Quando il vuoto della politica produce l’antipolitica
Città della Spezia – 2 ottobre 2011 – Sta finendo un’epoca della nostra storia: quella che è stata chiamata Seconda Repubblica. Una stagione in cui l’hanno fatta da padroni leaderismo e populismo, liberismo e privatismo individualistico. Berlusconi tira a campare, ma il suo “modello” non è più egemone nel Paese. I problemi che lascia aperti il berlusconismo sono enormi. Ritorna l’antipolitica, come in ogni fase storica in cui il vecchio muore e il nuovo ha difficoltà a nascere. Alla sua base c’è il distacco tra governanti e governati: la politica come costoso apparato il cui scopo è l’autoconservazione, come organismo che spende il novanta per cento delle proprie energie per sopravvivere (la famosa “autoreferenzialità”) e non si occupa più della vita reale delle persone. La realtà, dunque, è che l’antipolitica alberga nel vuoto della politica: una politica sempre più impoverita produce l’antipolitica. All’origine del malessere italiano c’è l’assenza della politica e dei partiti, non il loro eccesso. Bisogna voltare pagina rispetto alla crisi di un intero sistema, rimettendo al centro il tema del rapporto tra governanti e governati e quindi ricostruendo le forze politiche, di destra e di sinistra. Nel dopoguerra, fino agli anni ‘80 (la Prima Repubblica), abbiamo avuto partiti seri, che incarnavano e veicolavano le idee e le istanze sociali della comunità nazionale. Si esce dalla crisi con partiti che, come allora, sappiano connettersi alla società. Oggi è più facile trovare fermenti e progetti nella società, in rete, nell’associazionismo che non nei partiti. Chi li dirige dovrebbe essere un “rivoluzionario”, che stabilisce un contatto con queste energie e combatte il potere autoreferenziale che regna attorno a lui: un compito tutt’altro che facile!
Pdl e Pd sono chiamati a una sfida probabilmente impossibile: uscire da un sistema politico di cui sono stati i “poli”, per creare una destra e una sinistra nuove, due grandi partiti, uno moderato, l’altro riformatore, che in Italia non ci sono mai stati (non si tratta infatti di tornare alla Dc e al Pci, anche se nelle passioni forti e tragiche del Novecento c’era del buono). Partiti nuovi, che nasceranno probabilmente da un grande big bang, e non da una semplice “manutenzione” dei debolissimi partiti esistenti. Per ciò che riguarda la mia parte, la sinistra, serve un nuovo soggetto politico con una nuova idea di società, che unisca tutte le forze che stanno pagando il prezzo di una crisi devastante. Con un progetto di forza analoga a quello che, nell’altra grande crisi degli anni ’30, seppero avanzare i democratici americani e i socialdemocratici europei.
Insomma: destra e sinistra, per riavere un’influenza e superare il distacco dai governati, dovrebbero abbassare i costi della politica e insieme elevare il discorso pubblico. E’ quello che i cittadini hanno chiesto loro in primavera con il voto per i sindaci e con i referendum: ma questa ventata di speranza è stata irresponsabilmente ignorata.
E a Spezia come se la passano destra e sinistra? Guardiamo al Pd: nei giorni scorsi, su Città della Spezia, Juri Michelucci ha diligentemente risposto al mio articolo “Quali sono gli stipendi da dimezzare” ricordando le proposte del suo partito per ridurre i costi della politica. Tutto giusto, ci mancherebbe, ma purtroppo non dà il senso di ciò che servirebbe: un programma con poche priorità centrali e simboliche di tagli drastici e immediati agli sperperi della politica, anche unilaterali in caso di rifiuto ad accettarli da parte del Pdl. Questa proposta manca perché non si ha il coraggio di uscire dal solco di un partitismo che ritiene intangibili i propri privilegi e che, fuori da questo solco, fa scattare l’anatema contro la demagogia. Su un altro versante, le nomine nel Parco Montemarcello-Magra mettono a nudo le responsabilità di un gruppo dirigente che vive in un circuito chiuso di autonutrizione artificiale, senza capacità di comunicare né, tantomeno, di mettersi in sintonia con quello che c’è “fuori”.
E nel Pdl? Ho sentito finalmente una voce nuova: Maria Grazia Frija propone le primarie e chiede di “evitare le candidature di persone coinvolte in inchieste importanti oppure condannate per reati di particolare gravità”. Sembrerebbe un no alla ricandidatura del leader storico spezzino del Pdl Luigi Grillo (che peraltro è sempre stato eletto fuori dalla Liguria), condannato a due anni e otto mesi per aggiotaggio per la tentata scalata di Antonveneta da parte della Banca Popolare di Lodi. Sia chiaro: vale per tutti la presunzione di innocenza fino all’ultimo grado del processo, ma nel frattempo è bene lasciare gli incarichi pubblici. Vedremo: forse quello della Frija è un piccolo segnale, in un partito che ha sempre difeso a spada tratta inquisiti e condannati. E che ha un capo che nominò ministro della Giustizia un suo avvocato, quel Cesare Previti al quale aveva affidato il compito, in precedenza, di pagare un giudice. E che ha spudoratamente cambiato le leggi a fini personali, per farla franca. Nel silenzio di tutto il suo partito e, fino a qualche giorno fa, dell’establishment italiano.
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