Social network, siamo noi la merce in vendita
Città della Spezia, 25 marzo 2018 – Per la seconda volta Facebook è stato implicato in uno scandalo politico, etico e legale legato all’elezione di Donald Trump. Prima c’era stato l’uso massiccio del social network da parte della propaganda russa, per diffondere fake news e manipolare gli elettori americani. La seconda torbida vicenda, emersa nei giorni scorsi, vede protagonista l’agenzia britannica di marketing politico Cambridge Analytica, che ha avuto come finanziatori alcuni personaggi ultrà della destra americana: ha saccheggiato i profili personali di 50 milioni di utenti di Facebook e ha usato i dati personali e privati per confezionare messaggi di propaganda e di disinformazione mirati, in grado di influenzare i singoli elettori facendo leva sul loro carattere, i gusti, le frequentazioni, le letture… Di questa vicenda i vertici di Facebook sapevano da tempo, hanno taciuto e non hanno informato i 50 milioni di utenti vittime della violazione. La reazione di Mark Zuckerberg è stata sconfortante: “Sto lavorando per capire esattamente cos’è accaduto e come garantire che non accada più”. La verità è che tutto è avvenuto nel rispetto delle regole: le regole che Facebook ha fissato per se stesso. Le regole da sottoscrivere per accedere a Facebook prevedono infatti che il singolo cede i suoi dati personali, post, foto, video, proprio a Zuckerberg, che ha il potere di farne ciò che vuole.
I due scandali evidenziano ciò che era chiaro da tempo a tutti coloro che hanno studiato il modello imprenditoriale di Facebook. Leggiamo quanto ha scritto Federico Rampini:
“La fonte di fatturato e di profitti di questa società, il nucleo duro della sua vocazione aziendale, è la vendita della nostra privacy. E’ impressionante l’elenco delle ‘chiavi d’accesso’ alla nostra vita privata (digitale), a partire dall’indirizzo Ip che porta incollato a sé ogni clic, ogni carezza del pollice sul display, ogni sito che visitiamo. Le nostre amicizie e le nostre preferenze politiche, i nostri consumi e i nostri valori, il nostro reddito e i nostri spostamenti geografici, tutto è registrato, memorizzato, tariffato, venduto. In più. ogni volta che ‘condividiamo’ con gli amici un parere su un fatto di attualità, un commento uscito su un giornale, stiamo facendo una sorta di delazione, segnaliamo al marketing del pensiero e al ‘commercio dell’attenzione umana’ tutti gli appartenenti alla nostra tribù” (“Repubblica”, 22 marzo 2018).
Insomma, Zuckerberg è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo vendendo i nostri dati: il suo vero unico business. Li vende ai pubblicitari e li vende ad aziende come Cambridge Analytica. E noi abbiamo venduto la nostra anima ai social media in cambio di un po’ di servizi gratuiti: una gratuità apparente perché siamo noi i prodotti in vendita a pagamento. E’ la gratuità che ci ha ingannato: il mercato non si vede ma c’è. La merce siamo noi.
Pensiamoci bene: Facebook non è solo un’impresa, è anche una vera e propria tecnologia del controllo sociale. E’ una potenza economica e una potenza politica. Il bacino della Rete è la materia prima degli affari e del potere, e chi controlla la Rete ha un potere superiore a quello degli Stati nazionali e degli organismi internazionali. Una realtà davvero inquietante.
In questo articolo ho sempre usato il “noi”. In realtà io su Facebook non sono mai stato. Però la soluzione del problema non può essere la mia, o quella di Steven Spielberg (“Non sono su Twitter, Facebook, Snapchat… Per me niente può sostituire il contatto tra gli esseri umani”, “Repubblica”, 22 marzo 2018). Anche se ora in molti la suggeriscono: “Cancellatevi da Facebook”, ha detto il cofondatore di WhatsApp (perfino lui!). No, la soluzione è dare regole a un mercato che non ha regole se non quelle scelte da Facebook. E’ difficile, perché anche nel resto del mercato le regole stanno diventando un optional. Ma non ci sono alternative. Non si tratta di fermare l’innovazione tecnologica, ma di evitarne o mitigarne gli aspetti negativi e di trovare il modo affinché contribuisca a migliorare la società. Un’economia che evolve dovrebbe comportare anche un’evoluzione delle regole. Ora non è così, ed è questo che inquieta.
Le regole dovrebbero affrontare la questione chiave: la tecnologia, nonostante ogni apparenza, “esprime una vocazione autoritaria, non libertaria”, come sostiene il costituzionalista Michele Ainis. La tecnologia sta modificando le nostre strutture mentali e la cultura collettiva. Ci invita a risposte rapide anche dinanzi ai problemi più complessi: ma “non si può pensare velocemente” (ne ho scritto in questa rubrica: “Anno vecchio e anno nuovo, ricordi, riflessioni e speranze”, 1° gennaio 2016). Molte illusioni sono cadute. “Non è vero -scrive Ainis- che il web sia l’arma che ci difende dal potere, perché quest’ultimo se ne serve meglio e di più rispetto ai cittadini… E non è vero che Internet consenta la massima partecipazione democratica nella selezione (ed eventualmente nella revoca) dei rappresentanti popolari. O meglio, consente la partecipazione, ma talvolta a scapito della democrazia. Giacché quest’ultima si nutre di procedure, di garanzie formali che mancano del tutto quando l’agorà si trasforma in tribunale, come le plebi radunate al Colosseo rispetto al gladiatore sconfitto” (“Repubblica”, 18 marzo 2018).
Ma le regole può darle solo la “grande politica”, cioè la capacità di immaginare e di realizzare una forma della società che vada oltre il semplice assecondamento dei poteri esistenti e la manutenzione, sempre più precaria, dello status quo con tutte le sue contraddizioni. La “grande politica” è quella capace di trovare un punto di equilibrio tra la politica, l’economia e la tecnologia: come fu con lo Stato sociale del secolo scorso. Oggi la politica è invece debole, subalterna all’economia e alla tecnologia, impotente rispetto agli altri poteri. O si affronta questo problema, o sarà travolta la democrazia.
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