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Riconvertiamo l’economia spezzina

a cura di in data 28 Maggio 2016 – 08:58
Sao Tomè, Neves, i pescatori    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Neves, i pescatori
2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 22 maggio 2016 – Qualche giorno fa ho partecipato, su invito dell’amico Paolo Garbini, coordinatore provinciale della Lega delle Cooperative, a un incontro sulle “cooperative di comunità”. Quando ero ancora in Africa ho letto, sempre grazie a Paolo, il documento della Lega “Il valore della cooperazione in un nuovo modello di sviluppo”, presentato in un convegno tenutosi adaprile. Devo dire che in entrambe le occasioni ho registrato quello “sguardo lungo” di “riconversione sociale e ambientale” delle basi dell’economia provinciale, che è il solo capace di farci uscire dalla nostra crisi. E che è pressoché assente, purtroppo, negli altri attori locali, sia sociali che istituzionali.
Eppure i dati dell’economia spezzina sono drammatici, e imporrebbero a tutti di uscire dal solito tran tran e dalla pigrizia mentale dominante: le imprese attive continuano a diminuire, le costruzioni e il manifatturiero sono in vere e proprie crisi strutturali, artigianato e commercio sono in calo, l’imprenditoria femminile e quella giovanile sono al palo, le start up innovative si contano sulle dita di una mano, la dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile sono le più alte del nord ovest… Che altro si aspetta per progettare la “riconversione”?Il documento della Lega è importante innanzitutto perché ripropone un metodo andato perduto da qualche anno a questa parte: la pianificazione condivisa e il patto tra tutte le forze del territorio. E poi perché compie una svolta negli obbiettivi, in direzione della “riconversione sociale e ambientale” e della produzione di nuovi beni e servizi. Uno sviluppo sostenibile, che passi dalla vecchia economia “lineare” alla nuova economia “circolare”, pensata per potersi rigenerare da sola: un’economia in cui non ci sono prodotti di scarto e in cui le materie vengono costantemente riutilizzate, e che ha come elemento centrale le energie rinnovabili. Un territorio che ha al suo interno tre grandi aziende come Enel, Snam e Saras dovrebbe puntare tutto proprio sulla “riconversione” e sull’economia circolare, mentre oggi vige l’incertezza, o restano in campo progetti della vecchia economia. Nel nuovo modello di sviluppo della provincia spezzina ci sono poi altri assi portanti: la lotta “programmata” al dissesto idrogeologico, collegata al turismo e alle bioproduzioni agricole; la “riconversione” delle aree inutilizzate in Arsenale a fini turistici (altro che ritorno delle demolizioni navali!); la nautica da diporto, pensata anche come nautica per i residenti; lo sviluppo, di cui non si parla più, delle attività retroportuali di manipolazione delle merci che si trovano nei container; la “riconversione” sociale, cioè un nuovo welfare da costruire con maggiori risorse pubbliche e con nuove risorse provenienti dal mutualismo.

In questo modello di sviluppo le “cooperative di comunità” hanno un ruolo chiave. In provincia ci sono numerosi centri di dimensioni ridotte, spesso collocati in contesti territoriali disagiati, con difficoltà di accesso e di collegamento con le reti infrastrutturali e di servizi appannaggio della città.

Sao Tomè, Neves, panni ad asciugare sulla spiaggia    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Neves, panni ad asciugare sulla spiaggia
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Per queste realtà, dove il vincolo della sostenibilità economica pone già a serio rischio la sopravvivenza di servizi essenziali e tantomeno li rende attrattivi per un intervento privato rispondente a una logica di mero profitto, diventa sempre più realistico il rischio di un deterioramento complessivo delle condizioni di vita, con il conseguente ulteriore spopolamento di parti significative del territorio. Una risposta efficace può venire dal protagonismo dei cittadini, per dare risposte ai bisogni comuni, creare occasioni di lavoro per i giovani e mantenere vive e valorizzare le potenzialità di sviluppo locale. Le“cooperative di comunità” si propongono come una infrastruttura sociale diffusa: sono persone che -lo stanno cominciando a fare a Levanto e in bassa Val di Vara-si organizzano in forma partecipativa e mutualistica per affrontare e risolvere i problemi e i bisogni della loro collettività, come fornitori di servizi, come utenti, come soci. Lo hanno già fatto, vicino a noi, i cittadini di Cerreto Alpi, riuniti nella cooperativa “I Briganti di Cerreto”. Gli esempi di possibili attività delle “cooperative di comunità” sono davvero tanti: possono provvedere a bisogni di categorie svantaggiate, dagli anziani ai disabili, con la cura o la consegna a domicilio di spesa o farmaci; realizzare il mantenimento di servizi turistici laddove non esistano o siano state chiuse le Pro Loco; sviluppare il recupero di beni ambientali e artistici; gestire servizi pubblici locali o di rete cessati o a rischio per bassi volumi di attività come servizi comunali, postali, o sociali di supporto ad attività scolastiche e di trasporto locale; favorire il ritorno all’agricoltura; incentivare le energie rinnovabili e l’efficientamento energetico, e così via.

Il fascino delle “cooperative di comunità” è duplice: accennano infatti non solo a un’altra economia, ma anche a un’altra società, in cui la vita sociale si struttura esercitando quella universale facoltà umana che è la facoltà di ricevere e di donare intessendo relazioni interpersonali non caratterizzate dal mercatismo e dal privatismo. Sono semi che progressivamente scardinano il pensiero dominante e spingono a un’economia e a una società in cui ognuno è partecipe della vita di una comunità non solo mediante ciò che fa per sé, ma anche tramite ciò che gli altri fanno per lui o per lei. In ogni caso l’azione delle “cooperative di comunità” contribuisce al bene comune.

Sono esperienze e pratiche in cui hanno un ruolo decisivo il cambiamento degli stili di vita personali e la rigenerazione della democrazia, secondo le indicazioni che incontriamo in molti pensatori, dal nostro Adriano Olivetti all’economista austriaco Christian Felber, l’autore di “L’economia del bene comune”. Come spiega Roberto Mancini nel suo “Trasformare l’economia”, si tratta di linee di intervento tutt’altro che irrealizzabili. Il problema è che è difficile cambiare filosofia quando anzitutto non se ne ha una, se non il conformismo verso il pensiero unico neoliberista. “La diffusa tesi della presunta impraticabilità dell’alternativa al sistema attuale, che comporta la tendenza per cui quasi tutti in politica si dicono riformisti, deriva -scrive Mancini- in molti casi dall’ignoranza, dalla superficialità, dalla povertà culturale, dalla disabitudine al pensiero”. Cambiare è però possibile: ma “soltanto a seguito del sopraggiungere di venti nuovi e impetuosi nell’opinione pubblica”. Il che rimanda ciascuno di noi “al dovere della comprensione etica delle cose”.

Post scriptum
Su questi temi ho scritto molto in questi anni; cito solo alcuni articoli:
“Tecnologie e solidarietà per ripartire”, La Repubblica – Il Lavoro, 24 novembre 2011
“Qualche proposta per rilanciare l’economia provinciale”, in questa rubrica, 25 agosto 2013
“Lavoro, cercare strade nuove”, in questa rubrica, 2 marzo 2014
“Per superare la crisi idee e sfide nuove”, Il Secolo XIX, 22 giugno 2014

lucidellacitta2011@gmail.com

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