Senza Stato niente sviluppo economico
Città della Spezia, 31 agosto 2014 – Ho letto sui giornali che il Presidente del Consiglio Matteo Renzi ha comprato, prima di andare in vacanza, il libro “Lo Stato innovatore” della studiosa italiana Mariana Mazzucato, che insegna economia dell’innovazione all’Università del Sussex. Bene, spero che le riflessioni sviluppate da questo libro di grande interesse incoraggino Renzi a “cambiare verso” rispetto al modo di parlare di politica economica in Italia, che finora ha accomunato un po’ tutti, da Berlusconi a Monti, da Letta allo stesso Renzi. Ad abbandonare, cioè, i triti luoghi comuni secondo cui la crisi di questi anni e la nostra perdita di competitività deriverebbero dalle mancate “riforme strutturali” perorate dal pensiero neoliberista: alleggerire la burocrazia, deregolamentare il mercato del lavoro, abbassare le tasse, fare le privatizzazioni. Il problema vero, spiega la Mazzucato, è un altro: è che lo Stato ha abdicato al ruolo di finanziatore e forza intellettuale per l’innovazione e le tecnologie, di soggetto fondamentale per favorire lo sviluppo economico. Leggiamo le sue parole: “Il problema non sta in un settore pubblico ‘burocratico’ che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere”. Il punto è che non è vero che lo Stato è nemico dell’economia: all’opposto, se non c’è lo Stato non c’è lo sviluppo. Il punto è che non spendiamo troppo ma troppo poco negli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività: capitale umano, istruzione, ricerca, tecnologia. Ed è per questo che la produttività è quasi ferma da vent’anni.
Questa tesi controcorrente è suffragata, nel libro, da numerosi fatti. Prendiamo, per esempio, il simbolo dell’innovazione tecnologica, la Apple. L’iPod, l’iPhone e l’iPad non sarebbero mai stati prodotti senza i soldi che lo Stato americano ha investito nei progetti di ricerca e sviluppo dagli anni Cinquanta fino a ieri, quando l’applicazione artificiale Siri è uscita dai laboratori ed è diventata una società e un prodotto che Steve Jobs ha comprato per una cifra irrisoria rispetto agli investimenti statali destinati al suo sviluppo. Ancora: l’algoritmo Page Rank, sviluppato dalla Stanford University e diventato lo strumento per il successo di Google, è stato finanziato dal Pentagono. Stesso discorso per le nanotecnologie e le biotecnologie, e pure per le energie rinnovabili, come testimoniano i progetti pubblici di ricerca in Cina e in Brasile. Ecco ciò che è sempre rimasto in ombra in tutti questi anni di “pensiero unico”: lo Stato deve pensare in grande e investire in ricerca e formazione perché, nei tempi lunghi, l’intero sistema pubblico-privato se ne avvantaggerà. E’ un ruolo di traino, indirizzo, promozione, spinta che è insostituibile. E che spinge anche il settore privato a investire nella ricerca. Si pensi alla Fiat, che non investe in motori ibridi, meno inquinanti, in Italia ma lo fa negli Stati Uniti, perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. In questo senso gli Usa non sono un modello di mercato ma di Stato attivo, che agisce attraverso investimenti diretti e non solo tramite incentivi o detassazioni. Gli incentivi e le detassazioni tolgono soldi all’innovazione: non a caso storicamente negli Usa gli investimenti sono stati fatti quando le tasse erano più alte.
Se i Paesi europei stanno spendendo non troppo ma troppo poco, allora è chiaro, dice la Mazzucato, che “contro il fiscal compact e l’austerity bisogna fare una battaglia enorme”. E che le “riforme strutturali” di cui parlano il Governo e l’Unione europea non hanno nulla a che fare con quel che serve, cioè gli investimenti.
Certo, non si tratta di tornare al vecchio statalismo, alle Partecipazioni Statali di un tempo. L’Eni e l’Iri ebbero un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando erano pubbliche e guidate da manager di livello. Poi subentrò la gestione diretta dei partiti e delle lobbies, e il sistema smise di funzionare. Ma di istituzioni pubbliche c’è ancora bisogno, a patto che vengano radicalmente riformate e poste sotto la guida dalle migliori esperienze e competenze. Ha ragione, da questo punto di vista, il segretario provinciale della Fiom Cgil Matteo Bellegoni a denunciare, a proposito di Finmeccanica e Oto Melara, “il sistema che ha prodotto per anni corruzione, privilegi, sprechi e ruberie e che sta portando il più forte gruppo industriale italiano al fallimento”. Serve, in Finmeccanica come alle Poste, in Eni come in Enel, una grande iniziativa di recupero di efficienza e qualità. E proprio chi guarda con preoccupazione ai drammatici effetti di impoverimento e dequalificazione del settore pubblico dell’economia ha il dovere della denuncia e della massima incisività propositiva per il cambiamento.
Detto questo, va detto anche che è profondamente sbagliato vendere altre quote di Enel e Eni per fare cassa, come vuole fare il Governo. Entro l’autunno un altro 5% delle due aziende verrà messo sul mercato, e l’azionista pubblico scenderà sotto il 30% mettendo a rischio il controllo azionario. Ma nella situazione in cui è l’Italia -crollo del Pil, esplosione della disoccupazione, desertificazione industriale- è richiesto l’opposto di un ulteriore programma di privatizzazioni: serve cioè un intervento pubblico di grandi dimensioni, un Piano per il lavoro capace di costruire un nuovo modello di sviluppo basato sulla domanda interna e sui consumi collettivi e i beni pubblici. Un’analisi dei risultati raggiunti dalle privatizzazioni precedenti vede drammaticamente peggiorati tutti gli indicatori, per occupazione, produttività, indebitamento, investimenti. Basti pensare a Telecom, che appena privatizzata ha tagliato ricerca e sviluppo e ha bloccato il progetto di banda larga. Ritorno del pubblico o privatizzazioni? Se vogliamo fare la guerra alla disoccupazione non ci sono dubbi su quale sia la risposta giusta: l’intervento pubblico per investimenti e per creare lavoro. Ma la risposta oggi prevalente è purtroppo l’altra. Ciò perché il neoliberismo, di cui la crisi globale ha manifestato il fallimento costituendone una sorta di “autocritica” in diretta, non è affatto in ritirata. Il crack non ha indebolito il dominio della finanza, tant’è che molti corposi interessi si sono riorganizzati alla caccia di inesplorate occasioni di profitto nelle aree in cui fin qui è prevalsa la protezione della responsabilità collettiva, quelle dei servizi pubblici e dei beni comuni. L’austerity deflazionistica e restrittiva nella versione della Merkel è un pilastro del neoliberismo e le privatizzazioni e l’arretramento dello spazio pubblico ne sono al tempo stesso il logico compimento e il movente più autentico.
Il dramma è che, nei fatti, la guerra alla disoccupazione continua a non essere la preoccupazione centrale del Governo italiano e dei Governi europei. Purtroppo né il decreto “Sblocca – Italia” del Governo Renzi, né il piano di investimenti presentato al Parlamento europeo dal neo Presidente della Commissione Juncker rappresentano il “big push”, la grande spinta di cui ci sarebbe bisogno.
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