rubrica “Ciò che è vivo e ciò che è morto nel Novecento spezzino” (9 aprile 2017) scrissi:
“Avevano ragione i ‘vinti’, gli ambientalisti. Bisogna fare una storia che non sia solo quella dei ‘vincitori’, detentori del potere. Bisogna ritrovare i fili spezzati di una storia che non è stata”.

Post scriptum:
L’articolo di oggi è dedicato al compianto Gino Strada. Grazie Gino per tutto quello che hai fatto.
Su di lui ho scritto l’articolo pubblicato in “Lettere a Cds” del 14 agosto “Addio a Gino Strada, un uomo sempre dalla parte della pace e della giustizia”.
Ma oggi voglio ricordare anche Federico Zeri -che avrebbe compiuto cento anni il 12 agosto- e il suo rapporto con La Spezia. Zeri ha segnato un’epoca nella storia dell’arte del Novecento, dimostrando che la competenza, la conoscenza e l’onestà intellettuale potevano superare anche le vette della carriera accademica. Lui, infatti, aveva scelto fin dalla metà degli anni Cinquanta di essere un “libero battitore”, abbandonando di sua scelta l’amministrazione pubblica e diventando un esperto di caratura internazionale, corteggiato da collezionisti, direttori di museo, case d’asta e mercanti. In Italia fu consigliere privato di molti collezionisti, tra cui Amedeo Lia, che conobbe già nel 1963 e per il quale, nel 1997, curò il catalogo dei dipinti insieme al giovane collaboratore Andrea G. De Marchi. “Ricordo -mi racconta Marzia Ratti, allora dirigente del Comune- che l’incarico gli fu dato subito, all’inizio della realizzazione del Museo, e che trascorse diversi periodi in casa di Amedeo Lia a riprendere in mano, uno a uno, tutti i dipinti della raccolta, per scrivere le schede di catalogo e precisarne autori, datazioni e provenienze”. Il mio ricordo risale al 1994-1995, quando Lia propose al Comune la donazione: fu proprio Zeri a spiegare al Sindaco Lucio Rosaia il suo enorme valore, anche per il metodo utilizzato nell’acquisizione delle opere. Lo invitammo per una presentazione alla città della donazione, nel convegno che si tenne in Sala Dante nel dicembre 1995.
Zeri diceva sempre che la storia dell’arte è storia e basta: che l’Occidente e l’Oriente si incrociano di continuo sulle tavole delle icone, tra i polittici dipinti e le sculture. Vale anche per la donazione Lia. Forse bisognerebbe fare anche al Lia ciò che hanno fatto al Museo della Pilotta di Parma: affidare la comunicazione -in video visibili su tutti i social- a studenti, anche di origine straniera. La nostra arte deve moltissimo al mondo arabo-musulmano. Questi ragazzi ci aiuterebbero a costruire una visione unitaria e cosmopolita della storia dell’arte, a guardare i quadri con occhi nuovi, a rendere il Museo più vicino a tutti i cittadini, a formare giovani colti e competenti.

lucidellacitta2011@gmail.com

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