Raggi di luce in Terrasanta
Città della Spezia, 3 settembre 2017
LA RESISTENZA NONVIOLENTA DI ISSA AMRO
Domenica scorsa ho scritto di Hebron: una città di circa 200.000 abitanti palestinesi, con un gruppo di 800 coloni che occupa posizioni molto fortificate, sorvegliate in permanenza da 650 soldati israeliani. Il simbolo del problema degli insediamenti è Shuhada Street: costituiva la principale strada per i residenti palestinesi, un luogo di commerci e mercato molto attivo nella città. Oggi, poiché Shuhada Street è circondata dall’insediamento colonico, la strada è chiusa al movimento dei palestinesi e si presenta, in pratica, come una strada fantasma, a cui solo gli israeliani e i turisti possono accedere. La foto che vedete in basso l’ho scattata dopo aver avuto, dai soldati, il permesso di entrare: l’amico palestinese che era con me non è potuto entrare. Le forze israeliane chiusero Shuhada Street ai veicoli palestinesi nel 1994, a seguito del massacro di 29 palestinesi, colpiti a morte durante la preghiera nella moschea di Abramo per mano del colono israelo-americano Baruch Goldstein. Poi nel 2000 impedirono anche il passaggio pedonale a tutti i residenti palestinesi di Hebron. Più di un migliaio di proprietari sono stati costretti a chiudere i loro negozi, a causa dei checkpoint e delle chiusure, mentre 15.000 residenti palestinesi sono stati spinti a fuggire dalle loro case del centro. Allo stesso tempo, i coloni illegali si godono la libertà di movimento nelle strade chiuse e sono protetti dalle forze di occupazione.
Issa Amro ha 37 anni e da quattordici è impegnato in una campagna creativa nonviolenta contro l’occupazione. Ha fondato l’associazione “Giovani contro gli insediamenti”, che ha un centro nel quale ogni settimana Amro proietta film ed educa ai principi della nonviolenza decine di ragazzini, coinvolgendoli in progetti di manutenzione delle strade, delle scalinate, delle tubature d’acqua. Ha organizzato un campo estivo e un giardino d’infanzia. Nel 2010 le Nazioni Unite lo hanno insignito del premio “Difensore dell’anno dei diritti umani in Palestina”. Nonostante tutto questo, o meglio proprio per tutto questo, Amro a ottobre sarà processato da un tribunale militare israeliano per “incitamento alla violenza”. In realtà Amro e gli altri giovani dell’associazione si limitarono, negli episodi incriminati, a gridare slogan contro l’occupazione: “Se sarà condannato, considereremo Issa Amro un prigioniero di coscienza”, sostiene Amnesty International. In una dichiarazione, Michel Forst , il referente speciale per le Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, e Michael Lynk, il referente speciale sui territori palestinesi occupati, hanno detto: “Se il tribunale militare israeliano condanna Amro su una qualsiasi delle accuse contro di lui, le condanne saranno inficiate da ragionevoli dubbi sulla capacità del sistema di assicurare la giustizia”. I due hanno anche sollevato preoccupazioni sul sistema del tribunale militare israeliano, cui sono soggetti tutti i palestinesi nella West Bank, che non rispetta molti degli standard internazionali sul giusto processo richiesti dalla legge internazionale dei diritti umani e umanitaria. Il tasso di condanne sotto tale sistema è più del 99 per cento. I due esperti dell’Onu hanno poi sottolineato che Amro e altri difensori palestinesi dei diritti umani hanno affrontato una lunga scia di molestie, intimidazioni, trattamento discriminatorio e interferenza fisica dall’esercito israeliano e da gruppi di coloni, e che il lavoro non violento dei difensori dei diritti umani non deve essere disturbato e attaccato dalle autorità, anche sotto una occupazione militare. “I loro diritti alla libertà di espressione e di riunione devono essere rispettati e protetti“, hanno concluso. Ma se Israele perseguita organizzatori comunitari come Amro, alla gioventù palestinese quale altro modello resta per reagire alla disperazione? Speriamo che questo raggio di luce non sia oscurato. E battiamoci per questo.
ATALYA, L’ISRAELIANA CHE RIFIUTA LE ARMI
Atalya Ben-Abba ha vent’anni. E’ nata e vive a Gerusalemme ovest, la parte israeliana della città. Atalya si è rifiutata di entrare nell’esercito israeliano e per questo è stata processata e condannata, nei mesi scorsi, alla detenzione militare. E’ una refusenik: per il suo Paese è una traditrice, perché entrare nell’esercito è un obbligo civile. Un refusenik, Omri Evron, fu invitato alla Spezia dal Comitato Dialoghi di Pace in Medio Oriente il 13 febbraio 2009 (si veda il resoconto dell’incontro in www.associazioneculturalemediterraneo.com). Questo è il racconto di Atalya, raccolto da Simone Pieranni sul “Manifesto”:
“Io sono cresciuta nel quartiere di Musrara, al confine tra Gerusalemme ovest ed est, a cavallo tra due mondi completamente diversi… A est è Palestina, da piccola quando passavo con mia madre mi sembrava di essere in un Paese diverso: demolizioni, scheletri delle case, soldati dappertutto… Ricordo l’uccisione del guardiano della mia scuola, che era palestinese… Anche grazie alla mia scuola, ho trascorso la mia infanzia nel rispetto dell’’altra parte’… Molti miei coetanei vivono nella costante ‘paura’ dell’altro, come fossero mostri. A undici anni ho cambiato scuola e per la prima volta ho incontrato ragazzi della mia età che vivevano una vita completamente pervasa dal sentimento dell’odio nei confronti dei palestinesi… Quando avevo dodici anni mio fratello decise di non entrare nell’esercito: si è trattato di un fatto molto scioccante per me, perché mi sono trovata di fronte a una scelta clamorosa… Quando mio fratello ha nominato quella parola, ‘occupazione’, è stata la prima volta che l’ho ascoltata. In Israele non la chiamano così, parlano di una ‘guerra’. E’ una delle grandi bugie che circolano in Israele. Non siamo in guerra, non si tratta di uno scontro tra due eserciti, non combattiamo altri soldati. Si tratta di civili che combattono contro gli occupanti… In Israele a un certo punto devi fare una specie di training, di avvicinamento a tutto quanto è militare… A 17 anni avere a che fare con armi e violenza mi pare assurdo. E’ all’interno di questa situazione straniante che ho capito che quello non sarebbe stato il mio mondo, che non avrei fatto il soldato e che avrei fatto l’attivista. Si tratta di una scelta che ti condiziona tutta la vita… Perché tutta la vita sociale e lavorativa ruota intorno a questa decisione… La nostra vita è da outsider”.
GAZA, APRE LA PRIMA BIBLIOTECA PUBBLICA
Il sogno di Mosab Abu Toha, di professione scrittore, si è avverato. Tra un paio di settimane a Beit Lahia, nella parte nord della Striscia di Gaza, sarà inaugurata una biblioteca pubblica che diventerà un punto di riferimento per chi vuole leggere un libro e un luogo di aggregazione dove incontrarsi e socializzare. Si chiamerà “Edward Said Public Library”, dal nome del grande intellettuale palestinese. Dopo i bombardamenti israeliani del 2014 pressoché nulla è stato ricostruito, tanto meno i luoghi destinati alle attività culturali. Le poche biblioteche che esistono sono quelle delle Università. “La gente -spiega Mosab a Giovanni Vigna su “Contro la crisi”- potrà prendere a prestito i libri, assistere alle conferenze e alle lezioni che proporremo. Stiamo pensando anche di proiettare documentari e film. Sarà qualcosa di più di una semplice biblioteca”. I volumi che occupano gli scaffali sono stati spediti dall’estero nella Striscia da chi, dopo aver appreso dell’iniziativa del giovane palestinese sui media di tutto il mondo (il primo articolo è stato pubblicato da “Nena News”), ha deciso di sostenere concretamente il progetto.
Grazie ai 10mila dollari che ha raccolto, lo scrittore palestinese ha affittato per un anno un locale con due stanze acquistando scaffali, armadi, sedie, tavoli e scrivanie: “Avrei voluto uno spazio più grande ma non è stato possibile. Con questo denaro pagherò lo stipendio di un bibliotecario ma servono ulteriori fondi per coprire i costi operativi e magari assumere un altro dipendente. Avrò bisogno anche di due computer”.
Mosab Abu Toha, presente su Facebook come Mosab Mostafa, ha aperto una pagina sul social network per promuovere il progetto: “Voglio dare vita a una biblioteca pubblica nella quale tutti gli abitanti di Gaza possano sedersi e leggere libri in un’atmosfera di pace e tranquillità. Di solito la gente trascorre il proprio tempo libero nei caffè. Molte persone preferirebbero avere un posto dove leggere e migliorare il proprio livello di istruzione, piuttosto che passare il tempo chiacchierando e giocando a carte”. Abu Toha rivolge un appello a chi fosse interessato a sostenere il progetto. L’indirizzo al quale inviare i libri è il seguente: Mosab Abu Toha, Omar Almokhtar St., Gaza – Palestine, Israel, zip code 00972. Il numero telefonico è 00972592213114. L’email è bookshopforgaza@gmail.com. Sulla pagina Facebook “Library & Bookshop For Gaza” è possibile contattare Mosab, che accetta sia libri nuovi che libri usati, ovviamente purché siano in buone condizioni. Abu Toha ha bisogno di tanti sostenitori e di una struttura organizzata che promuova il progetto fuori dai confini di Gaza. Mosab rassicura i donatori sul fatto che i pacchi spediti dall’estero arriveranno a destinazione: “Ho ricevuto donazioni da diverse parti del mondo. La merce passa attraverso il valico israeliano”. Abu Toha ha le idee chiare sulla necessità di diffondere la cultura: “Penso che leggere contribuisca a rendere le persone più umane, pacifiche, intelligenti e di ampie vedute”.
LA MAESTRA MIGLIORE DEL MONDO
Hanan Al Hroub, 44 anni e cinque figli, maestra elementare nel campo profughi palestinese di Betlemme, ha vinto l’anno scorso il Premio Nobel dei professori, “The Global teacher Prize”, indetto dalla Varkey Foundation. E’ la miglior docente del mondo dopo aver battuto altri ottomila candidati. Tutto cominciò molti anni fa: suo marito fu ferito a colpi di fucile dai soldati israeliani mentre tornava a casa con i figli. I bambini assistettero impotenti, lo videro a terra, coperto di sangue. Rimasero scioccati, non riuscivano più a studiare, a uscire di casa. Era già difficile prima, tra check point e arresti… Hanan decise di lasciare l’Università e di diventare la loro maestra. “Ho cercato di riavvicinarli allo studio con il gioco -racconta- e, giorno dopo giorno, anche i compagni di scuola hanno cominciato a venire da noi. Imparavano divertendosi. Decidere di insegnare in una vera classe è stato il passaggio successivo”. Queste le sue parole di commentò al premio: “Sono nata e cresciuta in un campo profughi tra violenza, soprusi e tensione quotidiana. Non ho avuto una vera infanzia e invece vorrei che i nostri figli, che tutti i bambini del mondo, potessero ridere, giocare, imparare e convivere in un clima sereno. Sono diventata insegnante per crescere una generazione che sappia vivere in pace… Le nostre armi sono solo l’educazione e l’istruzione. Con quelle possiamo cambiare il mondo, farlo diventare un luogo più giusto e pacifico… A noi palestinesi hanno portato via la terra perché eravamo ignoranti, ma le cose cambieranno. Come dice il verso di un poeta palestinese ‘Nel corso del tempo potremo magari fare cose da prigionieri, ma stiamo educando la speranza’”.
SESAME: LA RICERCA E LA CULTURA STRUMENTI DI DIALOGO
Ad Allan, a trenta km dalla capitale della Giordania Amman, scienziati provenienti da Paesi in conflitto tra loro come Israele, Palestina, Iran, Turchia, Pakistan, Bahrain, Cipro e Giordania, hanno dato vita al primo grande centro di ricerca scientifica mediorientale. Si chiama Sesame, sigla di “Synctroton-light for Experimental Science and Applications in Middle East”: è un acceleratore di particelle simile a quello più celebre del Cern di Ginevra, un anello lungo 133 metri in cui gli elettroni vengono accelerati fin quasi alla velocità della luce. La radiazione che si ottiene in questo modo funziona come un potentissimo microscopio che permette di studiare strutture infinitamente piccole, come quelle di cellule, proteine e nanomateriali. Le applicazioni riguardano numerosi ambiti: dall’archeologia alla biologia, dalla chimica alla fisica, alla medicina. Nel mondo esistono sessanta strutture simili, ma nessuna finora in Medio Oriente. E’ un progetto importante dal punto di vista scientifico, ma anche politico e culturale. E la testimonianza, ancora una volta, di come la cultura e la ricerca possano rappresentare un potente strumento di cooperazione e di dialogo tra i popoli.
BRUNO HUSSAR E L’OASI DI PACE
Bruno Hussar era un domenicano egiziano di origini ebraiche e formazione culturale francese. Forse proprio per questo fu capace di essere -secondo la definizione del suo amico cardinal Carlo Maria Martini- “un profeta di riconciliazione e di pace in Israele”. Hussar costruì, su un’arida collina nella valle di Ayalon, una “terra di nessuno” tra Israele e Giordania, l’oasi di pace di Nevè Shalom/Waahat as-Salaam, un luogo dove dal 1974 convivono ebrei, cristiani e musulmani. Già nel 1982 il villaggio -che è diventato meta di sosta per tanti agnostici e persone in ricerca- ospita sette famiglie: quattro ebree, due musulmane, una mista ebraico-cattolica e alcuni membri non sposati. Oggi le famiglie sono sessanta. E’ l’unico posto in Israele in cui bambini arabi ed ebrei sono educati insieme.
RICONOSCERE L’ALTRO
Nei giorni scorsi Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, si è recato a Gaza. Guterres ha insistito ancora sulla realizzazione della soluzione a due Stati attraverso “un processo politico credibile”. Certo, oggi questa soluzione appare irrealistica, anche se non va sottovalutata importanza dell’”arma demografica” posseduta dai palestinesi, di cui ho scritto domenica scorsa. Ma le testimonianze che ho riportato oggi dimostrano che, in una situazione disperata, contano molto, prima di ogni altra cosa, l’impegno sociale e culturale, innanzitutto personale. Bisogna certamente abbattere i muri costruiti da Israele sia in Cisgiordania che a Gaza, così come le barriere tra i palestinesi. Ma bisogna abbattere anche e soprattutto i muri interiori, che impediscono le relazioni tra le persone. Bisogna riconoscersi reciprocamente e cercare sempre di capire l’altro: è il primo, indispensabile passo per la riconciliazione e la pace.
I PROFUGHI E LE VERE TRAGEDIE
Ritorno, alla fine dei tre articoli dedicati a Israele e Palestina, sulla questione affrontata all’inizio del primo articolo: bisogna capire che cosa sono, e che cosa sono stati, il Medio Oriente e l’Africa per capire il mondo di oggi, e il fenomeno dei profughi in particolare. Quanti sono i profughi palestinesi? Innanzitutto: chi sono? Nella definizione ufficiale delle Nazioni Unite sono coloro che al momento del primo conflitto arabo-israeliano del 1948 vivevano già da due anni in Palestina, e che a causa della guerra hanno perduto la propria casa e i mezzi di sostentamento. Questa condizione legittimava a iscriversi, su base volontaria, nei relativi registri dell’Onu, che dal 1950 iniziò a fornire a questi scampati alcuni essenziali servizi sanitari, sociali, scolastici, di formazione professionale e di microcredito. Ma per il conflitto ancora irrisolto, oggi siamo giunti alla quarta generazione di profughi. Le Nazioni Unite sono la fonte più aggiornata dei dati su questo popolo senza dimora, disperso oggi principalmente tra Gaza e la Cisgiordania, la Giordania, il Libano e la Siria, in condizioni di vita molto diverse. Nel primo censimento del 1950 i profughi “ufficiali” erano poco meno di 915.000, attualmente sono oltre 5 milioni. La realtà più amara è quella dei rifugiati che vivono esclusivamente nei campi profughi gestiti dall’Onu, spesso sovraffollati e fatiscenti, in condizioni di grande povertà: sono centinaia di migliaia. Solo in Libano sono 450.000. In Italia i profughi palestinesi sono meno di 1.000.
In Medio Oriente il dramma dei profughi sta crescendo in modo esponenziale da quando è iniziata la guerra in Siria, nel 2011. In Libano si è riversato oltre un milione di persone in fuga che, su 4 milioni e mezzo di abitanti, fa del Libano il Paese con il più alto numero di profughi pro capite. I profughi siriani sono 11,5 milioni, quasi tutti in Libano, Turchia, Egitto, Iraq e Giordania. In Europa sono solo mezzo milione. In Italia pochissimi: 2.500.
Recentemente si è discusso molto dello sgombero violento dei profughi, in gran parte eritrei, da un palazzo romano. In Italia arrivano circa 40.000 profughi eritrei all’anno. In uno dei prossimi articoli cercherò di spiegare bene, con tutti i dati e le informazioni, perché scappano dal loro Paese. Ma anticipo la conclusione: scappano da una delle peggiori dittature del mondo. L’Eritrea è stata una nostra colonia: siamo sicuri di non avere qualche responsabilità?
Insomma: la politica, la cultura, la stampa devono essere razionali, ascoltare le domande dei cittadini e dare risposte argomentate, non ripetere le domande. Ha perfettamente ragione Massimo Cacciari su “Repubblica” di venerdì scorso:
“Prevalgono parole di odio e violenza. Ed è tipico delle grandi crisi di regime. Le orecchie si chiudono, l’ascolto diventa impossibile. Subentra la logica dell’amico/nemico. La crisi non è più in mano di chi governa. Non sottovaluto la situazione. Siamo in un’epoca di trasformazioni radicali che generano paure e disagi. Dico però che la cosiddetta sinistra non fa nulla per contrastare questo clima. La sinistra deve cambiare la comunicazione, bisogna rappresentare la questione immigrati in modo razionale, evidenziare i punti deboli nella gestione, i suoi tempi lunghi, fornire dati economici, spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente. C’è un fenomeno epocale che va governato, con una grande progettualità, con i piani di aiuto ai Paesi di provenienza, con l’Europa che si prende le sue responsabilità. Non è una tragedia se Sesto San Giovanni dovrà accogliere 100 immigrati. La tragedia vera è di quei poveretti che vanno in mare e vengono ricacciati nei lager della Libia. Si è rovesciata totalmente la scala dei valori”.
lucidellacitta2011@gmail.com
Popularity: 3%