Riconsegnare dignità al lavoro e alla politica
A otto mesi dall’insediamento del Governo Monti bisognerebbe chiedersi: l’economia italiana sta meglio o peggio? L’economista Guido Viale risponde così: “Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio; ma siamo ripagati in termini di migliori prospettive? Abbiamo subito un decreto Salvitalia, ma, usando gli indicatori di chi ci governa, spread e rapporti debito/Pil e deficit/Pil, il Paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro. Abbiamo subito due decreti per la crescita -il terzo è in arrivo- che hanno massacrato servizi, pensioni e lavoratori del privato e del pubblico impiego; ma, a parte le cifre sparate a suo tempo dal premier tecnico (Pil + 11%; salari + 12%; consumi + 8; occupazione + 8; investimenti + 18), ci stiamo avvicinando -per usare la sua metafora- più alla Grecia che alla Germania”. La verità è che otto mesi fa era in bilico un ristretto numero di Stati europei, mentre oggi in bilico c’è l’intera costruzione dell’Unione europea, senza che si intravveda una svolta: l’Europa neoliberista, fondata sul libero mercato e sulla finanza, ci ha precipitati in questa crisi e non è capace di uscirne. Una volta Giulio Andreotti, che se ne intendeva, disse che “non si governa contro i metalmeccanici”. Oggi, invece, dopo aver dismesso o quasi le fabbriche, non si governa senza i banchieri e un potere transnazionale che ha imposto un “pensiero unico”, per cui tutto sembra obbligato e senza alternativa: si esce dalla crisi solo colpendo lavoro e diritti.
In realtà l’alternativa c’è. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, la descrive così: “Numerosi esempi storici dimostrano che la politica di risanamento più efficiente consiste nell’affiancare alle misure di riduzione del deficit gli stimoli per una rapida crescita economica… L’efficienza dei mercati deve andare di pari passo con l’offerta di servizi pubblici che il mercato non è in grado di assicurare… L’aspetto forse più inquietante dell’attuale malessere europeo è il fatto che l’impegno democratico è soppiantato dai diktat finanziari, imposti non solo dai leader Ue e dalla Banca centrale europea, ma indirettamente anche dalle agenzie di rating, i cui giudizi sono stati notoriamente fallaci”. Sen cita, a sostegno delle sue tesi, non Karl Marx ma due economisti liberali come John Maynard Keynes e Adam Smith, e propone un “dibattito pubblico partecipato” in cui identificare le riforme giuste, senza distruggere le fondamenta del sistema di giustizia sociale europeo. Obbiettivo sacrosanto ma molto difficile, perché siamo lontanissimi dall’idea di un’ “Europa democratica e unita” cara ai pionieri dell’Unione europea.
Lo dimostra la drammatica incapacità di creare lavoro. Che deriva dalla mancata comprensione che è giunto il momento di attribuire alla creazione di occupazione un peso, nella politica economica e sociale, non minore di quello attribuito finora al deficit e al debito pubblico. Come fecero dopo la crisi del 1929 -anche in questo caso la citazione non riguarda pericolosi “rivoluzionari”- sia i democratici americani con il New Deal che i socialdemocratici europei. Oggi, come allora, bisognerebbe partire dall’assunto che l’occupazione non è un costo ma un fattore che crea la ricchezza. E progettare nuovi lavori, che diano un futuro ai giovani e migliorino il nostro Paese: green economy e riconversione ecologica dell’industria, consolidamento delle ferrovie locali, ristrutturazione di acquedotti e reti fognarie, restauro dei centri urbani, recupero e cura del patrimonio artistico, fondazione di nuove economie fondate sull’agricoltura di qualità… Mentre invece il “Patto fiscale” previsto dai governi Ue a Bruxelles nel marzo scorso, da pochi giorni approvato dal Parlamento italiano, spinge il nostro Paese a un ventennio di recessione e di miseria sociale, impedendo di destinare alla creazione di occupazione un solo euro.
L’ulteriore prova della condivisione, da parte del Governo Monti, dei paradigmi neoliberisti è poi l’approvazione, anch’essa in Parlamento, del disegno Fornero di riforma del mercato del lavoro. Con l’ambiguo compromesso al ribasso che ha portato al sostanziale svuotamento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori si è chiusa una fase quarantennale all’insegna della garanzia della dignità del lavoro. Prima, con l’art. 18 che prevedeva, in caso di licenziamento arbitrario, la reintegra nel posto di lavoro, il lavoratore poteva esercitare con tranquillità tutti i suoi diritti, perché la legge imponeva al datore di lavoro di giustificare lui, a pena di annullamento, l’eventuale licenziamento. Ora questa norma è sostanzialmente venuta meno e quindi si realizza il disegno di parte imprenditoriale di poter contare su uno strumento sicuro di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento, giustificato o meno. Il Governo, evidentemente consapevole di questo salto all’indietro, ha lavorato per offrire “compensazioni” sul versante della messa sotto controllo del precariato e della riforma degli “ammortizzatori sociali”, quali cassa integrazione, indennità di mobilitazione e di disoccupazione, che -si è detto- la nuova legge avrebbe migliorato. In realtà la legge Fornero, su entrambi i versanti della “compensazione”, ha peggiorato la normativa in vigore. In particolare, non ci sarà più la cassa integrazione straordinaria tradizionale, che per i lavoratori italiani, come ha spiegato il giuslavorista Piergiovanni Alleva, ”ha rappresentato sul piano collettivo una garanzia simile a quella dell’art.18 sul piano individuale”. In passato, fosse stata vigente la legge Fornero, avrebbero chiuso fabbriche come Fiat, Ansaldo, Finmeccanica, che sono riuscite a ristrutturarsi grazie alla cigs. E da noi Fincantieri al Muggiano e Termomeccanica, solo per fare due esempi.
Se pensiamo anche all’art. 8 del dl 138/201 -voluto dal Governo Berlusconi- che ha consentito di derogare ai contratti collettivi mediante contratti aziendali, e all’offensiva di Marchionne per tornare a una condizione del lavoro senza diritti nelle fabbriche Fiat, il cerchio si chiude: si sta prefigurando un nuovo assetto del Paese, fondato sulla precarizzazione, sull’abolizione dei contratti, sulla libertà di licenziamento, sull’aumento delle diseguaglianze sociali e, con la spending review, sulla distruzione dello Stato sociale e sulla crescita di tutte le forme assicurative e previdenziali private (cioè del sistema creditizio). Un processo di americanizzazione delle relazioni sociali, sempre più improntate alla concorrenza e alla lotta per la sopravvivenza, che ci riporta negli anni ’50, se non a prima ancora. Si stanno azzerando, infatti, tutte le conquiste ottenute in sessant’anni di lotte costruite intorno ai principi della solidarietà e del mutuo soccorso.
La risposta, da parte della nostra sinistra smarrita, non può che essere quella di rimettere il lavoro al centro. E’ difficile, ma non impossibile. Marchionne, per esempio, pensava di aver spezzato le reni ai “ribelli” della Fiom impedendo loro il diritto di essere assunti nella nuova società di Pomigliano (nuova solo per mettere fuori il sindacato di Landini). Ma la dignità operaia e una sentenza della magistratura glielo hanno impedito: i lavoratori iscritti alla Fiom dovranno essere assunti. Marchionne dovrebbe capire che la determinazione, la voglia di lavorare e di lavorare bene di queste persone farebbero funzionare meglio le sue fabbriche. Rimettere il lavoro al centro è poi il modo più efficace per rimettere al centro la politica. Sono, ha scritto Mario Tronti, “le due dimensioni altamente umane che hanno perso di dignità”. Riconsegnare dignità al lavoro e alla politica è, per una sinistra degna di questo nome, la base del programma di governo per il 2013.
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