Riflessioni sui giovani e sui vecchi
Città della Spezia, 6 dicembre 2015 – All’Equatore fa buio presto, già alle cinque del pomeriggio. Le serate a Sao Tomè, specialmente quelle da giugno a ottobre, rese miti dal vento fresco della “gravana”, si prestano alla lettura, magari con la candela quando va via la luce. Non ci sono internet, la televisione, i quotidiani a distrarti. Ti resta, oltre naturalmente a quella degli amici, la compagnia dei buoni libri.
A Sao Tomè ho letto libri sulla Resistenza, e lì ho pensato e in parte scritto “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945”, che presenterò venerdì prossimo (alle 17 al Centro Allende: invito tutti gli interessati!). Non ho letto saggi storici ma romanzi. Mi hanno molto colpito Il tempo migliore della nostra vita di Antonio Scurati e L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni. In entrambi la Storia si intreccia con le storie. Nel primo le vicende di grandi figure -come quella di Leone Ginzburg, ebreo, apolide, azionista, antifascista e cofondatore dell’Einaudi, che morì nel ’44 in un carcere fascista- vengono raccontate insieme a quelle di persone comuni, e la parabola di Ginzburg si allaccia e stringe idealmente a quella dei nonni dell’autore. Il secondo libro è molto più complesso: l’autore è un uomo di sinistra, ex musicista dei Cccp e Csi, che scava sulla morte del nonno fascista per mano partigiana. Ci sono Togliatti e i sette fratelli Cervi e soprattutto tante piccole storie di persone, di oppressi e di oppressori, in un racconto che è una sorta di piccolo trattato di antropologia emiliana. Inoltre ho letto Eravamo come voi di Marco Rovelli -anche lui scrittore-musicista- che racconta storie di ragazzi partigiani. Leggendo questi testi, diversi tra loro ma con un filo comune, mi si è rafforzata un’opinione, che è diventata la base del mio libro: per tener viva la memoria e per trasmettere l’eredità politica e morale della Resistenza in un’epoca totalmente mutata, è da qui, da questi giovani, dalle persone, dalle loro testimonianze, dalle loro scelte di vita, dalla loro etica, che si deve ripartire. A Marco Rovelli il nostro Luigi Fiori “Fra Diavolo” disse: “Devi raccontarle, queste cose, che noi eravamo uomini, non eroi! I ragazzi di oggi ci guardano magari con ammirazione, ma dicono che siamo uomini di un altro mondo, gli eroi sono distanti, irraggiungibili, non saremo mai come voi… No! Voi potete essere come noi, perché noi eravamo come voi!”.
ALTRI SARANNO DIMENTICATI, NON INGRAO
A Sao Tomè mi ha raggiunto la notizia della scomparsa di Pietro Ingrao. Non inattesa, perché aveva 100 anni, però sempre dolorosa. L’ho ricordato subito, scrivendo di lui la notte stessa (Con Ingrao se ne va la politica del Novecento, in “Città della Spezia”, 28 settembre 2015). Il caso ha voluto che avessi con me alcune sue opere e che le stessi rileggendo proprio in quei giorni. Anche Ingrao mi ha portato a riflettere sulla Storia e sulle storie. Dopotutto l’Italia ha una Storia, una grande Storia fatta di idee, di lotte e di passioni, e tante storie di comunità, di persone che hanno cercato la libertà, l’emancipazione del lavoro, la liberazione dell’uomo e della donna dalle paure e dai dogmi. Oggi, in un passaggio molto difficile della vita del Paese e del mondo intero, torniamo a porci grandi domande, a esprimere un bisogno insopprimibile di nuovi significati della vita: rileggere Ingrao certamente non ci dà tutte le risposte, però ci fa sentire la mancanza di uomini che pensano e guardano lontano. Con il “vecchio Pietro” ho vissuto soprattutto gli anni della sofferenza: la fine del Pci, un mondo di affetti e di fiducia dove ero cresciuto come in una grande famiglia. A differenza di lui, io pensai, in quegli anni, che fosse possibile una trasformazione “socialista” del Pci: alla sofferenza univo cioè una speranza. Ma mi illudevo. Alla fine ci ritrovammo entrambi critici dell’esito “neoliberale” delle formazioni politiche nate dallo scioglimento del Pci.
In Africa ho letto e apprezzato l’intervento di Luca Basile Ingrao, intellettuale lucido e appassionato (“Il Secolo XIX”, 6 ottobre 2015), in particolare il suo interesse per il lavoro di “esplorazione” di Ingrao “all’affacciarsi della lunga egemonia neoliberista”. Ma vorrei dire a Luca che quella fu una cesura epocale, che va affrontata senza alcuna reticenza, come ha fatto Alfredo Reichlin, dirigente del Pci e fondatore del Pd, nel suo intervento ai funerali di Ingrao: la sinistra italiana -ha detto- fu travolta dalla globalizzazione neoliberista. Perché pensava che portasse maggiore ricchezza, che diminuisse le diseguaglianze e offrisse più possibilità al futuro delle persone. E’ stata, invece, un grande inganno, che ha portato alla grande crisi che stiamo vivendo e alla progressiva diminuzione del ruolo della politica a favore dell’economia. La vicenda dei gruppi dirigenti postcomunisti dall’89 a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla globalizzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato; e che ciò ha portato alla progressiva mutazione genetica dei partiti nati dallo scioglimento del Pci e ha perciò stesso contribuito a dare stabilità all’egemonia culturale della destra e a segnare gravi regressi sul terreno delle conquiste democratiche e sociali. Come ha detto Reichlin, chi ha diretto in questi anni la sinistra italiana non ha saputo custodire la sua Storia e le sue storie. Fino ad arrivare all’odierno Pd, partito pastrocchio e approdo naturale di Verdini e Barani.
Nel passaggio storico degli anni Ottanta Ingrao invocò una revisione profonda delle idee della sinistra e al tempo stesso ribadì l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa, contro ogni omologazione della sinistra alla destra. Non ci ha dato, ripeto, tutte le risposte ma ci ha detto alcune cose fondamentali: che la politica non si può ridurre a mercato e a lotta per il potere personale; che è impossibile proseguire in un modello di sviluppo che distrugge l’ambiente, aumenta le diseguaglianze e porta alla guerra. Le sue idee rimangono come un segno di speranza. Ha perso chi credeva che il neoliberismo fosse la conclusione della storia e che non ci fosse altra possibilità che lavorare entro i suoi margini. Oggi contro il neoliberismo si viene levando la voce anche di un Papa, ma non di una sinistra che si è smarrita. Certo, anche Ingrao ha perso. Un ciclo politico della sinistra è finito per sempre, servono nuove analisi e nuove forze. Ma dentro questa sconfitta generale altri saranno dimenticati, non Ingrao.
HA VINTO L’IDEOLOGIA NEOLIBERALE
Appena rientrato in Italia, sono rimasto molto colpito dalla scomparsa di un altro “grande vecchio” della sinistra italiana, Luciano Gallino. Non un politico, ma un sociologo e un economista; non un comunista, ma un uomo formatosi nella fabbrica di Ivrea che doveva il suo nome a Adriano Olivetti. Nei suoi libri e nei suoi interventi (molti lettori lo ricorderanno come editorialista della “Repubblica”, io ebbi la fortuna di conoscerlo grazie al suo rapporto con l’Associazione Culturale Mediterraneo) Gallino ha sempre lavorato per comprendere e far conoscere i meccanismi che regolano quello che lui chiamava il “finanzcapitalismo”, e per tracciare la strada di un suo superamento. Era un “riformista radicale”, nel senso vero e profondo del termine, convinto cioè che per proporre dei cambiamenti bisogna andare alla radice delle ragioni per cui si accrescono le diseguaglianze, le ingiustizie sociali, la distruzione della natura. Nella sua ultima intervista (Abbiamo perso. Ha vinto l’ideologia neoliberale, in “Micromega”, 24 ottobre 2015) il giudizio di Gallino è netto, crudo e pessimista, così come nel suo ultimo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi: a partire dagli anni Ottanta abbiamo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali, l’idea di eguaglianza e quella di pensiero critico, che sono state sconfitte dall’ideologia neoliberale. E tuttavia il quadro non è immutabile: “La via d’uscita è il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico. Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità. E, soprattutto per i giovani, utilizzerò un vecchio messaggio… studiate, studiate, studiate.”
NO ALLA RETORICA DELLA GIOVENTU’
I partigiani erano giovani ragazzi che volevano cambiare il mondo, e molti di loro hanno continuato a battersi fino alla vecchiaia. Ingrao e Gallino sono stati, da ragazzi e poi fino all’ultimo, combattenti impavidi contro le ingiustizie: un politico e un intellettuale che non si sono mai accontentati del mondo così com’è e si sono sempre interrogati su un “altro mondo possibile”. Vuol dire che l’anagrafe non è garante di nulla. Insomma, l’essere giovani non è una patente di intelligenza e di coraggio morale e intellettuale. Abbiamo un Presidente del Consiglio “giovane”, che si è fatto largo all’insegna del “largo ai giovani”. Ma le sue idee e le sue politiche sono vecchie: ha imposto le ricette neoliberiste di sempre, che ci hanno portato a quella che Gallino chiamava la “doppia crisi”, economica ed ecologica. L’ha fatto con energia giovanile, ma ha trasformato la gioventù in propaganda. Una cosa è certa: abbiamo bisogno di nuove idee e politiche, di nuovi dubbi e analisi. Abbiamo bisogno di nuovi giovani come Ingrao, come Gallino, come i partigiani di settant’anni fa.
Post scriptum
A proposito di “grandi vecchi”, se ne è andato, pochi giorni fa, anche Gabriele Ferzetti, attore di grande classe, da La lunga notte del ’43 di Vancini a L’avventura di Antonioni, da La Bibbia di Houston a A ciascuno il suo di Petri, da Grazie zia di Samperi a C’era una volta in America di Leone… Pochi sanno che fu partigiano nei nostri monti, nella Brigata garibaldina “Ugo Muccini”. In un’intervista a “Film Doc” racconta: “Ero partito da Genova per raggiungere l’ospedale della Marina Militare a Pontremoli, ma non ci arrivai, scesi a Bagnone…”. Poi apre la mappa della Lunigiana e muove le dita su e giù per montagne e sentieri, alla ricerca di luoghi, battaglie, volti… E ricorda il suo comandante “Federico” (Piero Galantini). Peccato che a Sarzana nessuno l’abbia ricordato. Eppure è in tutti i libri di storia.
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