Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Qualche proposta per rilanciare l’economia provinciale

a cura di in data 26 Agosto 2013 – 09:16

La Spezia, il porto mercantile (2011)(foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 25 Agosto 2013 – Il Rapporto sull’economia provinciale 2012 presentato nelle scorse settimane dalla Camera di Commercio è una fotografia davvero allarmante della nostra crisi. Città della Spezia ha pubblicato i dati in dettaglio, qui voglio solo sottolineare i dati drammatici del mercato del lavoro. Gli occupati erano 89.000 nel 2011, 86.000 nel 2012: 3.000 in meno in un solo anno. Sempre dal 2011 al 2012 le persone in cerca di occupazione sono passate da 4.000 a 10.000: 6.000 in un solo anno. Il tasso di occupazione è del 61,1 (era del 64,5% nel 2007); quello di disoccupazione del 10,8% (5% nel 2007). Ma il tasso di disoccupazione giovanile (età 18-29 anni) è del 34,2%, e dal 2010 è aumentato di ben 19 punti. Tutti i nostri dati sono peggiori rispetto a quelli della Liguria e del Nord Ovest, ma quest’ultimo dato è addirittura superiore a quello nazionale.

La crisi spezzina merita una riflessione e un’iniziativa ad hoc, ma non può essere estrapolata dalla crisi nazionale. E’ l’intera economia italiana che è al buio pesto. Roberto Romano, del Forum economisti della Cgil, spiega che per l’Italia, a differenza che per gli altri Paesi, la crisi è peggiore di quella del ’29. Non è solo l’occupazione che continua a scendere, ma anche gli investimenti. Il credito bancario alle imprese, che era sceso di 3 miliardi ad aprile rispetto al mese precedente, è sceso di 4 a maggio e del doppio, – 8, a giugno. L’industria italiana non investe più, le nostre imprese de-industrializzano. La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione fanno dell’Italia un malato davvero particolare.
Che fare, allora? C’è l’urgenza di alcuni provvedimenti a costo zero o basso di cui, purtroppo, nessuno del Governo parla. Li ha proposti l’ex segretario della Cisl Pierre Carniti, e li ha ripresi l’economista Nicola Cacace. Uno di questi riguarda lo straordinario. Oggi un imprenditore, invece di procedere ad assunzioni anche temporanee, preferisce aumentare lo straordinario, spinto dal fatto che in Italia, grazie alla fiscalizzazione, l’ora di straordinario costa meno dell’ora ordinaria. Così accade che siamo il Paese europeo (dopo la Grecia) con gli orari annui di lavoro più lunghi. Nei Paesi europei più attenti alle politiche per l’occupazione da anni lo straordinario è stato sostituito con una banca delle ore, cui imprenditori e lavoratori attingono per i loro bisogni di flessibilità e di qualità della vita, senza togliere lavoro ai giovani. Un altro provvedimento riguarda l’eliminazione dei danni dell’uso indiscriminato della cassa integrazione. Oggi, se un’azienda italiana deve ridurre la produzione del 25% chiede la Cig per il 25% dei suoi dipendenti, accollando allo Stato una spesa di quasi 1500 euro al mese. In Germania un’azienda nelle medesime condizioni riduce l’orario del 25% a tutti i dipendenti, accollando allo Stato la metà del salario perduto per meno orario, con una spesa complessiva che è un terzo rispetto a quella della Cig italiana, con uno strumento simile al nostro contratto di solidarietà. Sono due provvedimenti che richiamano la centralità della politica della redistribuzione del lavoro e della riduzione degli orari, mai perseguita in Italia a differenza di tutti gli altri Paesi europei, che hanno orari annui di lavoro inferiori a quelli dei nostri lavoratori ma tassi di disoccupazione generale e giovanili assai più bassi.

La Spezia, la Marina del Canaletto (2011)(foto Giorgio Pagano)

Circa il sostegno agli investimenti, non c’è dubbio che una nuova politica monetaria sarebbe una leva formidabile. La Banca Centrale Europea potrebbe in vari modi concorrere direttamente a finanziare l’economia reale. Questo è il nocciolo di quella “politica monetaria non convenzionale”, di cui tanto si discute dappertutto tranne che in Italia, dove il tema centrale è invece l’Imu. Certo, un tale cambiamento richiederebbe una battaglia culturale e politica nell’area euro. Ma, rileva l’economista Silvano Andriani, ”ciò che non sappiamo, data la mancanza di dibattito, è quali politici italiani, anche nel centrosinistra, condividano la necessità di una tale rottura con l’ortodossia e quali siano d’accordo col Governo tedesco e non sappiamo se quelli che dovessero condividere la rottura avrebbero poi il coraggio di sostenerla apertamente di fronte ai tedeschi”
Sugli investimenti, infine, c’è un altro ragionamento da fare. Non vanno sostenuti tutti in modo indiscriminato. Bisogna invece promuovere riforme di struttura, capaci di entrare nel merito di cosa produrre, di come farlo e per chi: è’ il tema del “nuovo modello di sviluppo”. Il ragionamento deve partire da questo assunto: si può uscire dalla crisi e offrire opportunità di lavoro ai giovani solo con una crescita sostenibile, perché un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non è, appunto, sostenibile. La crescita continua sta determinando un’imponente distruzione di forze naturali: la crisi ambientale e climatica. La domanda che dobbiamo porci è questa: esistono altre forme di economia che possono fare a meno della vecchia crescita? Che ci facciano uscire dalla crisi sia ambientale e climatica che economica? Sono convinto che la pista da seguire sia quella della “conversione ecologica dell’economia”, cioè del superamento del modello, dominante da 200 anni, basato sui combustibili fossili, sulle automobili e sulle materie plastiche. La green economy è il punto di partenza di questa visione, solo se non è un fattore aggiuntivo: significa efficienza energetica e ricorso alle fonti pulite e rinnovabili, rigenerazione urbana, ristrutturazione degli impianti industriali e abbattimento degli inquinanti, ristrutturazione delle reti di trasporto delle persone e delle merci, difesa del suolo, agricoltura come sicurezza alimentare e salvaguardia del territorio, restauro e valorizzazione dei beni storici, ambientali e culturali, industria creativa, eccellenza della produzione artigianale, prevenzione sanitaria, economia sociale e solidale, sviluppo del settore autogestito e cooperativo… Non è la rinuncia all’industria, anzi. Il problema è che la struttura produttiva nazionale, purtroppo, non produce più beni e servizi che il mercato, sia interno che internazionale, domanda. Solo per fare un esempio, su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da un’impresa estera in Italia e 1 da un’impresa italiana. La “conversione ecologica” comporta un cambiamento della specializzazione produttiva in settori a più alta intensità di ricerca e sviluppo e a maggiore sostenibilità. E’ un modello di sviluppo radicalmente alternativo a quello neoliberista: mette al centro i beni comuni e presuppone una nuova programmazione economica democratica e partecipata. Partecipata anche perché questo modello è impraticabile senza un cambiamento degli stili di vita individuali, delle persone. La “conversione ecologica” è sia oggettiva che soggettiva, sia trasformazione dei settori portanti dell’attuale assetto produttivo che impegno personale e collettivo verso equità, efficienza e sobrietà dell’uso delle risorse.
Il tema della “conversione” e di un “Green New Deal” è maturo anche per l’economia provinciale. Anche in questo caso servono certamente scelte nazionali, ma molto si può “anticipare” a livello locale. Il punto non è la decrescita, ma il fatto che qualcosa deve decrescere: consumo di suolo e progetti immobiliari invasivi come quelli contenuti nei masterplan di Marinella e del waterfront spezzino, dissesto idrogeologico, espansione delle periferie, mobilità privata, utilizzo del carbone nella centrale Enel, vecchie specializzazioni produttive…; mentre qualcos’altro deve crescere: ripopolamento rurale, turismo sostenibile, rigenerazione urbana, spazi pubblici, trasporto pubblico, industria creativa, nuovo welfare per gli anziani non autosufficienti e per contrastare la povertà, energie pulite e rinnovabili, nuove specializzazioni produttive… Sul merito va aperto un vero e grande confronto, strategico e partecipato. Perché una fase del modello di sviluppo della provincia si è chiusa, e bisogna discutere, con grande disponibilità al cambiamento e all’ascolto reciproco, di come aprire una fase nuova.

lucidellacitta2011@gmail.com

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