Quelle rocce dorate che non conoscono la pace
Città della Spezia – 7 Aprile 2013 – Se chiedete a un arabo palestinese di disegnare la Palestina e a un ebreo israeliano di disegnare Israele, vedrete che i due disegni sicuramente avranno la stessa forma. Perché nel cuore e nella testa di entrambi i popoli le rispettive patrie occupano il medesimo spazio, tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Lo stesso territorio cambia nome a seconda dell’identità di chi lo evoca. Del resto, dove mai potrebbero vivere i palestinesi e gli israeliani se non in quello spazio? Oggi, almeno, è così. Ecco perché il conflitto israelo-palestinese è di difficile soluzione. Ma non di impossibile soluzione. Non dobbiamo dimenticare questo conflitto, perché è alla base di tutti i conflitti. Risuona sempre attuale il Salmo 137: “Se ti dimentico, Gerusalemme, si secchi la mia mano destra”. Gerusalemme, città meravigliosa, affascinante per l’enigma che custodisce, l’essere cioè Città sacra per tutti i credenti in un unico Dio, può trasformarsi in laboratorio di convivenza tra ebrei, musulmani e cristiani? O questo obbiettivo è un mito ormai lontano?
Per fortuna c’è chi non dimentica. A Tunisi, nei giorni scorsi, si è concluso il Forum sociale mondiale: la manifestazione conclusiva è stata dedicata alla Palestina. “Il popolo vuole una Palestina libera”, lo slogan più gridato. E la Palestina è stato il tema dominante di questa grande assise dei movimenti di tutto il mondo, tra cui quelli protagonisti delle primavere arabe.
A Gerusalemme, tra le pietre e le mura bianche della Città sacra, che all’alba e al tramonto assumono straordinari riflessi dorati, è arrivato, nei giorni scorsi, anche il Presidente americano Barack Obama. Ecco le sue parole, rivolte agli studenti israeliani riuniti nel Jerusalem Convention Center: ”Anche il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla giustizia deve essere riconosciuto. Mettetevi nei loro panni, guardate il mondo attraverso i loro occhi: non è giusto che una bambina palestinese non possa crescere in un proprio Stato, e debba convivere con un esercito straniero che ogni singolo giorno controlla i movimenti dei suoi genitori. Non è giusto che la violenza dei coloni contro i palestinesi rimanga impunita. Non è giusto impedire ai palestinesi di coltivare le proprie terre, limitare la possibilità di uno studente a spostarsi all’interno della Cisgiordania, o allontanare le famiglie palestinesi dalle loro case. La risposta non sta nell’occupazione, né nell’espulsione. Così come gli israeliani hanno costruito uno Stato nella loro patria, i palestinesi hanno il diritto di essere un popolo libero nella propria terra”. Verità sgradevoli, che Obama ha ricordato. Durante il suo primo mandato, dimenticando il promettente discorso iniziale del Cairo, il Presidente americano si è piegato di fronte al premier israeliano Benyamin Netanyahu, al suo rifiuto di mettere fine all’espansione delle colonie nei territori palestinesi occupati, così come chiesto dalla Casa Bianca e da larga parte della comunità internazionale. Ora Obama ha rilanciato l’obbiettivo “due popoli, due Stati”, ma non ha presentato un nuovo piano per la coabitazione. Sapeva, del resto, di non trovare un terreno favorevole in Israele. Netanyahu dichiarò nel 2009 di condividere l’idea dei due Stati, ma da allora non si è più espresso a favore di quella soluzione. Anzi, ha sostenuto che Israele non rinuncerà mai all’intera sovranità su Gerusalemme, e questo esclude di fatto i due Stati, perché non può esistere una Palestina senza Gerusalemme est capitale. Nel frattempo le elezioni di gennaio 2013 hanno condotto alla formazione di un Governo che è probabilmente il più a destra nella storia d’Israele, dominato com’è dai rappresentanti dei coloni e degli ebrei askenaziti, originari dell’Europa orientale, laici, ricchi e intransigenti verso i palestinesi. Forze in cui ha preso sempre più corpo l’idea di un unico Stato ebraico bi-nazionale. Per Obama è stato facile spiegare, nel discorso di Gerusalemme, che, “visto l’andamento demografico, l’unico modo in cui Israele può resistere in quanto Stato ebraico e democratico è dato dalla realizzazione di una Palestina indipendente”. Altrimenti i palestinesi diventeranno maggioranza numerica ed elettorale, a meno che Israele non sopprima i loro diritti, come nel Sudafrica dell’apartheid. Ma è proprio l’apartheid l’obbiettivo della destra israeliana.
Ora la grande questione, per Obama, è passare dalle parole ai fatti. Non è semplice, perché gli Stati Uniti non sono mai stati così deboli in Medio Oriente: dopo undici anni di guerra al terrorismo, due disastrose campagne in
Afghanistan e in Iraq, la frammentazione prodotta dalle primavere arabe, l’influenza della Casa Bianca in questa regione è ai minimi storici. Non è semplice, in generale, per un Presidente americano, perché Israele è una sorta di cinquantunesimo Stato degli Stati Uniti. Un beniamino, che ha ricevuto il sostegno finanziario più sostanzioso. Perché è ammirato per le sue vittorie militari e le sue conquiste tecnologiche e culturali, e perché in America, soprattutto nei suoi cittadini ebrei, è forte il senso di colpa per non aver fatto abbastanza per salvare il popolo ebraico dalla Shoah. Obama, finora, non fa eccezione nella serie dei Presidenti americani che hanno capito quale danno rappresentano gli insediamenti dei coloni a una soluzione del conflitto ma non hanno fatto nulla per impedirli. Come dice lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua “fino a quando gli Stati Uniti non abbandoneranno il loro atteggiamento sentimentale nei confronti di Israele non saranno in grado di agire con l’autorità di una superpotenza per far ripartire il processo di pace… Ciò che conta non sono le parole bensì i fatti”.
L’intensificazione degli insediamenti coloniali c’è già stata nel 2012: il 17% in più, più di tutti gli anni precedenti a partire dal 1967. La questione si è aggravata dopo la decisione dell’Onu, il 29 novembre 2012, di riconoscere la Palestina come Stato osservatore. Netanyahu ha accelerato la sera stessa, con quella che un altro scrittore israeliano, David Grossman, ha definito “una reazione prepotente”. Una vendetta, che ha dato il via libera al piano per la “Grande Gerusalemme”: la costruzione di nuovi quartieri ebraici in zone mai appartenute geograficamente e storicamente a Gerusalemme. La Cisgiordania si ritroverà divisa in almeno due cantoni, a nord e a sud, più un terzo a nordovest già schiacciato dalle colonie. Anche ammesso che sorga uno Stato palestinese, i suoi abitanti dovranno passare attraverso fasce di territorio sotto controllo israeliano: una sorta di Palestina fatta a pezzi. Un disegno che prosegue, con cecità storica e morale, una politica avviata dopo la guerra del 1967, che ha creato una situazione coloniale: “la più grande catastrofe nella storia del sionismo”, ha scritto lo storico israeliano Zeev Sternell, perché il sionismo “si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno: ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi, e che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi”. I racconti sarebbero tanti, uno più drammatico dell’altro. Come quello sui bambini di Twani, che da anni, per andare a scuola, devono essere scortati -prima dai volontari internazionali, poi dai militari israeliani- per evitare che vengano aggrediti dai coloni. O quello sugli abitanti di Muqafarah (http://almuqafarah.wordpress.com/), pastori che vivono nelle grotte e nelle tende, cacciati perché l’area è “indispensabile” per l’addestramento delle forze militari. Fino a quello sulla ricollocazione forzata di 30.000 beduini semi-nomadi del deserto del Neghev, strappati dalle loro terre per annientare un’identità e una cultura.
E in Israele? Qualcosa si muove. Gli stessi ambasciatori israeliani si sono ribellati a Netanyahu. E proprio in Israele è stato prodotto un documentario, “The Gatekeepers”, presentato agli Oscar e uscito nelle sale Usa: un’impressionante raccolta di interviste con gli ex capi del Shin Bet (i servizi segreti israeliani) che ammettono il fallimento della politica verso i palestinesi. Ma una sinistra capace di offrire un cambiamento non c’è ancora, mentre c’è una destra violenta, che sta portando Israele al disastro dell’apartheid. Basti pensare alla decisione, nelle scorse settimane, di destinare mezzi pubblici per il trasporto dei soli pendolari palestinesi che hanno il permesso di soggiorno in Israele: gli israeliani continuano a cercare di creare un mondo nel quale i palestinesi non esistono, non si vedono, sono cancellati. E si allarga il fronte integralista di chi vuole il primato della legge ebraica sulle leggi dello Stato.
Resta da dire delle vicende politiche palestinesi. Purtroppo la riconciliazione palestinese, tra Fatah che “governa” la Cisgiordania e Hamas che “governa” Gaza, è ancora un miraggio. A ottobre si è votato per le amministrative in Cisgiordania, ma Hamas ha fatto boicottaggio. E si è rifiutata di indire elezioni analoghe a Gaza. La verità è che, con l’appoggio crescente di alcuni Paesi arabi, Hamas sta creando uno staterello islamico a Gaza. Alcune recenti decisioni sono purtroppo molto indicative: la proibizione alle donne di correre alla maratona internazionale di Gaza, per questo motivo cancellata dall’agenzia Onu per i profughi; il divieto alle donne di andare in moto e di fumare il narghilè nei locali pubblici e l’imposizione del velo e degli abiti lunghi; il divieto agli insegnanti maschi di lavorare in scuole femminili; l’introduzione delle classi separate per genere a partire dall’età di nove anni. E’ il cedimento ai settori più conservatori e alle forze salafite (islamici fondamentalisti). Ma se lo scontro è religioso, se non si separa la religione dalla politica, il compromesso politico è impossibile: è questo il rischio drammatico che si corre. Insomma, sul campo vige ormai la regola “due popoli, tre Stati”. La situazione è quindi difficilissima: non solo perché Israele non dialoga con la Cisgiordania di Abu Mazen e sta andando nella direzione dell’apartheid, ma anche perché Abu Mazen non potrebbe concludere un accordo di pace con Israele senza la partecipazione di Hamas. Il che dovrebbe prevedere anche l’apertura di un corridoio sicuro tra la Cisgiordania e Gaza, realtà oggi separate, per ripristinare l’unità palestinese. Ma la realtà politica palestinese sta andando anch’essa in un’altra direzione.
In questa situazione senza apparente via d’uscita va sollecitato il ruolo, finora del tutto carente, della comunità internazionale: gli Stati Uniti, ma anche l’Unione europea, che in un rapporto del 27 febbraio di quest’anno ha raccomandato agli Stati membri di assumere misure verso Israele per cercare di fermare la colonizzazione. E poi i popoli e la società civile di tutto il mondo, come è avvenuto a Tunisi nei giorni scorsi. Ma sono decisive tutte le iniziative improntate al dialogo tra le persone dei due popoli, al riconoscimento del dolore e delle ragioni dell’altro da sé. Le rocce dorate di Gerusalemme potranno conoscere la pace se cresceranno i piccoli “semi”: come la scuola di Beer Sheva, impegnata a garantire un’educazione pluralista per ragazzi israeliani e arabi-israeliani, o il villaggio di Nevè Shalom – Wahat al Salam, che pratica la convivenza tra i due popoli. O come le tante forme di resistenza non violenta alla confische israeliane di terra palestinese e al “Muro della differenza”, la barriera di separazione che Tel Aviv ha voluto in Cisgiordania: esperienze di lotta che vedono spesso uniti israeliani e palestinesi. Occorre abbattere non solo il Muro di cemento ma anche il muro interiore, e costruire relazioni tra le persone basate sull’umanizzazione, contro la disumanizzazione dominante. Occorre restare umani, come ci disse Vittorio Arrigoni, testimone di pace.
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