Salviamo le Alpi di Luni
Città della Spezia – 20 Aprile 2014 – Un tempo le Alpi Apuane avevano un nome che ne esaltava l’aspetto lunare: Lunae montes, o Alpi di Luni, come le chiamava il geografo latino Strabone. E mai nome fu più azzeccato, esaltandone l’aspetto lunare: “quella solennità stupefatta, quel che di sovranamente silenzioso e triste è nelle cose della Luna”, come scrisse Alberto Savinio. Amo tutti i nostri monti, le vette dell’Appennino e quelle dell’Alta Via dei Monti Liguri, ma le emozioni che danno le Alpi di Luni sono uniche: ti prendono, ti catturano, non puoi più lasciarle. Scelgo, per cercare di esprimere questo sentimento, le parole di Fosco Maraini, grande antropologo-esploratore-alpinista-indagatore dell’altrove: “Che sono quei monti? Chiesi molto incuriosito, quasi impaurito. Sono le Alpi Apuane, mi fu spiegato. Ammirai a lungo lo spettacolo inconsueto che mi faceva pensare, non so perché, alla creazione del mondo: terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, color dell’incendio”.
Anche le cave hanno una forma di bellezza. Perversa e terribile, ma pur sempre bellezza. Eppure è sempre più chiaro che l’estrazione selvaggia del marmo sta devastando le Apuane, sezionandole e facendole scomparire pezzo per pezzo. L’ho visto di persona, e mi hanno aiutato a capirlo le prese di posizione delle associazioni ambientaliste ed escursionistiche, il gruppo in rete “Salviamo le Apuane”, gli articoli del mio amico scrittore e musicista Marco Rovelli, il video straordinario di Alberto Grossi “Aut out” (non perdetelo su YouTube). Per questo ho firmato petizioni, marciato “sui sentieri della distruzione”, e oggi scrivo. Per dare il mio piccolo contributo alla difesa dell’anima delle Apuane.
Le cave, circa trecento, di cui una cinquantina in coltivazione, sono sia miniere a cielo aperto sia cave in galleria, che non immaginiamo quanto siano grandi. Due escursionisti di Mangiatrekking, Luigi di Milano e Giancarlo di Parma, hanno realizzato un reportage fotografico impressionante, soprattutto sul “dentro”. I dati sono inquietanti: dalla pesa pubblica della sola città di Carrara sono passati tra 2001 e 2010 50 milioni di tonnellate di marmo, un dato certamente inferiore alla realtà. Ogni anno viene estratta in realtà una quantità di marmo, 9 milioni di tonnellate, pari all’isola Palmaria!
L’effetto si vede bene al passo della Focolaccia, sotto il monte Tambura: negli ultimi anni è stato abbassato di cinquanta metri. E poi: il dissesto idrogeologico, con il risultato delle disastrose alluvioni annuali; l’inquinamento delle sorgenti e delle falde acquifere, con i fiumi, dopo le piogge, invasi dalla marmettola e bianchi come il latte; le polveri e le malattie polmonari dovute alla lavorazione e al trasporto dei marmi.
Ma perché si estrae così tanto? Una legge regionale consente che solo il 25% del marmo estratto sia costituito da blocchi; il 75% sono perciò informi, scaglie che vengono utilizzate nelle industrie farmaceutiche, alimentari (per mangimi), nella colla per piastrelle, nelle creme, nei dentifrici: l’alta percentuale di carbonato di calcio le rende un ottimo sbiancante, e anche lo schermante ideale per materiale radioattivo. Lo spiega bene Giulio Milani, promotore della petizione “Fermiamo la distruzione delle Apuane”, che ha raccolto oltre 10.000 adesioni: “L’emergenza cave nelle Alpi Apuane nasce per il sovrapporsi di due fattori storici: in primis dal processo di impossessamento e di accentramento monopolistico delle cave ai danni della collettività, iniziato fin dalla metà del ‘700 ed esploso nella metà dell’800 con l’affermarsi della produzione industriale. Già nei primi del ‘900 l’intero comparto era in mano a una ventina di ditte, una concentrazione che si sarebbe consolidata fino al fascismo e che sarebbe stata ereditata prima dall’Eni, poi dal gruppo Ferruzzi e oggi dalle multinazionali. Questo processo si è coniugato, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con le progredite tecniche estrattive e il nuovo business del carbonato di calcio, che giustifica di per sé l’aggressione piratesca alla montagna”. Per produrre le scaglie basta una macchina con due addetti, tant’è che l’occupazione è diminuita drasticamente. Non solo, tutto il prodotto lo si porta via, sia il marmo che il carbonato: nemmeno una filiera produttiva esiste più in terra apuana. “Colonialismo, quale altro nome dare a questo processo?”, si chiede giustamente Marco Rovelli. E pensare che le cave a Carrara erano -e sarebbero- di tutti. Erano beni comuni, poi accaparrati dai privati (le usurpazioni, come le leggi stesse le chiamavano): fu questa, spiega Marco, una delle ragioni del fiorire dell’anarchismo apuano.
Qualcosa, per fortuna, sì è mosso anche a livello istituzionale: la Giunta regionale ha approvato recentemente il Piano Paesaggistico, che deve essere approvato dal Consiglio. Relativamente alle cave il Piano prevede la “progressiva riduzione delle attività estrattive a favore di funzioni coerenti con i valori e le potenzialità del sistema territoriale interessato” e il “recupero paesaggistico delle cave dismesse”, “escludendo l’apertura di nuovi siti estrattivi e ampliamenti di quelli esistenti nelle aree ove le attività di coltivazione e quelle a esse collegate possono compromettere la conservazione e la percezione dei siti”. Il Piano prevede il contemporaneo avvio di un programma di riconversione e di riqualificazione economica sostenibile dell’area. Un passo avanti verso la civiltà, che abbisogna di essere non solo approvato ma anche accompagnato, come scrive Franca Leverotti su www.eddyburg.it, da una nuova legge regionale sulle cave e da un nuovo Piano del Parco Regionale delle Alpi Apuane. Obbiettivi difficili, se si pensa alle dure opposizioni al Piano Paesaggistico da parte della lobby degli industriali del marmo ma anche del Presidente del Parco e dei Sindaci dei Comuni “estrattivi”.
Ma guai ad arrendersi: le Alpi di Luni appartengono all’umanità. Hanno parlato a Michelangelo e ad artisti provenienti da tutto il mondo. La scorsa estate sono stato al rifugio di Campocecina, in occasione di un weekend con il poeta Cheyenne Lance Henson, il più grande poeta nativo americano vivente. Gira il pianeta nelle sue aree più conflittuali, a rischio di estinzione, con le sue poesie che parlano di furti di terre comuni e di inquinamento delle acque. E’ un combattente per l’identità culturale dei popoli e dei luoghi. Ecco la questione: dobbiamo difendere l’identità culturale, l’anima delle Apuane e delle sue genti.
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