Settant’anni dopo, Israele come il Sudafrica
Città della Spezia, 17 giugno 2018 – Perché l’attenzione e il sostegno al dramma palestinese sono diventati, in Italia e in Europa, marginali? Perché sono stati corrosi dalla crescente percezione della “minaccia islamica”. Ma non possiamo diventare ciechi e sordi di fronte all’emergenza umanitaria a Gaza, né dimenticare che la situazione attuale in Palestina è una minaccia diretta anche per noi. L’odio che Israele e gli Usa attirano verso tutto l’Occidente può portare infatti ad accrescere il numero dei terroristi e a scatenare guerre che aumenterebbero il numero dei rifugiati. Abbiamo bisogno della pace in Medio Oriente, nel nostro stesso interesse.
L’AMBASCIATA AMERICANA A GERUSALEMME: LA FASE DEI NEGOZIATI E’ FINITA
Settant’anni fa, il 14 maggio 1948, fu fondato lo Stato di Israele. Per i palestinesi questa è la data della Nakba, “la Catastrofe”. Ogni anno gli uni festeggiano l’indipendenza, gli altri commemorano l’esodo dalle città e dai villaggi natii della loro gente. Quelle ferite si sono fatte sempre più profonde: sul presente che conta nuovi morti pesa quel passato. Il settantesimo anniversario ha coinciso con la “marcia del ritorno” dei palestinesi, di Gaza ma anche della Cisgiordania, e con la risposta militare israeliana, che ha mietuto molte vittime, e con l’inaugurazione dell’Ambasciata americana a Gerusalemme, trasferita da Tel Aviv per volontà di Donald Trump. Fin dal 1948 la questione di Gerusalemme era stata rimandata a negoziati: per l’Onu la città santa era un’entità internazionale sotto la loro sorveglianza. Con la guerra del 1967 Israele si impossessò di Gerusalemme est, e realizzò l’unificazione della città. Ma poi ci fu l’accordo di Oslo del 1993, che rimandò la sorte di Gerusalemme ai negoziati. La decisione di Trump spiega con chiarezza che la fase dei negoziati è davvero finita.
COMPRENDERE LA SOFFERENZA DI GAZA
La “marcia del ritorno” a ridosso dei confini con Israele è l’esito di una situazione da molti anni drammatica. In particolare a Gaza, dove l’assedio totale colpisce due milioni di persone. Dobbiamo comprendere che i palestinesi vanno al confine per chiedere dignità e libertà. Lo spiega benissimo Fadi Abu Shammalah, Direttore dell’Unione generale dei centri culturali a Gaza:
“Il 30 marzo, al mattino presto, mio figlio di 7 anni, Ali, ha visto che mi preparavo per uscire: una cosa insolita a casa nostra di venerdì. ‘Dove vai, papà?’. ‘Al confine. Voglio partecipare alla Grande marcia del ritorno’…. ‘Posso venire?’, mi ha pregato Ali. Gli ho detto che era troppo pericoloso. ‘Perché vai se rischi che ti uccidano?’, incalzava. La domanda mi ha accompagnato mentre andavo, ho continuato a pensarci il venerdì successivo e aleggia su di me anche ora. Amo la mia vita. Sono padre di tre bambini meravigliosi (Ali ha un fratello di 4 anni, Karam, e un fratellino appena nato, Adam), e sono sposato con una donna che considero la mia anima gemella. I miei timori erano giustificati: sono stati uccisi 39 manifestanti dall’inizio della marcia, migliaia sono i feriti. Anche due giornalisti sono morti.
Perché, dunque, sono disposto a rischiare la vita partecipando? Ci sono varie risposte alla domanda di Ali. Credo pienamente nella tattica della marcia, un’azione di massa, diretta, di cittadini disarmati. Mi ha stimolato anche vedere come l’iniziativa abbia unificato il popolo di Gaza, così diviso politicamente. La marcia, inoltre, è un modo per evidenziare le insopportabili condizioni di vita nella Striscia: quattro ore di elettricità al giorno, l’economia e le frontiere sotto assedio, la paura che bombardino le nostre case. Ma la ragione principale per la quale partecipo è che tra qualche anno voglio poter guardare negli occhi Ali, Karam e Adam e dire loro: ‘Vostro padre partecipò a quella lotta storica e non violenta’. I media occidentali hanno parlato della Grande marcia del ritorno concentrandosi sulle immagini di giovani che lanciavano pietre e bruciavano pneumatici. L’esercito israeliano ha presentato l’iniziativa come una violenta provocazione di Hamas, e molti analisti hanno accettato ciecamente questa definizione. La mia esperienza sul campo la contraddice totalmente… C’erano tutti i segmenti della società politica e civile di Gaza. Sul confine non ho visto una sola bandiera di Hamas, né uno striscione di Fatah o un cartello del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Abbiamo innalzato una sola bandiera, quella palestinese. È vero, partecipano anche membri di Hamas, ma questa partecipazione indica che, dall’insistere sulla liberazione militare della Palestina, potrebbero forse passare ad abbracciare una protesta popolare e disarmata. La Grande marcia del ritorno, comunque, non è una iniziativa di Hamas. È di tutti noi. E la nostra manifestazione è stata molto di più di quegli pneumatici bruciati o dei giovani che hanno lanciato dei sassi. La resistenza negli accampamenti è stata creativa e bella. Ho ballato la dabka, la danza nazionale palestinese. Ho assaggiato le specialità culinarie tradizionali. Ho intonato canti tradizionali con altri manifestanti e mi sono seduto con gli anziani che raccontavano come si viveva nei villaggi prima del 1948. Nei venerdì, a volte abbiamo fatto volare degli aquiloni, altre volte issato bandiere su pali di circa 25 metri per renderle ben visibili dall’altra parte del confine. Tutto questo si è svolto sotto le armi da fuoco dei cecchini israeliani che si trovavano a circa 700 metri di distanza. Eravamo tesi, impauriti, ma felici. Il canto, la danza, i racconti, le bandiere, gli aquiloni e il cibo sono più che simboli di un patrimonio culturale. Dimostrano che noi esistiamo, che resteremo, che siamo esseri umani che meritano dignità e abbiamo il diritto di tornare alle nostre case… (“la Repubblica”, 30 aprile 2018).
La risposta di Israele è stata un barbaro eccidio di ragazzi disarmati, anche bambini. Che ricorda “il massacro di Sheperville nel 1960 in Sudafrica” contro i neri, come hanno scritto gli israeliani firmatari dell’appello “I responsabili della strage di Gaza siano processati” (primo firmatario Avraham Burg, ex Presidente della Knesset, il Parlamento di Israele).
NETANYAHU E’ IL PERICOLO MAGGIORE PER IL FUTURO DI ISRAELE
Mario Vargas Llosa, lo scrittore peruviano Premio Nobel per la letteratura, non è mai stato tenero con i palestinesi. Ma anche in lui ritorna il paragone tra Isreale e Sudafrica:
“Di tanto in tanto la teoria dei due Stati riaffiora, ma nessuno ormai crede che sia praticabile, di fronte alla politica espansionista degli israeliani, che con gli insediamenti in Cisgiordania divorano territori e isolano i villaggi e le città che dovrebbero formare lo Stato palestinese: se esistesse, oggi sarebbe poco meno che una caricatura dei bantustan sudafricani dei tempi dell’Apartheid… Questo processo ha reso possibile il governo Netanyahu, il più reazionario e prepotente che Israele abbia mai avuto, e il meno democratico, perché, convinto della propria superiorità militare, incalza gli avversari, ruba ogni giorno territorio in più e, accusandoli di essere terroristi e di mettere in pericolo l’esistenza del piccolo Stato ebraico di Israele, spara loro addosso, li ferisce, li assassina con il minimo pretesto… Non sono i palestinesi il pericolo maggiore per il futuro di Israele, ma Netanyahu e i suoi seguaci, e il sangue che spargono” (“la Repubblica”, 22 maggio 2018).
Nutro amicizia con Israele. Ho conosciuto Haifa, città laica e tollerante, e ho costruito il gemellaggio trilaterale tra La Spezia, Haifa e la palestinese Jenin. Conosco e stimo persone che in Israele si battono per la pace e la riconciliazione. Amo tanta letteratura e tanto cinema israeliani. Ma oggi bisogna usare parole chiare, come fa Vargas Llosa. Lui ha ragione: la formula “Due popoli, due Stati” è ormai ipocrita, perché la colonizzazione impedisce la formazione dello Stato palestinese e ci consegna uno scenario sudafricano, in cui i palestinesi vivono in una forma di Apartheid.
L’EUROPA DIMOSTRI DI ESISTERE
Oggi mancano gli attori che sostengano l’apertura di un dialogo. La leadership israeliana non ha nessun interesse al dialogo, e sembra puntare alla guerra con l’Iran, d’intesa con gli Usa, l’Arabia Saudita e l’Egitto. La leadership palestinese è debole e divisa, tra Fatah in Cisgiordania e Hamas a Gaza. Il mondo arabo ha in gran parte dimenticato i palestinesi, per molti di loro conta solo la battaglia contro l’Iran. In America c’ è Trump, mentre l’Europa è invisibile. Ma se l’Europa non è in grado di reagire, vuol dire che davvero non esiste più.
Massimo D’Alema ha fatto il paragone tra Medio Oriente e Corea del Nord:
“L’accordo sul nucleare con l’Iran è sotto controllo da parte dell’Agenzia dell’Onu per il nucleare, l’Aiea; mentre l’impegno coreano è tutto da verificare. Ciononostante, gli americani vogliono un cambio di regime a Teheran, ma non a Pyongyang, che non mi pare più democratico degli ayatollah. Il perché di questa diversità di comportamento? Perché gli Usa rispettano la Cina molto di più di quanto fanno con l’Europa” (“il Fatto Quotidiano”, 16 maggio 2018).
Dobbiamo dimostrare di contare ancora qualcosa, nell’interesse nostro e del mondo, che ha bisogno dell’Europa.
Post scriptum:
sul conflitto israelo-palestinese ho scritto molto in questi anni. Rimando all’articolo di questa rubrica “Gerusalemme” (31 dicembre 2017) e alla conferenza all’Alta Scuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano “Conflict dimension in the different areas of intervention. The case of Arab-Israeli conflict” (21 giugno 2011), leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com.
Dedico l’articolo di oggi a due sindacalisti che non ci sono più, di due epoche diverse: Pierre Carniti e Soumayla Sacko. Due difensori dei lavoratori, di ieri e di oggi. Non sempre sono stato d’accordo con Carniti, segretario della Fim e poi della Cisl, ma ho sempre apprezzato la sua intelligenza e il suo rigore morale. Domenica scorsa ho scritto delle “rovine” della sinistra da cui attingere per il futuro: certamente tra queste ci sono la battaglia di Carniti per la riduzione dell’orario di lavoro e le sue idee per creare occupazione pubblicate nel prezioso libro del 2013 “La risacca”. Soumayla Sacko aveva 29 anni, veniva dal Mali, viveva in Calabria ed era impegnato nell’Usb, Unione sindacale di base. Organizzava le lotte per i diritti dei braccianti agricoli sfruttati nella piana di Gioia Tauro e costretti a vivere nell’inferno della tendopoli di San Ferdinando. E’ stato ucciso a fucilate mentre stava raccogliendo lamiere abbandonate per le baracche.
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